Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11190 del 20/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 20/05/2011, (ud. 02/02/2011, dep. 20/05/2011), n.11190

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA BALDUINA

66, presso lo studio dell’avvocato SPAGNUOLO GIUSEPPE, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT BANCA DI ROMA SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. MARCHETTI 35,

presso lo studio dell’avvocato CATI AUGUSTO, che la rappresenta e

difende, giusta procura notarile in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 119/2007 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 25/01/2007, R.G.N. 236/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/02/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato CATI AUGUSTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 10/1 – 25/1/07 la Corte d’Appello di Salerno rigettò l’appello proposto da B.L. avverso la sentenza del giudice del lavoro dello stesso capoluogo di data 2/2/05, con la quale gli era stata respinta la domanda diretta sia all’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli il 10/3/04, sia alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno, e conseguentemente condannò l’appellante alle spese del grado.

La Corte salernitana addivenne a tale decisione dopo aver rilevato che era stata tempestivamente formulata la contestazione dell’addebito, consistito nella appropriazione, da parte del B., quale incaricato delle attività relative alle polizze concernenti beni dati in pegno al Banco, dei corrispettivi ricavati da quattro di tali beni, disimpegnati senza la formalizzazione delle relative operazioni, e che si era raggiunta la prova dell’illecito grazie anche alle iniziali ammissioni del medesimo incolpato. Inoltre, la Corte appurò l’adeguatezza della sanzione rispetto all’entità dell’addebito contestato, per effetto del quale era risultato irrimediabilmente compromesso il necessario vincolo fiduciario. Per la cassazione della sentenza propone ricorso B.L., il quale affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso la Unicredit Banca di Roma s.p.a. che deposita anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia i seguenti vizi della sentenza: violazione e falsa applicazione della norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 e del principio che il codice disciplinare deve essere esposto sul luogo di lavoro come condizione essenziale per la legittimità del procedimento disciplinare; vizio di motivazione circa il fatto, controverso e decisivo per il giudizio, che il licenziamento sia stato intimato per giusta causa come definito dalla legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

In concreto il B. afferma di non contestare la validità del principio enunciato dal giudice del merito in ordine alla necessità dell’affissione del codice disciplinare in relazione alle ipotesi di illeciti consistenti in violazioni di discipline aziendali ignote alla generalità e, perciò, difficilmente riconoscibili, bensì la falsa applicazione di tale principio, in quanto la fattispecie in esame è, a suo giudizio, contraddistinta dalla contestazione di una infrazione non avente alcuna rilevanza penale o di particolare illiceità, essendo, piuttosto, attinente a comportamenti di diligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa di cassiere, così come evincibile dalla stessa contestazione con la quale si faceva riferimento ad irregolarità operative e non all’appropriazione dei beni. Il giudice de merito avrebbe dovuto, pertanto, accertare la sussistenza del presupposto di fatto dell’appropriazione indebita prima ancora di escludere la ricorrenza, nella fattispecie, dell’obbligo di affissione del codice disciplinare. Il motivo è infondato.

Invero, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, dalla lettura della nota di contestazione dell’addebito del 23/12/2003 allegata al controricorso, emerge in maniera inequivocabile l’illiceità del comportamento addebitato al B. che, per il modo in cui è rappresentato, manifesta elementi anche di rilevanza penale, come evidenziato pure dal giudice d’appello. Infatti, con la lettera di contestazione non gli viene addebitato solo di aver sistematicamente omesso di effettuare gli scarichi delle polizze concernenti i beni ricevuti in pegno dall’istituto bancario, ma anche di aver trattenuto illecitamente le relative eccedenze di cassa determinatesi per effetto delle operazioni di scarico delle polizze, in realtà non registrate, e di aver occultato gli originali delle stesse polizze consegnategli dai clienti, col risultato di aver ottenuto, in tal modo, ingiustificati vantaggi economici a danno dell’azienda. Si versa, pertanto, in una ipotesi per la quale non si rendeva indispensabile la previa affissione del codice disciplinare nel luogo di lavoro che, come riconosciuto anche dalla difesa del ricorrente, costituisce una formalità necessaria solo quando al lavoratore vengano contestate violazioni di doveri che discendono da disposizioni del datore di lavoro o del contratto collettivo e non quando, come nella fattispecie, essi traggano direttamente origine dalla legge. Nè, tanto meno, il giudice di appello si è sottratto al compito di esaminare con la dovuta attenzione la natura e l’entità della contestazione mossa al lavoratore ai fini della verifica della ricorrenza o meno delle condizioni indispensabili per l’affissione del codice disciplinare, posto che dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata si rileva la compiuta disamina dei fatti oggetto dell’addebito disciplinare, disamina eseguita dalla Corte territoriale con argomentazioni congrue ed esenti da vizi logico – giuridici che, in quanto tali, sfuggono ai rilievi di legittimità nella presente sede di giudizio.

2. Col secondo motivo si contesta la violazione e falsa applicazione di norma di legge contenuta nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 e del principio di immediatezza della contestazione dell’infrazione che si assume a base del procedimento disciplinare a carico del prestatore di lavoro, (art. 112 c.p.c. e art. 2697 c.c.), nonchè il vizio di motivazione su punto controverso e decisivo. In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Attraverso tale motivo il ricorrente si duole sia del fatto che il giudice del gravame aveva ritenuto tardiva l’eccezione da lui sollevata in ordine all’epoca dell’infrazione, a suo dire collocabile tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, ma contestatagli solo il 23/12/03, sia della circostanza per la quale il medesimo giudicante aveva ritenuto tempestiva la contestazione. Il motivo è infondato.

Anzitutto, si osserva che il ricorrente, pur dolendosi del fatto che il giudice d’appello aveva rilevato la inammissibilità della eccezione con la quale egli aveva introdotto in sede di gravame il nuovo tema di indagine della presunta inosservanza del rispetto della regola della tempestività della contestazione disciplinare da parte della datrice di lavoro, quale causa di illegittimità del provvedimento rispetto a quella originariamente dedotta, non formula alcuna censura specifica avverso il ragionamento logico seguito dalla Corte territoriale in merito alla riscontrata intempestività di tale eccezione. Invero, il B. si limita esclusivamente a porre, col quesito finale di diritto, la diversa questione di merito della necessità di un preventivo accertamento della data di commissione dell’illecito ai fini della verifica della tempestività o meno della stessa contestazione, circostanza, questa, che, seppur risolta nel senso auspicato dal ricorrente, non consentirebbe, comunque, di superare lo sbarramento della riscontrata tardività della proposizione dell’eccezione in esame nel procedimento d’appello.

In ogni caso, non è affatto vero, come infondatamente sostenuto dal ricorrente, che il giudice d’appello abbia dato per scontata la tempestività della contestazione disciplinare, non applicando correttamente il governo degli oneri probatori: invero, dalla motivazione della sentenza impugnata emerge che il giudicante diede rilievo alle scadenze delle quattro polizze inerenti le operazioni irregolari addebitate al lavoratore, raggruppate nel breve arco temporale compreso tra il 17/8/03 e l’1/10/03, nonchè alla data della verifica del 5/11/03, rispetto alla quale non erano emersi elementi atti a far presumere una anticipata conoscenza dei fatti da parte dell’azienda bancaria, tanto che il relativo provvedimento di sospensione cautelare venne adottato in data 19/11/03, al quale seguirono la contestazione degli addebiti del 23/12/03 e l’intimazione del licenziamento del 21/1/04, il tutto in un lasso di tempo ragionevole in relazione al caso concreto.

Pertanto, una volta appurato che l’appellante non aveva dedotto, nè tantomeno provato, alcuna circostanza idonea a confortare l’assunto della commissione dei fatti addebitatigli nel periodo posto a cavallo tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, correttamente la Corte territoriale rilevò che ai fini della tempestività della contestazione acquisiva rilevanza l’epoca del loro accertamento, che non poteva che avvenire in un momento successivo alla scadenza delle polizze; in effetti, solo in tali occasioni il dipendente aveva potuto portate a termine le operazioni irregolari addebitategli, così come emerge dalla nota di contestazione prodotta in atti ed esaminata dal giudice d’appello, per cui l’illecito trattenimento, da parte del B., delle eccedenze di cassa, corrispondenti ai versamenti effettuati dai clienti dietro riconsegna in loro favore dei loro beni precedentemente impegnati, era potuto avvenire solo dopo che si erano determinate le somme in esubero per effetto della mancata registrazione delle operazioni di scarico delle polizze disimpegnate ed occultate. In ordine a tali aspetti la sentenza è, quindi, congruamente motivata ed è, perciò, esente dalle censure di legittimità che le sono state mosse.

3. Col terzo motivo si denunziano i vizi di violazione e falsa applicazione della norma di legge contenuta negli artt. 2697, 1362 segg., 2119 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in ordine all’onere della prova del fatto costitutivo della giusta causa di licenziamento, e nell’art. 2106 c.c., in ordine al principio di proporzionalità tra l’infrazione contestata dal datore di lavoro al prestatore e la sanzione comminata secondo l’accertata gravità, oltre che il vizio di motivazione sul fatto controverso e rilevante della responsabilità del lavoratore nella commissione degli illeciti contestati, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Nell’illustrare tale motivo il ricorrente spiega che, se da un lato era vero che egli aveva sollecitato la verifica della sua postazione di cassa, avvertendo il superiore gerarchico che sarebbero state rilevate delle incongruenze contabili e manifestandosi dispiaciuto per l’accaduto, tanto da dichiararsi disponibile alla riparazione, d’altro canto, tutto ciò non poteva essere inteso dal giudice del merito come confessione del fatto di essersi appropriato dell’incasso della vendita di quattro beni impegnati presso la banca. In pratica, secondo il ricorrente, la contraddizione della motivazione risiedeva nel fatto che, da un lato, si era ritenuta sussistente una sua confessione e, dall’altra, si era affermato che egli aveva contestato il fatto addebitatogli nelle sue modalità di insorgenza e di esecuzione, e, comunque, non era dato sapere se i beni dati in pegno fossero stati venduti o ceduti o restituiti o disimpegnati in favore di qualcuno che ne avesse realmente corrisposto il prezzo. Quindi, il giudicante avrebbe dovuto non solo ricercare l’autore del fatto illecito, ma anche tener conto delle presunzioni a suo favore, quali quelle derivanti dalla mancata produzione del verbale ispettivo, dalla mancata indicazione dei nominativi dei clienti che avrebbero potuto testimoniare sui singoli episodi oggetto di contestazione o che avevano chiesto la regolarizzazione delle pratiche di pegno, nonchè dalla mancanza della prova della perdita dei beni sottoposti a pegno e del presunto prezzo ricavato dal loro disimpegno.

Infine, il ricorrente si duole della mancanza di proporzionalità della sanzione massima applicatagli rispetto alla reale entità dell’infrazione contestatagli, oltre che della mancata valorizzazione dell’elemento soggettivo, rappresentato dall’assenza di precedenti disciplinari e dalla manifestazione della volontà di sottoporsi a controlli.

Il motivo è infondato.

Invero, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la motivazione della sentenza è assolutamente congrua in ordine agli aspetti sopra evidenziati dal momento che poggia sui dati oggettivi desunti dalle risultanze del verbale ispettivo, espressamente menzionato nella nota di contestazione, che consentì di accertare le gravi irregolarità emerse a carico del B., il quale in quella sede dichiarò che a fronte dei disimpegni da parte della clientela delle quattro polizze relative ai beni dati in pegno non rinvenuti egli non aveva eseguito la formalizzazione delle operazioni trattenendone il corrispettivo, oltre che sulle lettere del 10/11/03 e del 2/1/04 inviate dal medesimo ricorrente all’istituto bancario.

Ebbene, come è dato rilevare dalla sentenza, nella prima di tali lettere il B., nell’informare l’azienda che già aveva chiesto al suo capo operativo di disporre una verifica della sua postazione di cassa, manifestò anche il suo dispiacere per le incongruenze contabili riscontrate all’esito della verifica stessa e si dichiarò disponibile a porvi rimedio. A tal punto è da rilevare che l’obiezione sollevata nella presente sede in merito alla mancata produzione nelle precedenti fasi di giudizio del verbale ispettivo è superata dal fatto che fu il medesimo ricorrente a dichiarasi dispiaciuto dell’esito a lui pregiudizievole degli eseguiti accertamenti. Inoltre, come correttamente rilevato dal giudice d’appello, già il contenuto di tale missiva sgombra il campo da ogni dubbio sul fatto che il B. potesse non essere stato titolare del servizio o custode dei documenti o dei beni detenuti in pegno, tanto più che la firma apposta dal medesimo sulle polizze in questione comprovava che le attività relative alle stesse gli erano state affidate. Dall’ultima lettera di giustificazione del 2/1/04 il giudice d’appello ha altrettanto correttamente desunto un valore confessorio delle affermazioni in esse riportate, posto che in quel documento il B. ammetteva che quanto contestatogli era stato commesso al solo scopo di aiutare economicamente i suoi stretti congiunti che versavano in una situazione di morosità e nello scusarsi per l’accaduto si dichiarava disposto alla restituzione quanto prima.

In definitiva, l’interpretazione del contenuto degli atti seguita dalla Corte d’appello di Salerno è assolutamente immune da vizi logici e in quanto tale si sottrae alle censure di legittimità che le sono state mosse nella presente sede. Egualmente è a dirsi per il giudizio espresso sulla proporzionalità della sanzione inflitta che è incentrato, con argomentazioni altrettanto congrue ed immuni da vizi logici e giuridici, su dati oggettivi e soggettivi desunti dagli atti di causa, quali la particolare posizione lavorativa assunta in concreto dal dipendente, la gravità dei fatti addebitatigli, la loro reiterazione in uno stretto arco temporale, l’alterazione della procedura prevista per la gestione delle polizze e l’intenzione di appropriarsi del denaro mediante la predisposizione di mezzi necessari, il tutto con inevitabili ripercussioni sulla persistenza del necessario vincolo fiduciario, per cui anche sotto quest’ultimo aspetto la sentenza impugnata si sottrae ai rilievi di legittimità.

4. Con l’ultimo motivo si segnala il vizio di motivazione (omessa, insufficiente o contraddittoria) circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio di addebito dell’infrazione. In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. In particolare ci si riferisce al presunto vizio logico motivazionale inerente la sua responsabilità per la sua firma apposta in calce alle polizze oggetto di contestazione, facendosi presente che la firma apposta sotto le polizze non dimostrava che esse erano custodite e che erano state perdute o distrutte, non risultando qual’era stato il comportamento del B. nel rilasciare i beni ai clienti e nei riscuotere il prezzo vincolato; inoltre, ci si lamenta della valenza attribuita dal giudice alla contestazione datoriale che faceva leva sulle sue presunte confessioni, senza che un tale convincimento fosse suffragato da riscontri oggettivi, mentre la sua lettera di giustificazioni del 2/1/04 era stata erroneamente equiparata ad una sorta di confessione degli addebiti. Anche quest’ultimo motivo è infondato.

Invero, per quel che concerne la valutazione del materiale probatorio acquisito agli atti, dal quale il giudice d’appello ha liberamente tratto il convincimento della responsabilità del B. in ordine ai fatti contestatigli, non può che ribadirsi il concetto appena espresso circa l’assoluta mancanza di vizi di carattere logico- giuridico nell’esposizione dell’iter argomentativo motivazionale seguito dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata nell’addivenire alla conclusione dell’avvenuta dimostrazione degli addebiti sui quali il licenziamento era fondato, per cui sotto tale aspetto la stessa è immune dalle predette censure di legittimità.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario, oltre esborsi in Euro 27,00, nonchè IVA, C.P.A e spese generali ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2011

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