Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11194 del 20/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 20/05/2011, (ud. 23/02/2011, dep. 20/05/2011), n.11194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 74,

presso lo studio dell’avvocato IACOBELLI GIANNI EMILIO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato PILEGGI ANTONIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3044/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/04/2006 R.G.N. 4431/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2011 dal Presidente Dott. LAMORGESE ANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 12 aprile 2006, la Corte di appello di Roma ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione proposta da C.P. avverso la decisione di primo grado, che aveva rigettato la domanda avanzata nei confronti di Poste Italiane s.p.a., diretta ad ottenere la declaratoria di nullità della clausola del termine apposto al contratto di lavoro dallo stesso stipulato con quella società il 6 luglio 2002, nonchè la ricostituzione del rapporto di lavoro e la condanna della convenuta a corrispondere al lavoratore le retribuzioni maturate dopo la scadenza del contratto.

Il lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado – ha sottolineato la Corte di merito – aveva fondato le sue richieste sulle violazioni dell’art. 1 della legge n. 230 del 1962 e dell’art. 23 della L. n. 56 del 1987, nonchè dell’ali. 25 del ccnl 26 novembre 1994, ritenute irrilevanti dall’adito Tribunale, dato che il contratto di lavoro, stipulato per il periodo dall’8 luglio al 30 settembre 2002, ricadeva nella disciplina dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001; in appello le censure erano state incentrate sulla violazione di quest’ultima normativa e del ccnl dell’11 gennaio 2001, oltre che sulla denuncia di frode alla legge, riferita al citato D.Lgs., con mutamento della causa petendi, per la diversa prospettazione di fatto e delle situazioni giuridiche conseguenti.

Per la cassazione della sentenza il soccombente ha proposto ricorso con due motivi, cui la società intimata ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo, nel denunciare violazione degli artt. 112, 115 e 437 cod. proc. civ., sostiene l’errore in cui è incorsa la Corte territoriale per avere affermato la modifica in appello, da parte del lavoratore, della causa petendi, deducendo in tale grado del giudizio la violazione della normativa del D.Lgs. n. 368 del 2001 in luogo della violazione, lamentata in primo grado, dell’art. 25 del ccnl 2001, innovativo dell’art. 8 del ccnl 26 novembre 1994 e che in esecuzione di quanto consentito dalla L. n. 56 del 1997, art. 23 aveva individuato ipotesi aggiuntive di rapporti di lavoro a termine rispetto a quelle tipiche previste dalla L. n. 230 del 1962. Si è trattato, ad avviso del ricorrente, di una diversa qualificazione giuridica del negozio, senza che contro il divieto stabilito dall’art. 437 cod. proc. civ. fosse stata introdotta, in sede di gravame, una nuova domanda, essendo invece rimasti invariati causa petendi e petitum.

Il secondo motivo denuncia violazione ancora una volta dell’art. 112 cod. proc. civ., oltre che dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 1421 cod. civ., e sostiene che la fattispecie in esame rientrava nell’ipotesi di cui all’art. 25 del ccnl dell’11 gennaio 2001, ed era applicabile il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, comma 2. La qualificazione giuridica dei fatti e l’individuazione della disciplina legale da applicare – si sottolinea in ricorso – compete al giudice, il quale, senza essere vincolato alle erronee indicazioni fatte in proposito dalle parti, deve procedere alla valutazione complessiva dell’atto, ove appunto era stata dedotta la nullità della clausola del termine per l’inesistenza delle ragioni richiamate dall’azienda a giustificazione del termine apposto al contratto di lavoro.

Il ricorso è infondato.

Trattando congiuntamente i due motivi di ricorso, data la loro connessione, si deve rilevare che sussiste la proposizione in appello di una domanda nuova e diversa da quella fatta valere in primo grado allorquando la causa petendi dedotta nel giudizio di gravame, essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati in precedenza, importi il mutamento di fatti costitutivi del diritto azionato in giudizio ed introduca nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione che alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia (v. fra le più recenti, Cass. 12 luglio 2010 n. 16298). Siffatto mutamento dei motivi di nullità della clausola e del tema di indagine si è qui verificato, posto che con riferimento alle disposizioni contrattuali, asseritamente violate, sia quelle del 1994 che quelle del 2001, occorreva accertare se da parte dell’azienda fosse state dedotta, ai fini del legittimo ricorso alla stipulazione di contratti a termine, la sussistenza di circostanze eccezionali (per il ccnl 1994) o di carattere straordinario (per il ccnl 2001), mentre, ricadendo il contratto in questione nella disciplina dettata dal più volte citato D.Lgs. n. 368 del 2001, come è stato rimarcato nei giudizi di merito (e non nel regime transitorio previsto dall’invocato art. 11 della medesima normativa), sarebbe stato necessario controllare l’effettiva ricorrenza delle comprovate esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive, dall’azienda precisate in contratto, in adempimento del relativo onere di specificazione richiesto in base all’art. 1 del suddetto D.Lgs. Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della società resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 19,00 per esborsi e in Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2011

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