Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11202 del 28/04/2021

Cassazione civile sez. II, 28/04/2021, (ud. 04/02/2021, dep. 28/04/2021), n.11202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19996/2016 proposto da:

V.M., elettivamente domiciliata in ROMA, V. TARANTO 44,

presso lo studio dell’avvocato MICAELA CORSO, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANTONIO TURCO;

– ricorrente –

contro

R.R., V.A., V.G., V.S.,

V.G.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 479/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 17/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/02/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda, per quel che qui residua d’utilità, può riassumersi nei termini seguenti:

– R.A., vedova di C.D.E. citò in giudizio V.G., M., G.S., A. e S., tutti figli di C.C., sorella di D., chiedendo si provvedesse alla divisione del compendio ereditario del defunto marito in favore della moglie e dei figli della sorella premorta, ai sensi dell’art. 582 c.c.;

– V.M., unica convenuta a essersi costituita, dedusse la nullità dei testamenti olografi del 6/2/1949 e del 12/7/1949, con i quali i genitori di D. avevano nominato erede costui, nel mentre l’attrice, oltre a contrastare l’eccezione di nullità, dedusse che il D., nel possesso esclusivo dei beni che i genitori gli avevano lasciato dalla morte della madre ((OMISSIS)), ne era comunque divenuto proprietario per usucapione, essendo deceduto il (OMISSIS);

– succeduta “mortis causa” all’attrice la di lei figlia R.R., il Tribunale con la sentenza parziale n. 158/2001 del 24/4/2001 dichiarò la nullità delle predette schede testamentarie e con la sentenza parziale n. 113/2002 del 26/4/2002 dichiarò che C.D.E. era divenuto proprietario dei cespiti di cui si discute per usucapione; con la sentenza definitiva, disposta CTU, dichiarata aperta la successione di D. alla data del 14/3/1986 e determinata la massa ereditaria e le relative quote (2/3 spettanti alla moglie e il restante terzo spettante agli eredi V.), assegnò alla moglie e, per essa, alla figlia R.A., una casa d’abitazione, della quale venne ordinato il rilascio a V.M., e i terreni, ai germani V., con pagamento in loro favore di un conguaglio in denaro;

– la Corte d’appello di Salerno, con la sentenza di cui in epigrafe rigettò l’impugnazione di V.M. avverso le due sentenze parziali e quella definitiva di primo grado.

ritenuto che V.M. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di cinque motivi, ulteriormente illustrati da memoria, e che R.R. è rimasta intimata;

considerato che il primo motivo con il quale la ricorrente denunzia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè omessa motivazione su un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, assumendo che il Tribunale prima e la Corte d’appello poi avevano riconosciuto l’acquisto per usucapione in capo al dante causa della controparte, nonostante che “il thema decidendum non avrebbe giammai potuto riguardare la tardiva e subordinata richiesta di usucapione”, non essendo, inoltre dato comprendere perchè la medesima richiesta avanzata dalla R. in sede di conclusioni fosse stata giudicata tardiva, non supera lo scrutinio d’ammissibilità, valendo quanto segue:

– la Corte salernitana ha spiegato che l’avversata domanda era stata fatta valere, quale “reconventio reconventionis”, con tempestiva memoria del 14/11/1990, in risposta a quella di nullità dei testamenti svolta riconvenzionalmente dalla convenuta e appellante con la memoria di costituzione del 22/11/1989, trattandosi, pertanto, di domanda consentita ai sensi dell’art. 183 c.p.c., rilevando, inoltre, che R.R., subentrata all’attrice principale, ne aveva richiamato, costituendosi in riassunzione, deduzioni e conclusioni; nel mentre l’eccezione d’usucapione, a sua volta, proposta dalla V., era stata esaminata dal Tribunale, rimanendo travolta dall’accoglimento della domanda della R.;

– di talchè (e sul punto va corretta la motivazione della sentenza di secondo grado) la proposizione in appello della domanda d’usucapione da parte della V. non avrebbe potuto essere soddisfatta, “per la contraddizione che non consente”, essendo stata accolta la reconventio reconventionis della R.;

infine, val la pena soggiungere che l’asserito omesso esame di un fatto controverso e decisivo costituisce una nuda enunciazione del tutto al di fuori delle ipotesi previste dalla norma evocata (cfr., per tutte, S.U. n. 8053/2014);

considerato che il secondo motivo, con il quale la V. denunzia nullità della sentenza, nonchè omessa motivazione, “omessa pronuncia”, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 310,303,305,784 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, assumendo che la R. aveva tardivamente riassunto la causa, a cagione di vizi di notifica, che avevano imposto la rinnovazione, con la conseguenza che il processo si era estinto (il Giudice aveva, pertanto, violato anche l’art. 116 c.p.c. e reso motivazione contraddittoria nel verificare la tempestività della riassunzione), è manifestamente infondato, avendo la Corte locale fatta corretta applicazione del principio di diritto enunciato da questa Corte, che, in sintesi, può riportarsi nei termini di cui appresso:

– le S.U., con la sentenza n. 14854 del 28/6/2006, hanno chiarito, dirimendo contrasto interpretativo sul punto, che verificatasi una causa d’interruzione, il meccanismo di riattivazione del processo interrotto impone la distinzione del momento della rinnovata “edictio actionis” da quello della “vocatio in ius” e il termine perentorio di sei mesi (tre mesi per i giudizi instaurati dal 4/7/2009), previsto dall’art. 305 c.p.c., è riferibile solo al deposito del ricorso nella cancelleria del giudice; sicchè, una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della “vocatio in ius”. Pertanto il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice, che rilevi la nullità, di ordinare la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un termine necessariamente perentorio, solo il mancato rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, u.c. e del successivo art. 307, comma 3 (Rv. 589898; conf., ex multis, Sez. 1, n. 18713/2007; Sez. 6, n. 21869/2013; Sez. 3, n. 2174/2016; Sez. 1, n. 6921/2019);

– senza contare che l’atto di riassunzione senza mutamenti sostanziali degli elementi costitutivi del processo non occorreva fosse notificato ai contumaci; infatti il contumace deve essere posto a conoscenza mediante la relativa notificazione, dell’atto riassuntivo solo quando questo comporti un radicale mutamento della preesistente situazione processuale, perchè, in tal caso, la duplice circostanza che egli abbia accettato la precedente situazione processuale e deciso di non partecipare al giudizio non consente di presumere che intenda mantenere la stessa condotta nella nuova situazione (Sez. 2, n. 13015, 24/5/2018, Rv. 648758);

considerato che il terzo motivo, con il quale la ricorrente allega violazione e falsa applicazione degli artt. 459,470 e 2697 c.c., artt. 99,110,116 e 300 c.p.c., nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, sul presupposto che R.R. non aveva provato la propria qualità di erede, quale figlia di R.A., qualità che trovava smentita in un certificazione di stato di famiglia rilasciato il (OMISSIS), dal quale constava che il D., asserito marito di R.A., era celibe e del quel si chiedeva produzione in questa sede, ex art. 372 c.p.c., non è fondato, valendo quanto segue:

– la Corte territoriale ha reputato provato il rapporto di discendenza con la produzione di certificazione di nascita attestante la genitorialità e la qualità di erede per accettazione tacita, anche attraverso l’esercizio dell’azione processuale;

– pur vero che chi agisce, anche in riassunzione, in qualità di erede deve provare la predetta qualità, secondo la regola di cui all’art. 2697 c.c. (cfr. S.U. n. 12065/2014, Sez. 6 n. 11276/2018, Sez. 6 n. 8973/2020), tuttavia, una tale prova resta assoggettata ai canoni ordinari della libera valutazione del giudice e il relativo onere ben può essere soddisfatto anche solo attraverso inferenze presuntive, dovendosi precisare che, oltre che del principio di non contestazione, il giudice deve tenere conto del grado di specificità della contestazione della controparte, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della prova addotta dalla controparte, e qui, a fronte della certificazione anagrafica puntuale, non consta che la ricorrente abbia opposto specifiche controdeduzioni;

– il certificato di famiglia al quale fa riferimento la ricorrente non può essere prodotto in questo giudizio, a mente dell’art. 372 c.p.c., non riguardando esso la nullità della sentenza impugnata, nè l’ammissibilità del ricorso;

– infine, correttamente la Corte di Salerno reputa che la R. col fatto stesso di avere agito in giudizio abbia accettato tacitamente l’eredità di sua madre (cfr. Sez. 3, n. 22223/2014; Sez. 2, n. 6745/2018);

considerato che il quarto motivo, con il quale la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 459,470 c.c., artt. 99,110 e 300 c.p.c., nonchè “omessa e contraddittoria motivazione”, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, risulta palesemente inammissibile per difetto di specificità e puntuale attitudine censuratoria, con la doglianza in esame, infatti, la V. si duole del criterio sulla base del quale il Giudice aveva incluso solo determinati beni nel “patrimonio ereditario”, del valore attribuito agli stessi, del progetto di divisione, della condanna al rilascio:

– questa Corte ha già avuto modo di precisare che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e circoscritto dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito; ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c. (ex multis, Sez. 5, n. 19959, 22/9/2014); il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; pertanto, pur non essendo decisivo il testuale e corretto riferimento a una delle cinque previsioni di legge, è tuttavia indispensabile che il motivo individui con chiarezza il vizio prospettato nel rispetto della tassativa griglia normativa (cfr., da ultimo Sez. 2, n. 17470/2018);

– da quanto sopra deriva che il ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Sez. 6, n. 11603, 14/5/2018, Rv. 648533);

– nel caso al vaglio il motivo in esame, presenta una struttura atipica, promiscua, confusa e oscura, essendo diretto a censurare, piuttosto che gli specifici vizi di cui s’è detto, i singoli passaggi decisionali della statuizione impugnata, sul modello dell’atto d’appello, mostrando in intreccio inestricabile di pretese, nonchè di prospettate violazioni, indissolubilmente compenetrate con il fatto e largamente eccentriche; critica che, in ogni caso, si risolve in un’inammissibile istanza di riesame della motivazione, ben al di fuori dell’ipotesi prevista dell’art. 360, c.p.c. vigente, n. 5 e in un alternativo accertamento fattuale;

– la narrazione, sommamente generica, a prescindere dall’intrinseca sua scarsa logica conseguenzialità, presuppone fatti, documenti e vicende in questa sede inconoscibili;

considerato che il quinto motivo, con il quale la ricorrente deduce violazioni dell’art. 112 c.p.c., “omessa, contraddittoria ed insufficiente pronuncia”, omessa pronuncia su un fatto controverso e decisivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 11451, 1147 e 1158,2697 c.c. e art. 116 c.p.c., assumendo, ancora una volta, che la sentenza d’appello aveva errato nell’ammettere la domanda d’usucapione della controparte e nel non avere vagliato quella della ricorrente, che, pur proposta con la costituzione in appello, avrebbe dovuto reputarsi consentita vertendosi in materia di diritti autodeterminati e che la sentenza di merito non aveva correttamente vagliato le emergenze probatorie, che il ricorrente passa in rassegna, deve essere dichiarato inammissibile per il concorrere di più ragioni:

– in primo luogo non può che reiterarsi ciò che si è chiarito a proposito del quarto motivo in ordine alla struttura atipica della censura;

– in ogni caso, quanto all’art. 112 c.p.c., si è già detto in relazione al primo motivo;

– quanto alle critiche mosse al vaglio probatorio, sotto l’evocazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., deve ribadirsi che attraverso la denunziata violazione la ricorrente mira al raggiungimento dello scopo eccentrico, diretto a contestare il vaglio probatorio, poichè, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299), stante che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (Sez. 3, n. 23940, 12/10/2017, n. 645828);

– da ultimo è bene precisare che la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459);

considerato che non occorre far luogo al regolamento delle spese poichè la controparte è rimasta intimata;

che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2021

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