Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11198 del 28/04/2021

Cassazione civile sez. II, 28/04/2021, (ud. 22/01/2021, dep. 28/04/2021), n.11198

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8923/2016 proposto da:

S.S., rappresentata e difeso dall’Avvocato PASANISI

BERNARDINO, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

TARANTO, C.so UMBERTO 29;

– ricorrente –

contro

A.R., SU.MA.FO. e SI.PR.,

rappresentate e difese dagli Avvocati Mila Milazzo, e Giuseppe De

Giorgio, elettivamente domiciliate, presso lo studio dell’Avv.

Arcangelo Bruno, in ROMA, VIA GREGORIO VI 154;

– controricorrente –

e nei confronti di:

La COMUNIONE dei comproprietari dell’Immobile, in Agro di (OMISSIS),

in persona dell’amministratore Avv. Al.Gi.

– intimate –

avverso la sentenza n. 525/2015 della CORTE d’APPELLO di LECCE,

depositata il 16/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/01/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 697/2005, emessa dal Tribunale di Taranto, confermata in appello e passata in cosa giudicata per effetto del rigetto del ricorso in Cassazione, S.V. era stato condannato al rilascio del terreno identificato in Catasto al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS), costituente parte del fondo di maggiore superficie, in favore della COMUNIONE dei COMPROPRIETARI dell’immobile in Agro di (OMISSIS), nonchè di C.L., SU.MA.FO., SI.PR., A.R., AL.AN., AL.CO., AL.GI., gli ultimi tre quali eredi di al.gi.. In sede di esecuzione forzata della sentenza di rilascio, l’Ufficiale Giudiziario concedeva a S.V. un termine per lo sgombero del terreno occupato da beni mobili di sua proprietà ma, stante il perdurante inadempimento, i comproprietari del fondo, nell’assemblea del 27.10.2006, con voto favorevole dell’unanimità dei presenti (pari al 75% del valore dell’immobile) deliberavano: 1) di procedere alla rimozione dei beni mobili del S.; 2) di chiudere il cancelletto che a suo tempo il S. aveva realizzato per mettere in comunicazione il terreno recintato in comproprietà con un immobile di sua proprietà; 3) di contattare un tecnico di fiducia per la redazione di un progetto di fattibilità edilizia residenziale.

Avverso la suddetta deliberazione proponeva impugnazione S.S., figlia di S.V., che nel frattempo aveva acquistato dai coniugi M.A. e CA.PA. un ottavo dell’intero fabbricato, sito in (OMISSIS), in Catasto al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS), con atto notarile del 5.9.2006, chiedendo la sospensione dell’esecutività e l’annullamento e/o la dichiarazione di nullità della stessa in quanto lesiva di pretesi diritti vantati sul bene.

Nel giudizio rimanevano contumaci M.A. e Ca.Pa., mentre si costituiva la comunione dei comproprietari dell’immobile in agro di (OMISSIS) (in Catasto al foglio (OMISSIS), particelle (OMISSIS)), nonchè C.L., Su.Ma.Fo., Si.Pr., al.gi., A.R., contestando le domande attoree e denunciandone l’inammissibilità per difetto di legittimazione attiva dell’attrice e l’infondatezza nel merito.

Con scrittura privata autenticata del 10.4.2007, S.S., unitamente ai suoi danti causa, precisava che la porzione di terreno di circa mq. 1.400, cui faceva riferimento la Delibera impugnata, costituiva pertinenza “del fabbricato ultimato in piano terra sito in (OMISSIS) di metri quadrati quarantasette”, la cui quota di 1/8 era già stata oggetto della compravendita dalle medesime parti stipulata il 5.9.2006; di conseguenza la S. deduceva che, in ragione di tale atto, fosse divenuta proprietaria per la medesima quota di 1/8 anche di tale pertinenza.

Con la sentenza n. 1217/2010 il Tribunale di Taranto rigettava la domanda della S. rilevando il suo difetto di legittimazione, in quanto con atto del 5.9.2006 l’attrice aveva acquistato 1/8 dell’intero fabbricato sito in contrada (OMISSIS), sicchè alla data dell’assemblea, nella quale erano state adottate le deliberazioni impugnate, costei non era comproprietaria del fondo di cui alla p.lla (OMISSIS). Infatti, l’atto del 10.4.2007, a prescindere dall’effettiva configurabilità del vincolo pertinenziale, era intervenuto dopo la citata Delibera, sicchè la S. non avrebbe potuto essere neppure convocata in assemblea. Secondo il Tribunale la domanda era anche infondata nel merito.

Avverso la suddetta sentenza proponeva appello S.S. chiedendo di accertare l’illegittimità delle deliberazioni assembleari impugnate.

Si costituivano A.R., Al.An., Al.Co., Al.Gi., C.L., Su.Ma.Fo. e Si.Pr., che insistevano affinchè fosse dichiarata la carenza di legittimazione attiva dell’appellante e dichiarato inammissibile l’appello e, in ogni caso, rigettate le domande confermando la sentenza impugnata.

Dichiarata la contumacia della comunione in persona dell’amministratore, di M.A. e di Ca.Pa., con sentenza n. 525/2015, depositata in data 16.12.2015, la Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, rigettava il gravame condannando l’appellante alle spese del grado di appello. In particolare, in merito alla carenza di legittimazione attiva, rilevava che con l’atto per notar c. del 5.9.2006, la S. aveva acquistato la sola comproprietà del fabbricato edificato (abusivamente dal padre, S.V.) sulla p.lla (OMISSIS) e non del suolo di mq. 1.400 su cui il suddetto piccolo fabbricato insisteva. Con “atto di precisazione” per notar c. del 10.4.2007, la S. e i suoi danti causa M. – Ca. avevano precisato la descrizione di quanto compravenduto il 5.9.2006, affermando che la porzione di terreno di mq. 1.400 fosse di pertinenza del fabbricato e che quindi fosse compresa in detta vendita.

La Corte d’Appello non ravvisava il vincolo pertinenziale tra terreno e fabbricato, attesa l’evidente insussistenza di subordinazione funzionale del primo al secondo e considerato che il tenore letterale dell’unico atto opponibile, quello del 5.9.2006, non menzionava il terreno, limitandosi a una clausola di stile. Quanto all’impugnativa della deliberazione dell’assemblea dei comunisti del 27.10.2007, evidenziava che nessuna delle decisioni adottate sembrava integrare un “abuso della maggioranza”. Con riferimento alla rimozione dei beni mobili di proprietà del padre della S., si osservava che, in tema di comunione, l’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari è consentito per accordo tra i partecipanti solo se l’utilizzazione rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, per cui quando la cosa comune sia alterata si rientra nell’appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso di tutti i partecipanti da esprimere in forma scritta ad substantiam, trattandosi di bene immobile (Cass. n. 14694 del 2015). Anche la chiusura del cancelletto risultava illegittima in quanto non è consentita l’apertura di un varco nel muro perimetrale dell’edificio condominiale da parte di un comproprietario. Inoltre, la volontà di affidare a un tecnico un progetto di fattibilità edilizia non integrava una decisione attuale, ma futura e ipotetica in ordine alla destinazione del bene comune. Infine, quanto alle spese, si evidenziava che il mancato esercizio del potere di compensazione non potesse essere dedotto quale motivo di illegittimità della decisione, che, invece, aveva applicato il principio della soccombenza.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione S.S. sulla base di cinque motivi. Resistono A.R., Su.Ma.Fo. e Si.Pr. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione di legge ex art. 360, n. 3, in relazione agli artt. 1372,1376,2643,1362,1367 e 2720 c.c.”, poichè la Corte distrettuale avrebbe violato le suddette norme affermando che l’atto di precisazione del 10.4.2007 non fosse idoneo a determinare il trasferimento del suolo di mq. 1.400, circostante il fabbricato di mq. 47, trasferito con precedente atto del 5.9.2006. In particolare, la Corte territoriale avrebbe violato l’art. 1372 c.c., secondo il quale il contratto ha forza vincolante tra le parti e con il menzionato “atto di precisazione” le parti avevano determinato l’effetto traslativo. Il Giudice di secondo grado avrebbe altresì violato l’art. 1362 c.c., nell’interpretazione della volontà contrattuale che non è stata ricercata sull’assunto della sua irrilevanza a fronte delle considerazioni sulla natura pertinenziale o meno del suolo al fabbricato. Ulteriore violazione avrebbe investito l’art. 2720 c.c., in quanto sarebbe stato negato valore confessorio alle dichiarazioni di cui all’atto di ricognizione del 10.4.2007, e la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare se le parti con il negozio di accertamento avessero rimosso l’incertezza sul contenuto di un precedente contratto traslativo della proprietà. Altra violazione riguarderebbe l’art. 1376 c.c., in quanto il Giudice d’appello riteneva che la carenza di efficacia dell’atto di ricognizione sarebbe derivata dalla sua inidoneità alla trascrizione e quindi all’opponibilità del contratto ai terzi. Osserva la ricorrente che soggetto a trascrizione è il precedente contratto traslativo, di cui quello in oggetto è diretto a disciplinare l’ambito oggettivo, divenendo anch’esso trascrivibile.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 (violazione o falsa applicazione delle norme di diritto) deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate (soprattutto allorquando dette norme siano numerose e eterogenee), ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

1.3. – Va ribadito, infatti, che il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). E’ consolidato il generale principio ermeneutico secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

1.4. – Parimenti, per venire più specificamente al thema decidendum, va rilevato che, quanto alla interpretazione del contratto (specificamente riferibile alle censure mosse con il primo motivo), l’accertamento, anche in base al significato letterale delle parole, della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto dei negozi inter partes (cfr. Cass. n. 18509 del 2008), si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che tale accertamento è anch’esso censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto là interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10466 del 2017; Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003). Essendo altresì pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimità è configurabile (cosa che nella specie non è dato ravvisare) solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice di merito, e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre a una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non già quando vi sia difformità rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014).

1.5. – A ciò si correla teleologicamente l’ulteriore principio, altrettanto consolidato, per il quale i requisiti di contenuto e forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possano essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla stessa indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 2018; conf. Cass. n. 20694 del 2018).

Il ricorrente ha, dunque, l’onere (che nella specie non risuta esser stato assolto) di indicarne nel ricorso il contenuto rilevante, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 5478 del 2018; Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso) (Cass. n. 17168 del 2012). E indicare – mediante anche la trascrizione, ove occorra, di detti atti nel ricorso – la risultanza che egli asserisce essere decisiva e/o non valutata, o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).

1.6. – Così come articolate, tutte le censure riportate nel primo motivo, si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte; così mostrando i ricorrenti di anelare (in un contesto rapsodico) ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Ma, come più volte posto in rilievo, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

1.7. – Quanto al contenuto del motivo, pur qualificando l’atto di precisazione come negozio di accertamento, la ricorrente pretendeva di attribuire a esso effetti reali e persino valore probatorio di confessione. Tali ambiguità si traducono in un’assoluta indeterminatezza dell’asserito error in iudicando attribuito ai Giudici di merito. Nella fattispecie, non è in discussione l’efficacia tra le parti dell’atto di precisazione, ma la sua opponibilità ai terzi, comproprietari del bene e la sua idoneità a legittimare la ricorrente a impugnare la Delibera della comunione. Del resto, la stessa ricorrente mostra di escludere ogni efficacia traslativa dell’atto di precisazione nel momento in cui lo ha qualificato come “negozio di accertamento”, al fine di far retroagire il preteso acquisto al tempo della compravendita, anteriore alla Delibera, così opponendolo ai comproprietari del bene.

In secondo luogo, del tutto priva di fondamento è la censura di violazione delle norme in materia di ermeneutica contrattuale, in quanto l’esclusione della natura pertinenziale del bene oggetto dell’atto di precisazione non ha nulla a che fare con la ricostruzione della volontà manifestata dalle parti, poichè volta ad accertare fatti a esso preesistenti, riguardanti lo stato dei beni e la loro destinazione.

Quanto alla pretesa violazione dell’art. 2720 c.c., la sentenza impugnata aveva correttamente affermato che l’atto di precisazione non fosse da considerarsi ricognitivo poichè l’efficacia probatoria dell’atto ricognitivo, avente natura confessoria, si esplica solo in ordine ai fatti produttivi di rapporti giuridici sfavorevoli al dichiarante, nei casi espressamente previsti dalla legge.

Pertanto, la ricorrente non aveva trascritto il suddetto negozio di accertamento, nè avrebbe potuto farlo stante la natura dichiarativa dello stesso, oltre alla inconferenza del richiamo all’art. 1376 c.c., che riguarda i contratti con effetti reali. Con la conseguenza che a tale atto non poteva riconoscersi valore di prova circa la esistenza del diritto di proprietà o (al di fuori dei casi previsti) di altri diritti reali (Cass. n. 9687 del 2003; conf. Cass. n. 10238 del 2013).

2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la “Violazione di legge ex art. 360, n. 3, in relazione agli artt. 1102 e 1175 c.c.. Nullità del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 132 c.p.c. e all’art. 118 disp. att. c.p.c.”, in quanto nella sentenza impugnata sarebbe mancata la motivazione in merito al profilo dell’abuso del diritto e in merito alla circostanza per cui la delibera, disponendo la rimozione dei beni mobili, aveva escluso il diritto della S. di utilizzo del suolo. Da ciò la dedotta nullità procedimentale per violazione delle norme sul contenuto minimo della motivazione, e la violazione dell’art. 1175 c.c., non essendosi colta la natura emulativa della Delibera, in quanto volta a recare danno alla ricorrente.

2.1. – Il motivo è infondato.

2.2. – La Corte d’Appello ha chiarito, in modo esauriente e coerente dal punto di vista logico-giuridico, che la Delibera de qua fosse legittima, non solo in quanto non lesiva del diritto che l’appellante pretendeva di avere sul bene, ma anche in quanto diretta a ripristinare il godimento dello stesso da parte dei comproprietari. A tale proposito, le controricorrenti ribadivano che l’illegittimità dell’occupazione era stata già riconosciuta, al momento della Delibera, dalla sentenza del Tribunale di Taranto n. 697/2005 (tradotta all’esito dell’iter processuale in Cass. n. 5558 del 2015), e che ciò costituisse alterazione della cosa comune, contraria alla regola dell’art. 1102 c.c., proprio l’ipotesi invesa rispetto a quella dedotta dalla ricorrente, considerando illegittima non già la rimozione dei manufatti realizzati senza titolo dal dante causa, bensì la loro permanente occupazione del suolo (Cass. n. 5558 del 2015, cit.).

3. – Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione di legge ex art. 360, n. 3 in relazione all’art. 1168 c.c.”, poichè la delibera di chiusura del cancelletto era ritenuta valida sull’assunto che il varco avrebbe comportato una servitù a carico del bene comune. Invero, detta Delibera sarebbe invalida per violazione dell’art. 1168 c.c.; in presenza di una servitù di passaggio la comunione avrebbe al più potuto deliberare la proposizione di un’azione, ma non la commissione di un atto di spoglio.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – La ricorrente faceva valere un motivo di impugnazione della Delibera, proposto per la prima volta in appello (Cass. n. 907 del 2018, secondo cui i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio).

3.3. – Il motivo è altresì infondato in quanto la ricorrente ometteva di riferire che, per effetto della suddetta sentenza n. 697/2005 e della successiva esecuzione forzata mediante rilascio, i comproprietari erano già stati reintegrati nel possesso del bene comune, per cui la chiusura del cancelletto non era diretta a interrompere un possesso attuale, ma a evitare che in futuro si ripetessero situazioni potenzialmente rilevanti ai fini dell’usucapione di una servitù. Nessuna rilevanza assume quindi l’art. 1168 c.c., costituendo la Delibera impugnata legittimo esercizio del diritto dei comproprietari di impedire l’accesso al fondo da parte di estranei.

4. – Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la “Violazione di legge ex art. 360, n. 3, in relazione agli artt. 1105 e 1108 c.c.. Nullità del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 132 c.p.c. e all’art. 118 disp. att. c.p.c.”, rilevando che la volontà di affidare a un tecnico un progetto di fattibilità edilizia non implicava alcuna violazione del diritto dei comproprietari non integrando una decisione attuale, ma futura e ipotetica in ordine alla destinazione del bene comune. La ricorrente deduce, altresì, la violazione dell’art. 1108 c.c., secondo cui sono vietate le delibere volte a precludere il godimento diretto del bene, eccependo la motivazione apparente della Corte distrettuale tanto da determinarne la nullità.

4.1. – Il motivo non è fondato.

4.2. – La Corte d’Appello stabiliva che la volontà di affidare un progetto di fattibilità edilizia a un tecnico non implicasse alcuna violazione del diritto dei comproprietari, non integrando alcuna decisione attuale, ma futura e ipotetica in ordine alla destinazione del bene comune. Tant’è che, con la delibera impugnata (del 27/10/2006) i medesimi comproprietari avevano deciso esclusivamente di acquisire le informazioni necessarie per poter valutare, ai fini di un’eventuale Delibera successiva, l’utilizzo più conveniente del fondo. Solo nel caso in cui una tale Delibera fosse stata adottata i comproprietari sarebbero stati legittimati a impugnarla. Ma, allo stato attuale, nessun mutamento di destinazione risulta esser stato successivamente deliberato inter partes, nè si vede quale pregiudizio avrebbe potuto derivare ad alcuno dei comproprietari da un atto diretto a consentire loro di compiere, nell’interesse comune, scelte più consapevoli in ordine al futuro utilizzo della cosa.

5. – Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta la “Nullità del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c.. La Corte d’Appello ometteva completamente la censura relativa all’errata applicazione delle spese legali sia in favore della comunione che dei singoli comproprietari costituitisi singolarmente. La conseguenza è la nullità della sentenza.

5.1. – Il motivo non è fondato.

5.2. – In materia di spese processuali, l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 13229 del 2011).

Peraltro, nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l’oggetto della lite nel suo complesso (Cass. n. 1703 del 2013). Nè il criterio della soccombenza si fraziona a seconda dell’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole (Cass. n. 6369 del 2013; Cass. n. 18503 del 2014).

5. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore delle controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 5.500,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 22 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2021

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