Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1119 del 21/01/2021

Cassazione civile sez. VI, 21/01/2021, (ud. 10/12/2020, dep. 21/01/2021), n.1119

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21221/2018 R.G. proposto da:

C.R., rappresentato e difeso dall’Avv. Riccardo Marzo;

– ricorrente –

contro

S.D.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Alfredo

Caggiula, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Piazza

San Lorenzo in Lucina, n. 26;

– controricorrente –

e contro

Cerved Credit Management S.p.A., nella qualità di procuratrice di

Sagrantino Italy S.r.l., rappresentata e difesa dall’Avv. Prof.

Achille Saletti;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Generali – Assicurazioni Generali S.p.a., Banca Popolare Pugliese

Soc. Coop. p.a.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 13777/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 31 maggio 2018 R.G.N. 5561/2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 dicembre

2020 dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Il fatto e le questioni trattate, per quanto ancora di essi rileva in questa sede, sono così descritti nell’ordinanza impugnata:

“Nel 2003 la società “International Credit Recovery (5) s.r.l.” (d’ora innanzi, per brevità, “la ICR”) convenne dinanzi al Tribunale di Lecce S.D.E. e C.R., esponendo che:

– nel 1982 la società Istituto Bancario San Paolo S.p.A. aveva concesso un mutuo alla società ESGO costruzioni S.r.l., garantito da ipoteca immobiliare;

– la società debitrice non aveva restituito le somme ricevute a mutuo e, sopravvenuto il suo fallimento, la società mutuante aveva conferito mandato all’avvocato S.D.E. perchè chiedesse l’ammissione al passivo fallimentare del credito vantato dalla banca, pari ad Euro 159.802,20;

– tale credito venne ammesso pressochè integralmente al passivo;

– tuttavia il curatore fallimentare C.R., nel depositare nella cancelleria del Tribunale il piano di riparto finale, postergò l’istituto San Paolo, creditore ipotecario di primo grado, ad un altro creditore, che era garantito da un’ipoteca di secondo grado;

– l’avvocato S.D.E. non si avvide dell’errore, e non depositò nei dieci giorni prescritti dalla legge alcuna osservazione al piano di riparto;

– il suddetto progetto di riparto, di conseguenza, venne approvato; vennero effettuati i pagamenti in esso previsti, ed il fallimento venne dichiarato chiuso;

– in conseguenza dei fatti suddetti l’Istituto Bancario San Paolo aveva visto vanificare la propria garanzia reale;

– il credito dell’Istituto Bancario San Paolo, per effetto di successive cessioni, era pervenuto alla società attrice.

“La ICR concluse perciò chiedendo la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno da essi causato all’Istituto Bancario San Paolo con le rispettive condotte.

“Ambedue i convenuti si costituirono e negarono la propria responsabilità; S.D.E. chiese altresì di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore della responsabilità civile, la società Assicurazioni Generali S.p.A., che chiamò in causa.

“La Generali si costituì, ammettendo la sussistenza del proprio obbligo indennitario, ma negando la responsabilità del proprio assicurato.

“Con sentenza 5 luglio 2010 n. 1451 il Tribunale di Lecce accolse la domanda nei confronti del solo S.D.E., e condannò questi ed il suo assicuratore, in solido, al risarcimento del danno in favore della ICR.

“La sentenza venne appellata in via principale da S.D.E. ed in via incidentale dalla ICR e dalla Generali.

“Con sentenza 4 febbraio 2016 n. 102, la Corte d’appello di Lecce accolse tutte e tre le impugnazioni.

“Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello ritenne che:

– la lesione del credito patita dall’Istituto Bancario San Paolo fosse ascrivibile, in misura paritaria, tanto al curatore fallimentare C.R., per avere redatto un piano di riparto erroneo; quanto all’avvocato S.D.E., per non aver formulato osservazioni, nè fatto rilevare in altro modo il suddetto errore; (…)

– la ICR, per effetto della ritenuta responsabilità solidale dei due convenuti, dovesse restituire alla Generali la metà dell’indennizzo da questa ricevuto, in esecuzione della sentenza di primo grado”.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso principale proposto da C.R., nonchè quello incidentale dell’Avv. S.D.E.; ha accolto invece il ricorso incidentale proposto dalla ICR; per l’effetto ha cassato la sentenza e, decidendo nel merito, ha rigettato l’appello incidentale proposto da Generali S.p.a. nella parte in cui ha domandato la condanna della ICR alla restituzione dell’indennizzo versatole in esecuzione della sentenza di primo grado.

2.1. In particolare, per quanto in questa sede ancora può interessare, con riferimento al primo motivo del ricorso principale -con il quale il C. aveva denunciato errores in iudicando e in procedendo, per avere la Corte d’appello erroneamente condannato anche lui al risarcimento nei confronti della ICR sebbene nè il convenuto principale S.D., nè il suo assicuratore Generali s.p.a., avessero formulato domande di sorta nei suoi confronti e sebbene l’appello incidentale della ICR fosse nei suoi confronti inammissibile poichè non a lui notificato e, comunque, perchè contenente domande nuove, non supportate da effettivo interesse della parte, oltre che infondato – la S.C. ha osservato che:

– “la condanna del curatore fallimentare venne richiesta sin dal primo grado dalla società ICR, e tanto bastava perchè la Corte d’appello potesse esaminare l’operato di C.R., ed affermarne la responsabilità”;

– “essendo l’appellato C.R. costituito in grado di appello, l’appellante incidentale ICR non aveva alcun onere di notificargli la propria comparsa di costituzione e risposta contenente l’impugnazione incidentale; questa Corte, infatti, ha già stabilito che l’appello incidentale è ritualmente proposto con la comparsa di costituzione, e anche se questa non venga notificata ad un appellato contumace, l’appello incidentale non è per ciò solo inammissibile, ma sorge in tal caso soltanto l’onere per il giudice di assegnare all’appellante incidentale un termine per la regolarizzazione del contraddittorio (Sez. 3, Sentenza n. 2359 del 09/09/1966, Rv. 324580 – 01). A fortiori, dunque, era ammissibile l’appello incidentale nel presente giudizio, nel quale C.R. era ritualmente costituito nel secondo grado di giudizio”;

– “la domanda di condanna del curatore fallimentare proposta dalla società ICR non era nuova, essendo già contenuta nell’atto di citazione”;

– “la ICR aveva ovviamente interesse alla pronuncia che affermasse la responsabilità solidale di due soggetti invece di uno, perchè ciò avrebbe attenuato od escluso il rischio di incapienza del patrimonio del debitore”;

– “la circostanza che essa avesse già “ottenuto il pagamento del dovuto” non può essere presa in esame in questa sede, in quanto il ricorrente, in violazione dell’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, non indica dove e quando abbia dedotto tale circostanza, nè da quale fonte di prova risultasse; in ogni caso, qualunque pagamento ricevuto dalla ICR in esecuzione d’una sentenza impugnata era, per ciò solo, instabile, e non estingueva in modo definitivo l’obbligazione”;

– “nell’obbligazione solidale dal lato passivo, ciascun debitore “può essere costretto all’adempimento per la totalità”, ed è dunque facoltà del creditore scegliere se escutere un condebitore, più condebitori, o tutti i condebitori”;

– “la condanna di C.R. al risarcimento del danno venne richiesta dalla società ICR e nei confronti di questa pronunciata; pertanto nulla rileva che l’altro convenuto non avesse formulato domande di accertamento o di condanna nei confronti dell’odierno ricorrente principale”;

– “quali che fossero i profili di colpa addebitati al curatore fallimentare nell’atto d’appello, quel che rileva è che il gravame venne accolto sul presupposto che il curatore per errore alterò l’ordine delle ipoteche, e tale profilo di colpa fu debitamente dedotto dalla società ICR sin dall’atto di citazione”.

2.2. Con riferimento al terzo motivo di ricorso – con il quale il ricorrente lamentava, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione dell’art. 2041 c.c., sull’assunto che non vi era rapporto di causalità tra l’errore da lui commesso ed il danno patito dalla società creditrice e che, in ogni caso, quel danno era stato provocato dall’errore dell’avvocato S.D. e dalla negligenza della stessa società creditrice – la S.C. ne ha rilevato l’inammissibilità, poichè diretto a censurare la ricostruzione del nesso di causalità, la quale costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito.

2.3. Con riferimento al quinto motivo – con il quale il ricorrente lamentava, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, che il giudice di merito aveva erroneamente cumulato interessi e rivalutazione al capitale del credito risarcitorio, sull’assunto che il credito della ICR nei confronti del fallimento era un credito di valuta e che, di conseguenza, se non vi fosse stato l’errore, la curatela fallimentare avrebbe dovuto pagare alla ICR solo il capitale e gli interessi, e non anche il maggior danno – la S.C. ne ha affermato la manifesta infondatezza, osservando che “nei confronti del curatore fallimentare la società ICR ha chiesto il risarcimento del danno aquiliano derivante da lesione del credito. Il credito risarcitorio scaturente dalla lesione d’un credito non condivide la natura di quest’ultimo; il credito risarcitorio è infatti una obbligazione nuova e diversa rispetto al credito andato perduto in conseguenza del fatto illecito. Pertanto, anche quando il credito andato perduto era un credito di valuta, il credito risarcitorio che ne prende il posto è sempre un credito di valore”.

2.4. Con riferimento al sesto motivo – con il quale il ricorrente lamentava, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione dell’art. 2055 c.c., oltre che l’omesso esame di un fatto decisivo, per avere la Corte d’appello erroneamente condannato la ICR, in accoglimento del gravame proposto dalla società Generali, a restituire a quest’ultima “le somme versate in esubero rispetto alla quota di responsabilità paritaria dell’avvocato S.D.” (assumendo di avere egli interesse a tale declaratoria, perchè “la sentenza di primo grado è passata in giudicato riguardo al rapporto tra ICR e S.D. (nonchè Generali)”, con la conseguenza che nè S.D.E., nè la società Generali “mai potrebbero rivalersi nei suoi confronti” – la S.C. ne ha parimenti affermato la manifesta infondatezza, osservando che “la Corte d’appello, accertato che tanto il curatore, quanto il professionista, avevano concausato il danno, li ha condannati in solido al risarcimento; lungi, dunque, dall’esservi state violazioni di tale norma, la Corte d’appello l’ha puntualmente applicata”. La S.C. ha precisato, inoltre, “nell’interesse della legge ed a dissipare eventuali dubbi”, che ” nessun giudicato interno si è formato in merito all’esistenza, all’inesistenza od alla misura del diritto di ciascun coobbligato solidale, o dei loro aventi causa, a promuovere domanda di regresso ex art. 1299 c.c., nei confronti dell’altro condebitore”, dal momento che “nel presente giudizio non sono state formulate domande di regresso, nè la sentenza impugnata contiene statuizioni in tal senso”.

2.5. Del settimo motivo – con il quale il ricorrente lamentava, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 99 e 100 c.p.c., sull’assunto che ICR dovesse a sè stessa imputare il danno, dal momento che “solo l’azione difensiva di ICR avrebbe potuto determinare la correzione dell’errore” contenuto nel piano di riparto – la S.C. ha infine rilevato l’inammissibilità, “per totale mancanza d’una intelligibile illustrazione”, osservando, in sintesi, che quanto dedotto non costituiva una censura, “ma una contrapposizione della propria valutazione a quella del giudice di merito” e che non era spiegato in cosa fosse consistito l’errore di diritto denunciato e quale la diversa regola da applicare.

Ha poi soggiunto che “ove… si volesse benevolmente supporre che con questo motivo il ricorrente abbia inteso lamentare l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha escluso un concorso colposo della società, danneggiata nella produzione del danno, esso sarebbe inammissibile perchè censura un accertamento di fatto; e comunque sarebbe manifestamente infondato, dal momento che è colui il quale commette un errore che ne deve risponderne, e non certo chi ne subisce gli effetti”.

3. Per la revocazione della ordinanza della Suprema Corte propone ricorso C.R., articolando nove motivi, cui resistono l’Avv. S.D. e la Cerved Credit Management S.p.A., nella qualità di procuratrice di Sagrantino Italy S.r.l. (già Minerva S.r.l.), cessionaria pro soluto dei crediti di ICR, depositando controricorsi.

Le altre intimate sono rimaste tali.

4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va preliminarmente rilevata la tardività della memoria del ricorrente, la quale dunque non può essere presa in esame, in quanto depositata lunedì (OMISSIS), al di là del termine di cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza ((OMISSIS)).

2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia errore di fatto attinente al primo motivo del ricorso per cassazione e, segnatamente, alla parte di esso con cui si deduceva la inammissibilità e la nullità degli appelli proposti dall’Avv. S.D. e da Generali S.p.a..

Lamenta, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., n. 4, che la decisione della S.C. sul punto è viziata dalla erronea supposizione della formulazione di una corrispondente domanda in primo grado, invece “incontrastabilmente esclusa per quanto risulta dagli atti del processo”. Deduce, inoltre, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., n. 5, “contrarietà alla sentenza n. 1451/2010 del Tribunale di Lecce, emessa in questo stesso processo, passata in giudicato nei confronti di S.D. e di Generali, (poichè) da loro non validamente impugnata”.

2.1. La censura si appalesa inammissibile, sotto entrambi i profili dedotti, per evidente aspecificità.

Non vi è alcuna statuizione, nella sentenza qui impugnata per revocazione, che muova dalla supposizione dell’esistenza di una domanda, in primo grado, avanzata dall’Avv. S.D. e da Generali S.p.a. nei confronti del curatore del fallimento. Vi è anzi, come s’è sopra riferito, l’espressa precisazione – inserita in motivazione “nell’interesse della legge ed a dissipare eventuali dubbi” (v. sentenza impugnata, pag. 13, terzo cpv.) – che “nessun giudicato interno si è formato in merito all’esistenza, all’inesistenza od alla misura del diritto di ciascun coobbligato solidale, o dei loro aventi causa, a promuovere domanda di regresso ex art. 1299 c.c., nei confronti dell’altro condebitore”, dal momento che “nel presente giudizio non sono state formulate domande di regresso, nè la sentenza impugnata contiene statuizioni in tal senso” (enfasi qui aggiunta).

Come ancora evidenziato in sentenza “la Corte d’appello, accertato che tanto il curatore, quanto il professionista, avevano concausato il danno, li ha condannati in solido al risarcimento”; vale a dire si è pronunciata (solo) sulla domanda di risarcimento avanzata da ICR sia nei confronti del curatore che del proprio difensore nella procedura concorsuale. Non si vede, nè è intellegibilmente spiegato in ricorso, come, rispetto a tale domanda, la pronuncia di primo grado che ha condannato al risarcimento solo l’Avv. S.D. e, di riflesso, Generali S.p.a., possa costituire giudicato interno opponibile ad ICR che l’ha per questo impugnata in appello, sol perchè non è stata anche impugnata (sotto il profilo della mancata condanna del curatore) anche dai predetti altri convenuti.

E’ appena il caso, dunque, di soggiungere che l’omessa percezione di un giudicato interno da parte della Corte di cassazione non è comunque deducibile come motivo di revocazione (Cass. n. 30245 del 2011), non consistendo in un errore di fatto, ma, semmai, in un errore di diritto (v., in termini, Cass. n. 15346 del 2017; n. 13761 del 2014).

3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia errore di fatto attinente al primo motivo del ricorso per cassazione e, segnatamente, alla parte di esso con cui si deduceva la inammissibilità dell’appello incidentale di ICR poichè proposto con comparsa depositata quando egli non era ancora costituito in giudizio e a lui non notificato.

Lamenta, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5, che la decisione della S.C. sul punto è viziata da “errore di fatto risultante dagli atti del processo perchè in data 09-02-2011, in cui l’ICR ebbe a depositare in cancelleria la propria comparsa di risposta contenente appello incidentale, il Dott. C.R. non era ancora costituito. Egli si costituì dopo quindici giorni, con comparsa del 24-02-2011. In essa erano contenute difese soltanto contro l’appello principale di S.D. e quello incidentale della Generali, entrambi ritualmente notificatigli, non anche avverso l’appello incidentale di ICR, non conosciuto”.

3.1. Il motivo si appalesa anch’esso inammissibile.

Anzitutto per l’inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti richiamati (ossia della comparsa di costituzione di ICR nel giudizio di appello, contenente appello incidentale, e dell’appello principale dello stesso C., almeno nella misura utile a verificare, in termini univoci, quanto dedotto circa la cronologia dei rispettivi depositi). Ciò in palese violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, che, dettato per il ricorso per cassazione, è da osservare anche per il ricorso per revocazione in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 391-bis c.p.c., comma 1, (a mente del quale la revocazione di sentenza o ordinanza della Corte di cassazione va chiesta “con ricorso ai sensi degli artt. 365 e ss.”) (v., in tal senso, in motivazione, Cass. n. 15346 del 20/06/2017).

Appare, comunque, anche in tal caso dirimente il rilievo che la statuizione sul punto non risulta affatto muovere da una diversa supposizione di detta cronologia, ma sancisce l’infondatezza del motivo per considerazioni che da tale dato prescindono e cioè che: a) l’appello incidentale è ritualmente proposto con la comparsa di costituzione, e anche se questa non venga notificata ad un appellato contumace, l’appello incidentale non è per ciò solo inammissibile, ma sorge in tal caso soltanto l’onere per il giudice di assegnare all’appellante incidentale un termine per la regolarizzazione del contraddittorio; b) a fortiori, dunque, era ammissibile l’appello incidentale nel presente giudizio, nel quale C.R. era ritualmente costituito nel secondo grado di giudizio.

Quest’ultima ratio è la sola che allude anche al dato della costituzione del C., ma: a) anzitutto, come reso evidente dalla locuzione latina che ne è anteposta (a fortiori), rappresenta solo una motivazione aggiuntiva, ad abundantiam, sicchè, quand’anche potesse ritenersi viziata dal supposto errore, si tratterebbe comunque di errore non decisivo; b) si riferisce solo al dato della costituzione del C. non anche a quello cronologico della sua anteriorità o posteriorità rispetto alla costituzione dell’appellato/appellante incidentale (come a dire, anche se successivamente costituitosi, il C., attraverso la costituzione, ha comunque avuto modo di avvedersi dell’appello incidentale nei suoi confronti proposto, ciò bastando ad escludere alcuna lesione del contraddittorio).

4. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., n. 4, errore di fatto attinente al primo motivo del ricorso per cassazione e, segnatamente, alla parte di esso con cui si deduceva la carenza di interesse in capo ad ICR per avere essa già ottenuto il pagamento da Generali di Euro 154.937,07 (“in contraddizione”, si legge nell’intestazione del motivo, “con l’omessa dichiarazione di inammissibilità e nullità dell’appello incidentale di Generali e di nullità e di inammissibilità dell’appello principale di S.D.”; “errore di fatto contraddittorio -prosegue ancora l’intestazione del motivo – rispetto al rigetto del ricorso di S.D.”). Denuncia altresì “violazione dell’art. 100 c.p.c., quantomeno per l’importo già pagato da Generali. Errore di fatto riguardo a tale lagnanza rivolta contro S.D.”.

Rileva il C. che risulta dagli atti e costituisce fatto incontestato l’avvenuto pagamento del massimale di polizza da parte di Generali in favore di ICR, di ciò essendo dato atto anche in sentenza.

L’errore di fatto riguarderebbe inoltre, per quanto è dato comprendere dalla non preclara illustrazione del motivo, il giudicato asseritamente formatosi sulla sentenza di primo grado “riguardo alla negata responsabilità del Dott. C.”.

Errori, in tesi, entrambi rilevanti poichè attinenti “quantomeno alla proponibilità di azione di regresso verso C. per quanto già è stato corrisposto all’ICR, che nulla deve restituire a Generali per quanto stabilito nella stessa sentenza qui impugnata”.

4.1. Anche tale motivo è inammissibile, per considerazioni analoghe a quelle già svolte con riferimento ai primi due motivi e in particolare al primo, del quale a ben vedere, penetrando a fatica l’intricata espressione letterale e sintattica, sembra in sostanza ripetere le medesime doglianze, sia pure sotto altri profili.

Anche in tal caso il motivo fa riferimento ad atti del processo senza però osservare l’onere di specifica indicazione degli stessi; muove da postulati del tutto incoerenti con la reale ratio decidendi della sentenza impugnata per revocazione, la quale, lungi dal negare l’avvenuto pagamento da parte di Generali dell’intero credito risarcitorio vantato da ICR, ne afferma e ne motiva l’irrilevanza ai fini del giudizio sulla correttezza della statuita condanna in appello anche del C., in via solidale: ciò che si contesta, dunque, in questa sede non è certamente la erronea percezione di tale fatto ma piuttosto, inammissibilmente, la sua valutazione sul piano delle conseguenze giuridiche.

L’esistenza di un giudicato interno che escluda la responsabilità del C. rimane asserzione incomprensibile, alla luce dei dati pacifici relativi allo svolgimento del processo, e comunque priva di alcun specifico riferimento agli atti.

In ogni caso, come già s’è detto, il suo mancato rilievo, rappresentando in ipotesi non errore di fatto percettivo ma errore di diritto, non potrebbe costituire motivo di revocazione.

5. Il quarto motivo denuncia, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5, errore di fatto e contrasto con giudicato interno, con riferimento all’affermazione, contenuta in sentenza, che la domanda di condanna del curatore fallimentare era contenuta nell’atto di citazione introduttivo di ICR.

Si sostiene, per quanto è dato comprendere, che: la genericità della domanda di ICR in primo grado ne comportava la nullità; la sua riproposizione in appello avrebbe dovuto conseguentemente ritenersi inammissibile; per ulteriore conseguenza avrebbe dovuto considerarsi passata in giudicato la sentenza di primo grado nella parte riguardante la pretesa responsabilità di esso ricorrente; la S.C., omettendo di pronunciarsi su tali censure, sarebbe incorsa in errore di fatto.

5.1. E’ evidente l’inammissibilità anche di tale motivo.

L’artificio censorio può essere disvelato in questi termini: il ricorrente ripropone in questa sede le medesime censure già vagliate e giudicate infondate nella sentenza revocanda; il fatto erroneamente percepito dalla Suprema Corte sarebbe null’altro che la “fondatezza” di tali doglianze; secondo il ricorrente, invero, la genericità della domanda risarcitoria di ICR in primo grado e la novità di quella riproposta in appello, sarebbero “fatti la cui verità incontestabilmente risulta dagli atti del processo” (così si legge, testualmente, in grassetto, nella parte finale della illustrazione del motivo) e il non averli rilevati integrerebbe errore suscettibile di revocazione.

A prescindere dalla inosservanza, anche per tale motivo, dell’onere di specifica indicazione degli atti richiamati, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, è evidente che quel che si deduce non è un errore di fatto percettivo ma un preteso errore di giudizio della Corte, non suscettibile di formare oggetto di ricorso per revocazione.

6. Il quinto motivo ripropone in sostanza la medesima doglianza.

La S.C. è incorsa, secondo il ricorrente, in errore di fatto per non avere rilevato la nullità della domanda in primo grado e l’inammissibilità per novità dell’appello incidentale di ICR, nonchè per avere ritenuto “concorrenti colpe in realtà alternative”.

Valgano per esso le medesime considerazioni appena svolte con riferimento al quarto motivo.

7. Con il sesto motivo si deduce, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., n. 4, “errore di fatto rilevante per il giudizio attinente al terzo motivo del ricorso sulla presunta concorrenza della colpa del difensore e dell’ICR rispetto a quella del curatore”.

Lamenta il ricorrente che erroneamente la S.C. ha ritenuto che, con il terzo motivo di ricorso per cassazione, egli avesse inteso censurare, inammissibilmente, la ricostruzione del nesso di causalità, dal momento che la censura investiva la ritenuta concorrenza dei comportamenti del difensore (e della stessa danneggiata) e del curatore; con essa, dunque, si sosteneva piuttosto l’alternatività delle condotte sul piano dell’incidenza causale e che “l’accertamento di ciò non avrebbe richiesto valutazioni di merito sul rapporto di causalità materiale, ma solo la presa d’atto”.

7.1. Il motivo è inammissibile.

Al di là, anche per esso, dell’evidente inosservanza dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, è dirimente il rilievo che ciò di cui ci si duole non è un errore di fatto percettivo ma piuttosto, dichiaratamente, l’erronea lettura e valutazione di un motivo di ricorso.

Occorre al riguardo rammentare che “l’impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell’ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa; pertanto, è esperibile, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., e dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, la revocazione per l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio tutte le volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perchè in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio (Cass. Sez. U 27/11/2019 n. 31032)

Nei termini sopra descritti la doglianza si appalesa priva dei requisiti predetti ed estranea all’ambito revocatorio.

Senza dire che non si comprende su quali basi logiche possa sostenersi che sostenere l’alternatività delle condotte sul piano causale non significhi far questione del rapporto di causalità.

8. Con il settimo motivo il ricorrente deduce, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., n. 4, “errore di fatto contenuto nella decisione attinente al quinto motivo del ricorso principale sulla dichiarata natura di danno aquiliano derivante dalla lesione del credito, mai dedotta da ICR in primo grado”.

Sostiene che l’avere attribuito tale natura alla responsabilità dedotta da ICR costituisce “supposizione di un fatto la cui verità e incontrastabilmente esclusa”, non risultando in alcuna parte dell’atto di citazione introduttivo alcun riferimento ad essa.

8.1. Anche in tal caso è palese l’inammissibilità della censura, investendo essa non già un fatto bensì una qualificazione giuridica della domanda.

E’ noto che tale qualificazione non è vincolata a quella che le parti abbiano dato negli atti introduttivi avendo il giudice il potere – dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti ed i fatti che formano oggetto della contestazione, sempre che sia rispettato l’ambito delle questioni proposte e siano stati lasciati immutati il petitum e la causa petendi, senza introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (v. ex plurimis Cass. n. 11289 del 10/05/2018; n. 19424 del 22/08/2013; n. 6757 del 24/03/2011).

Ne discende che l’esito di tale valutazione costituisce tipica espressione di un giudizio di diritto, non suscettibile di formare oggetto di ricorso per revocazione.

9. Con l’ottavo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5, “errore di fatto nel rigetto del sesto motivo del ricorso attinente alla censura della sentenza di merito per la parte in cui si disponeva il rimborso da parte di ICR in favore di Generali. Errore di fatto conseguente ad altro precedentemente esposto sulla formazione del giudicato della sentenza di primo grado nei confronti di S.D. e Generali” (questa, testualmente, l’intestazione).

Il motivo investe la sentenza impugnata nella parte – sopra riferita al p. 2.4 della narrativa della presente ordinanza – in cui motiva il rigetto del sesto motivo di ricorso.

Secondo il ricorrente l’errore in cui è incorsa la S.C. consiste nell’avere supposto che il sesto motivo del ricorso fosse rivolto a censurare la sentenza di merito riguardo ad una mai promossa azione di regresso. Invece – egli afferma – “la censura era rivolta alla parte della sentenza con la quale si stabiliva che l’ICR doveva rimborsare a Generali le somme da questa corrisposte in esubero rispetto alla responsabilità del suo assicurato”.

Sostiene ancora il ricorrente che è erronea l’affermazione che non si è formato alcun giudicato nei confronti di ICR, dal momento che, invece, tale giudicato si era in realtà formato nei confronti di D. e di Generali “per le ragioni esposte nel primo motivo e nei confronti di ICR per gli altri motivi innanzi esposti”.

9.1. Anche in tal caso è evidente l’inammissibilità del motivo.

Nella prima parte si deduce inammissibilmente una erronea valutazione del motivo di ricorso, a far valere la quale peraltro non è dato comprendere quale sia l’interesse della parte.

Nella seconda parte si contesta puramente e semplicemente una motivata valutazione della S.C., in termini del tutto estranei al sindacato consentito in questa sede e, peraltro, con mero generico richiamo a precedenti motivi di ricorso al cui vaglio negativo non resta pertanto che rimandare.

10. Con il nono motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 391-bis c.p.c., e all’art. 395 c.p.c., n. 4, “errore attinente al settimo motivo del ricorso principale connesso e conseguente all’altro errore innanzi censurato sull’alternatività e concorrenza dei comportamenti dei soggetti ICR-difensore da una parte e C. dall’altra” (così, testualmente, nell’intestazione).

Il motivo investe la sentenza impugnata nella parte – sopra riferita al p. 2.5, primo cpv., della narrativa della presente ordinanza – in cui afferma, a mò di motivazione alternativa, che, ove il settimo motivo di ricorso dovesse intendersi diretto a contestare l’accertamento negativo di una concorrente responsabilità della società danneggiata, lo stesso sarebbe da ritenere inammissibile, perchè censura un accertamento di fatto e, comunque, manifestamente infondato, “dal momento che è colui il quale commette un errore che ne deve risponderne, e non certo chi ne subisce gli effetti”.

Sostiene il ricorrente che non era questo il senso della censura, la quale invece era “strettamente connessa e collegata con la mancata pronuncia di alternatività e non concorrenza della colpa dell’ICR e del suo difensore, rispetto al comportamento del C.”.

L’erronea supposizione, secondo il ricorrente, “consiste nell’avere escluso l’alternatività e non concorrenza dei comportamenti.

10.1. Anche tale motivo è inammissibile.

Anzitutto perchè anch’esso si espone ai medesimi rilievi, già sopra svolti con riferimento a tutti gli altri motivi, di inosservanza dell’onere di specifica indicazione dell’atto richiamato.

E’ inoltre evidente anche in tal caso la natura valutativa dell’affermazione censurata, insuscettibile di sindacato in questa sede.

11. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

12. Le conclamate e manifeste ragioni di inammissibilità del ricorso giustificano la condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3, (applicabile catione temporis), al pagamento di una “somma equitativamente determinata” (come da dispositivo), in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (v. Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601).

Non può a tal fine non attribuirsi rilievo alla prospettazione -peraltro attraverso una pletorica articolazione di motivi – di tesi censorie generiche, ripetitive e non pertinenti, avulse da un reale confronto critico con la sentenza impugnata, tese in sostanza a sollecitare una nuova valutazione di merito.

Tutto ciò segna l’iniziativa processuale, nel suo complesso, quale frutto di colpa grave, così valutabile – come è stato detto – “in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonchè con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell’abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali” (v. Cass. 14/10/2016, n. 20732; Cass. 21/07/2016, n. 15017; Cass. 22/02/2016, n. 3376; Cass. 20/01/2015, n. 817; Cass. 7/10/2013, n. 22812).

13. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuno, in Euro 4.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.500 ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021

 

 

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