Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11185 del 11/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 11/06/2020, (ud. 14/02/2020, dep. 11/06/2020), n.11185

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21550-2018 proposto da:

D.G.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIO FIORDORO, NICOLA

RASOIO;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ DI FATTO COMPOSTA DAI SIG.RI

I.M. L.M.L., I.G., L.G.,

L.L., B.L., D.G.A.,

D.G.P., D.G.M., nonchè questi ultimi quali soci

illimitatamente responsabili, in persona dei Curatori pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 2, presso lo

studio dell’avvocato GIANLUIGI MALANDRINO, rappresentata e difesa

dall’avvocato UMBERTO CORVINO;

– controricorrente –

avverso il decreto 1241/2018 R.G. del TRIBUNALE di TORRE ANNUNZIATA,

depositato il 25/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 14/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA

TRICOMI.

Fatto

RITENUTO

CHE:

Il Tribunale di Torre Annunziata, con il decreto in epigrafe indicato, ha confermato il provvedimento del Giudice delegato che aveva disposto l’acquisizione integrale dello stipendio di D.G.P. all’attivo del Fallimento della Società di Fatto composta da I.M., L.M.L., I.G., L.G., L.L., B.L., D.G.A., D.G.P. e D.G.M., nonchè degli stessi quali soci illimitatamente responsabili.

Segnatamente il Tribunale, innanzi tutto, ha ritenuto che il provvedimento del giudice delegato fosse stato esaustivamente motivato per relationem al parere del Curatore fallimentare, che aveva fondato la richiesta di integrale acquisizione alla procedura fallimentare degli emolumenti stipendiali percepiti dal Della Gatta, perchè una serie di circostanze (disponibilità di ingenti somme di danaro intestate a prestanomi, coinvolgimento in operazione fraudolente a seguito delle quali era stato arrestato, disponibilità di somme di danaro all’estero solo tardivamente dichiarate, disponibilità di un immobile, diverso dalla residenza familiare, sito in zona prestigiosa e locato ad alto prezzo) “riportate sulla stampa non solo locale e quindi rientranti nel notorio acquisito alla comune esperienza comprovano che il fallito dispone di risorse considerevoli che sono sfuggite all’acquisizione…. che; in tale situazione, sembra evidente che, per un verso, la percezione di quello stipendio non appare indispensabile per assicurare a quel fallito la sopravvivenza, anche per la presenza di redditi e risorse nell’ambito del nucleo familiare, per l’altro lo agevola nel dissimulare l’esistenza di disponibilità finanziarie illecite, perchè contribuisce a permettergli di giustificare un tenore di vita altrimenti inspiegabile, che l’acquisizione del quinto dello stipendio, attesa la dimensione del dissesto, sembra oggettivamente irrilevante per i signori creditori” (fol. 2 del decreto imp.). Quindi ha confermato il decreto, rimarcando che il Della Gatta era soggetto “inattendibile”, giacchè, tra l’altro, aveva falsamente affermato di non avere altre disponibilità economiche se non lo stipendio del coniuge e ciò era stato smentito nei fatti ed ha evidenziato che il Della Gatta aveva continuato a godere di una vita agiata e che la situazione patrimoniale dallo stesso dichiarata, da identificarsi, in realtà, con quella accertata dal Curatore fallimentare, dimostrava ampie disponibilità economiche.

D.G.P. ricorre per cassazione con un mezzo. Il Fallimento ha replicato con controricorso.

Sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la trattazione camerale ex art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.1. Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dal Fallimento controricorrente, poichè il ricorso appare sufficientemente specifico rispetto al provvedimento impugnato.

2. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 46.

La censura è focalizzata esclusivamente sulla tesi sostenuta dal D.G. – che la disposizione in esame non consente l’acquisizione integrale dello stipendio all’attivo fallimentare, come avvenuto nel caso di specie, ciò perchè l’esigenza di mantenimento del fallito e della sua famiglia non può essere ridotto alle esigenze puramente alimentari (a differenza di quanto previsto dalla L. Fall., art. 47), e perchè l’attribuzione stipendiale va quantificato in una misura che costituisca premio ed incentivo per l’attività produttiva e reddituale svolta e di ciò il Tribunale non avrebbe tenuto conto nell’applicare la disposizione in esame.

3. Il motivo è infondato.

4. Giova ricordare che il R.D. n. 267 del 1942, art. 46, che detta la disciplina per i “Beni non compresi nel fallimento” prevede “Non sono compresi nel fallimento: 1) i beni ed i diritti di natura strettamente personale; 2) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attivita, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia; ((3) i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’art. 170 c.c.;)) 4) ((NUMERO SOPPRESSO DAL D.LGS. 9 GENNAIO 2006, n. 5)); 5) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.

I limiti previsti nel comma 1, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.”

5. In proposito è stato chiarito da questa Corte che, secondo il chiaro disposto della L. Fall., art. 46, comma 1, n. 2, è sottratto, all’attivo fallimentare soltanto la parte dello stipendio (o pensione, o salario, o provento dell’attività lavorativa del fallito) occorrente per il mantenimento del fallito e della sua famiglia e che il fallito ha un vero e proprio diritto a detta parte degli emolumenti di cui si è detto.

Tale diritto scaturisce dalla mera sussistenza del suo unico presupposto di fatto richiesto (la necessità per il mantenimento del fallito e della famiglia), non diversamente da quanto avviene per gli altri beni “non compresi nel fallimento” in base al disposto degli altri numeri della L. Fall., art. 46, comma 1, mentre il decreto del giudice delegato ha natura non già costitutiva, ma puramente dichiarativa, agendo sul piano non del perfezionamento del diritto, bensì del suo accertamento e liquidazione, come si ricava anche da considerazioni di ordine logico (Cass. n. 20325 del 27/9/2007, in motivazione), accertamento che compete al giudice del merito.

Invero, questa Corte ha affermato anche che “In tema di effetti del fallimento, L. Fall., art. 46, delimita il perimetro dei beni del fallito non compresi nel fallimento in relazione alla necessità del mantenimento del fallito stesso e della sua famiglia, non potendo, pertanto, essere acquisita alla massa l’integralità delle somme che il primo percepisce a seguito dello svolgimento della sua attività lavorativa, essendone la concreta determinazione affidata alla discrezionalità del giudice delegato in forza della semplice richiesta del curatore fallimentare, non essendo necessaria apposita istanza del fallito medesimo.” (Cass. n. 26201 dei 19/12/2016) ed ha precisato che l’acquisizione delle somme provenienti da attività lavorativa deve soggiacere alla previa deduzione delle passività incontrate dal fallito per generare quel reddito e, quindi, sul residuo netto (Cass. n. 1724 del 29/01/2015).

In epoca più risalente, inoltre, ha sottolineato – con giurisprudenza invocata dal fallito a fondamento del motivo – che “Il giudice delegato, nel determinare la quota di reddito da lavoro dipendente disponibile per il fallito e quella da destinare alla soddisfazione dei creditori, deve considerare, da un lato, che il mantenimento del fallito e della sua famiglia non può essere limitato a coprire le esigenze puramente alimentari, dovendo invece essere ragguagliato ad una misura che possa costituire anche premio ed incentivo per l’attività produttiva e reddituale svolta, e dall’altro, che tale quota non può essere elevata fino a raggiungere il limite del minimo tenore di vita socialmente adeguato (ex art. 36 Cost.), in quanto deve sempre considerarsi che nella condizione sociale del fallito ha un peso rilevante la sua condizione di debitore verso una collettività di debitori concorrenti.” (Cass. n. 17235 del 04/12/2002)

6. Posti tali condivisibili e condivisi principi, il motivo va disatteso perchè infondato.

7. La tesi sostenuta dal fallito circa il divieto a destinare tutto lo stipendio a favore della massa, non trova riscontro nè nella norma in esame, che si limita ad attribuire al giudice del merito un potere discrezionale volto ad accertare quanto occorra per il mantenimento suo e della famiglia, da esercitare caso per caso alla luce delle concrete emergenze afferenti, nè nei precedenti giurisprudenziali che all’esercizio di tale potere discrezionale fanno riferimento, potere che nel caso di specie è stato motivatamente esercitato accertando la non ricorrenza dell’unico presupposto di fatto (la necessità per il mantenimento del fallito e della famiglia) richiesto per l’attribuzione.

8. Va, infatti, rimarcato che il Tribunale si è soffermato analiticamente sugli elementi sulla scorta dei quali ha accertato che non emergeva alcuna esigenza di mantenimento del fallito e della famiglia direttamente riconducibile alla percezione dello stipendio – posto che erano state accertate, anche in sede penale, rilevanti disponibilità economiche sottratte al fallimento in Italia ed all’estero e la conduzione di uno stile di vita sicuramente non proporzionato alla mera percezione dello stipendio – ed ha escluso, quindi, la ricorrenza del presupposto previsto L. Fall., ex art. 46.

Ne discende che il precedente ex Cass. n. 26201 del 19/12/2016 non risulta pertinente – giacchè riguardava il caso della mancata valutazione delle esigenze di mantenimento in assenza di domanda del fallito e non, come nel caso di specie, quello del positivo accertamento di insussistenza di tali esigenze, accertamento decisivo su cui – peraltro- il motivo non si sofferma affatto.

Va, quindi, soggiunto che anche il precedente ex Cass. n. 17235 del 04/12/2002, invocato dal ricorrente, non risulta pertinente: è evidente, infatti, che laddove non ricorra affatto il presupposto richiesto per il riconoscimento dell’attribuzione, come nel caso in esame, non vi è alcuno spazio per ragionare sulla sua quantificazione e sulla possibilità di ragguagliarla “ad una misura che possa costituire anche premio ed incentivo per l’attività produttiva e reddituale svolta”.

9. In conclusione, andando di diverso avviso dalla proposta del relatore, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo a favore del Fallimento costituito.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, (Cass. S.U. n. 23535 del 20/9/2019).

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso;

– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in favore del Fallimento controricorrente in Euro 2.000,00=, oltre Euro 100,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2020

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