Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11204 del 28/04/2021

Cassazione civile sez. II, 28/04/2021, (ud. 04/02/2021, dep. 28/04/2021), n.11204

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25886/2016 proposto da:

R.G., rappresentata e difesa dall’avv. MARINA REA;

– ricorrente –

contro

R.L., rappresentato e difeso dagli avv.ti SILVIO BRUNI,

ANTONIO BRUNI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5885/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/02/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui in esame può sintetizzarsi, per quel che residua d’utilità, nei termini seguenti:

– decidendo anche su altre domande, che qui non rilevano, il Tribunale rigettò la domanda di R.L., con la quale aveva chiesto condannarsi la sorella G. a ripristinare un cancello comune, che consentiva l’accesso all’edificio dalla pubblica via;

– la Corte d’appello di Roma, accolta l’impugnazione di L., condannò la sorella “a ridurre l’anta del cancello dalla stessa “fissata a terra” in parte sulla zona comune catastalmente identificata nel NCT del Comune di Isola del Liri al fg. (OMISSIS) part. (OMISSIS), in modo tale da permettere il libro accesso dalla pubblica via alla detta zona comune nonchè al fondo di proprietà dell’appellante per un’ampiezza di ml. 3,65 pari a quella della particella sopradescritta”;

ritenuto che R.G. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria, e che R.L. resiste con controricorso;

ritenuto che con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando violazione della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, in quanto:

– in primo grado, solo in “fase conclusionale” l’attore aveva chiesto che “la sorella fosse condannata alla rimozione della terza anta “ai fini di… permettere… il libero accesso”, in favore del suo “fondo… per un’ampiezza di ml 3,65 e/o di giustizia…””;

– in appello, concludeva “l’atto introduttivo chiedendo che la sorella fosse condannata, oltre all'”accoglimento… della domanda proposta con atto di citazione” anche alla rimozione della terza anta “ai fini di ripristinare e/o permettere il libero accesso e transito sulla zona comune ed al fondo dell’istante… per un’ampiezza di ml 3,65 e/o di giustizia””;

– nella citazione di primo grado R.L. aveva chiesto che la sorella “rimuovesse sì, la terza anta, ma solo al fine di “ripristinare… per tutta la sua… ampiezza”, l'”accesso” del cancello, da sempre esistente (2,60 ml)”;

– nonostante l’eccezione dedotta, sia nella comparsa conclusionale di primo grado, che nell’atto costitutivo d’appello, la Corte locale non si era pronunciata sul punto;

– poichè le novità introdotte dalla controparte violavano l’art. 183 c.p.c., comma 5 e l’art. 345, c.p.c., conseguendone anche la “profanazione” dell’art. 24, Cost., la sentenza d’appello meritava d’essere cassata;

considerato che il motivo non supera il vaglio d’ammissibilità:

a) l’omesso esame di una questione puramente processuale non integra il vizio di omessa pronuncia, configurabile soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito, dovendosi escludere che l’omesso esame di un’eccezione processuale possa dare luogo a pronuncia implicita, idonea al giudicato, venendo in rilievo la diversa questione della riproposizione dell’eccezione in appello (sez. 6, n. 6174, 14/3/2018, Rv. 648218), o in cassazione, il che è lo stesso;

b) l’eccezione risulta priva di fondamento, in quanto:

b1) L. aveva chiesto con l’atto introduttivo che si liberasse l’ingresso per tutta la sua ampiezza, nel mentre la precisazione della misura, puntualizzata in sede di precisazione delle conclusioni, risulta essere frutto degli accertamenti istruttori e non modifica la qualità della pretesa, cristallizzata nell’atto introduttivo (che si compulsa tenuto conto della natura processuale della deduzione), con il quale l’attore aveva chiesto “dichiarare illegittima l’apertura del nuovo portone d’accesso in quanto determina una indebita servitù d’accesso e transito”;

b2) inoltre, la ricorrente non deduce di avere tempestivamente eccepito, sempre in sede di precisazione delle conclusioni, il preteso mutamento della domanda e, di conseguenza, non sfugge alla preclusione che ne deriva, poichè, come più volte affermato da questa Corte, la domanda proposta all’udienza di precisazione delle conclusioni deve ritenersi ritualmente introdotta in giudizio, per accettazione implicita del contraddittorio, qualora la parte verso la quale essa è rivolta non ne abbia eccepito, nella stessa udienza, la preclusione, non essendo utile allo scopo l’opposizione fatta in comparsa conclusionale (ex multis, Sez. 2, n. 30699, 27/11/2018, Rv. 651595);

c) infine, solo per completezza di risposta, si precisa che la denunzia di violazione di norme costituzionali è inammissibile, stante che la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (di recente, Sez. 5, n. 15879, 15/6/2018, Rv. 649017; conf. n. 3709/2014);

ritenuto che con i motivi da 2 a 4 la ricorrente sottopone la sentenza d’appello a una pluralità di critiche, senza individuare a quale delle ipotesi tipizzate dall’art. 360 c.p.c., intenda fare riferimento, nè indicando le norme asseritamente violate o falsa mente applicate, lamentando, in sintesi:

– che il silenzio della Corte locale d’appello non poteva giustificarsi attingendosi alla categoria dei diritti autodeterminati, poichè il resistente aveva fatto riferimento alla categoria dei diritti eterodeterminati, avendo lamentato “l’inadempimento contrattuale della sorella”; inoltre, la sentenza non aveva tenuto conto del fatto che, a seguito del mutamento, la domanda contrattuale era stata trasformata in domanda petitoria;

– “la Corte territoriale (aveva) sentenziato non rappresentandosi il rischio che la riqualificazione della domanda giudiziaria rispetto a quella originariamente avanzata dal R., significava pronunciare non più solo in ordine al passaggio tramite il vecchio cancello, ma relativamente a un nuovo passaggio, quello che veniva costituito ex novo e che oltretutto, gravava sul terreno comune, costituendo, però, diritto di accesso esclusivo di un solo comproprietario, R.L., che lo aveva ottenuto per il raggiungimento del suo fondo”;

– concesso all’appellante di poter raggiungere il suo fondo, così attraversando per “tutta la sua lunghezza” la particella “comune e non pizi solo tramite l’ingresso del cancello, la Corte non considerava che introduceva in giudizio un nuovo rapporto giuridico tra i comproprietari e la loro particella comune” e costoro avrebbero dovuto “essere necessariamente chiamati in giudizio”, di conseguenza, “se la sentenza del primo grado di giudizio non aveva dato corpo ad un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra i detti comproprietari, poichè le originarie parti processuali avevano introdotto i propri diritti al solo fine di respingere reciprocamente le pretese l’una dell’altra, con determinazione, indi, d’un accertamento soltanto incidenter tantum dei fatti, non altrettanto può essere asserito per il giudizio d’appello”;

– in subordine, andava registrata la “violazione… dell’istituto della donazione”, poichè la sentenza “ne ignorava la natura contrattuale” e che le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto; la sentenza aveva imposto alla ricorrente “la rimozione della terza anta con cui ampliava il preesistente cancello, senza indagare sulla volontà della donante che le aveva concesso tale facoltà”; inoltre, erroneamente la decisione si era fondata su accertamenti tecnici, senza tener conto dei titoli di provenienza e ignorando che i frazionamenti allegati agli atti d’acquisto “non assumono valore vincolante indistintamente in tutti i casi, ma solo quando oggetto di contestazione giuridica tra le parti sia una situazione tecnica come ad esempio, il regolamento di confini”; “il confine divisorio tra i due terreni in lite… coincideva col pilastro e col muro innestatovi, abbattuti dal R.”; il tipo di frazionamento non rappresentava la volontà dei contraenti, avendo la donante precisato che la produzione era diretta alle volture; nonostante che l’atto di

donazione consentisse alla R. l’ampliamento del cancello, la

Corte d’appello aveva ordinato la rimozione dello stesso “adducendo quale motivo ostativo” l’esistenza d’una limitazione, la quale, però, risultava inespressa, non sottintesa o sottintendibile nell’atto stesso”; la sentenza non si era ottenuta al significato letterale dell’atto di donazione, che non era “generico o vago”;

– ciò posto la ricorrente conclude chiedendo a questa Corte di cassare la sentenza d’appello “perchè violava il rispetto del principio dispositivo generale, secondo cui le situazioni sostanziali di diritto devono sempre essere riportate negli atti”;

– era “insostenibile la sua (della ricorrente) soccombenza per non avere coltivato l’eccezione d’usucapione”; la Corte locale era incorsa in “palese confusione nella ricostruzione dei fatti”;

l’insieme censuratorio sopra richiamato non supera, all’evidenza, il vaglio d’ammissibilità:

a) questa Corte ha già avuto modo di precisare che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e circoscritto dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito; ne consegue che il motivo (o i motivi, il che è lo stesso) del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., (ex multis, Sez. 5, n. 19959, 22/9/2014); il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; pertanto, pur non essendo decisivo il testuale e corretto riferimento a una delle cinque previsioni di legge, è tuttavia indispensabile che il motivo individui con chiarezza il vizio prospettato nel rispetto della tassativa griglia normativa (cfr., da ultimo Sez. 2, n. 17470/2018);

b) da quanto sopra deriva che il ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Sez. 6, n. 11603, 14/5/2018, Rv. 648533);

c) nel caso in esame il ricorso presenta una struttura atipica, promiscua, confusa e oscura, essendo diretto a censurare, piuttosto che gli specifici vizi di cui s’è detto, i singoli passaggi decisionali della statuizione impugnata, sul modello dell’atto d’appello, mostrando in intreccio inestricabile di pretese, nonchè di prospettate violazioni, indissolubilmente compenetrate con il fatto e largamente eccentriche; critica che, in ogni caso, si risolve in un’inammissibile istanza di riesame della motivazione, ben al di fuori dell’ipotesi prevista dell’art. 360 c.p.c., n. 5 vigente, e in un alternativo accertamento fattuale;

d) la narrazione, a prescindere dall’intrinseca sua scarsa logica consequenzialità, presuppone fatti, documenti e vicende in questa sede inconoscibili;

e) manca la indicazione delle norme pretesamente violate, in alcun modo identificabili attraverso una lettura, pur mirata, della doglianza, tesa a un improprio riesame critico delle valutazioni del Giudice d’appello e, sul punto, questa Corte (Sez. 3, n. 3997, 18/3/2003) ha già avuto modo di precisare che ove gli argomenti addotti dal ricorrente non consentono, nel loro insieme, di individuare le norme o il principio di diritto che si assumono violati, la doglianza non è scrutinabile; sul punto si veda la recente S.U.: in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (sent. n. 23745/2020, Rv. 659448);

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza che le stesse possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2021

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