Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11205 del 20/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 20/05/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 20/05/2011), n.11205

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Z.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8810/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/05/2006 R.G.N. 5219/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega FIORILLO LUIGI;

Udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per la dichiarazione di

inammissibilità.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 28.5.2002, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto 14.10.1997, accertando che, per l’effetto, tra le parti si era instaurato un contratto a tempo indeterminato da quella data ed aveva condannato la società a riammettere la Z. in servizio ed a corrispondere alla predetta tutte le retribuzioni pari alla somma mensile di L. 2.646.793 dal 13.10.1999.

Con sentenza del 2.5.2006, la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto del 10.11.1998, con instaurazione da tale data di un rapporto a tempo indeterminato, confermando la sentenza nel resto.

Osservava, in sintesi, la Corte territoriale che il contratto del 14.10.1997 era stato concluso nel periodo in cui le parti sociali avevano valutato con l’accordo attuativo del 25.9.1997, che sino a 31.1.1998 l’impresa si trovava nella situazione di cui all’accordo integrativo concluso nella stessa data e che pertanto poteva procedere alle assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato; che, diversamente, doveva ritenersi per il contratto stipulato per il periodo 11.11.1998/30.1.1999, prorogato sino al 31.3.1999, stipulato al di fuori degli accordi attuativi, sicchè non poteva non ritenersi la nullità del termine allo stesso apposto, con le conseguenze affermate dal giudice di primo grado.

Propone ricorso per cassazione la società Poste Italiane, affidando l’impugnazione a tre motivi.

Resiste con controricorso la Z., che ha depositato, altresì, memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La ricorrente, con il primo motivo di ricorso, denuncia la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 1362 c.c. e segg., nonchè la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 425 c.p.c.; infine, l’insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine all’efficacia dell’accordo del 25.9.1997, integrativo dell’art. 8 ccnl del 1994. Sostiene che l’efficacia dell’accordo del 25.9.1997 non vada ritenuta limitata al 30.4.1998, atteso che gli atti intervenuti tra le parti successivamente all’accordo del 25.9.1997 avevano natura ricognitiva e non fissavano alcun limite temporale.

Anche il comportamento successivo delle parti, rilevante ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2 era – a dire del ricorrente – da interpretarsi nel senso che le parti avevano inteso introdurre un’ipotesi che doveva essere efficace fino allo scadere del CCNL del 27.11.1994. Ed invero, nell’accordo del 18.1.2001, le parti sociali si erano date atto che fino ad allora i contratti a termine erano stati stipulati dalla società in conformità a quanto previsto nell’accordo del 25.9.1997 e, dall’altro, avevano convenuto che per il futuro il ricorso ai contratti a termine sarebbe avvenuto in base a nuova disciplina pattizia di cui al ccnl 11.1.2001. Il contratto del 25.9.1997, era, dunque, integrativo della disciplina del ccnl e come tale destinato a valere per l’intera durata di questo, laddove gli accordi attuativi avevano il senso di verificare periodicamente la sussistenza delle ragioni giustificative del termine così come proceduralizzato nel successivo contatto collettivo de 2001.

Richiama, poi, le informazioni rese dai vari esponenti delle associazioni sindacali, da interpretare nel senso che gli accordi ed.

detti attuativi non potevano essere ritenuti limitativi dell’efficacia dell’accordo del 25.9.1997, in quanto contenenti esclusivamente prese d’atto della situazione in cui si trovava l’impresa.

Con il secondo motivo di ricorso, la società lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1961, art. 2 dell’art. 1362 c.c. e degli a artt. 244, 416, 420, 421 e 437 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad punto decisivo della controversia (artt. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto non provate le esigenze contingenti e soprattutto imprevedibili che avevano giustificato il ricorso, nel caso specifico, alla proroga dell’originario contratto e che era mancato l’accertamento in sede processuale delle circostanze dedotte, che avrebbero consentito di ritenere idonee a legittimare la proroga le esigenze contingenti ed imprevedibili sottese alla stessa.

Con il terzo motivo, infine, deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1223 c.c..

Osserva che la domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro non è idonea a determinare una situazione di mora accipiendi e che non poteva assumere a detti fini rilevanza l’istanza per il tentativo obbligatorio di conciliazione, prodromica all’instaurazione della controversia. Rileva la mancata verifica dell’entità del risarcimento, prospettando la possibilità che il lavoratore avesse espletato attività lavorativa retribuita da terzi e che l’aliunde perceptum non poteva che essere dedotto genericamente dalla società.

Premesso che nella fattispecie va applicato l’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 (cfr., fra le altre Cass. 24-3-2010 n. 7119, Cass. 16-12-2009 n. 26364). osserva il Collegio che il ricorso risulta inammissibile per mancanza dei quesiti di diritto imposti dalla detta norma.

L’art. 366 bis c.p.c., infatti, “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dicta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione a quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione” (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

in particolare, il quesito di diritto, in sostanza, deve integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4- 2009 n. 8463) e “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” è, adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v.

Cass. 30-9-2008 n. 24339).

Pertanto, come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato ex art. 384 c.p.c., “è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronuncia dei giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte” (v. Cass. SU. 26-3- 2007 rv 7258, Cass. 7-11-2007 n. 23153), non potendo, peraltro, il quesito stesso desumersi dal contenuto dei motivo, “poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste proprio nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al migliore esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (v. Cass. 24-7-2008 n 2040, cfr. Cass. S.U. 10- 9-2009 n. 19444).

Orbene, nella fattispecie, la società ricorrente, che pur ha ampiamente illustrato i singoli motivi di ricorso, riguardanti sia asserite violazioni di norme di diritto che censure riferite all’art. 360 c.p.c., n. 5, non ha formulato alcun quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., nè ha prospettato, sia pure in modo sintetico, le ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

P.Q.M.

LA CORTE così provvede:

dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali , IVA e Cpa come per legge.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2011

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