Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11183 del 07/05/2010

Cassazione civile sez. trib., 07/05/2010, (ud. 10/03/2010, dep. 07/05/2010), n.11183

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Creazioni Elisa S.r.l. in liquidazione, in persona del rapp.te legale

p.t. e liquidatore M.M., elettivamente domiciliata in Roma

via dei Monti Parioli 48 presso lo studio dell’avv. Marini Giuseppe e

rappresentata e difesa giusta procura speciale a margine del ricorso

dalla stesso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in

carica, ed Agenzia delle Entrate in persona del Direttore pro

tempore, rappresentali e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato

presso i cui uffici sono domiciliati ope legis in Roma, via dei

Portoghesi 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza 29/09/05, depositata in data 5 luglio 2005 della

Commissione tributaria regionale del Veneto;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10.3.10 dal Consigliere Dott. Giovanni Carleo;

Udita la difesa svolta per conto di parte ricorrente che ha concluso

per l’accoglimento dei ricorso, la cassazione della sentenza

impugnata con ogni consequenziale statuizione anche in ordine alle

spese processuali.

sentita la difesa svolta per conto di parte resistente, che ha

concluso per il rigetto del ricorso con vittoria di spese.

Udito il P.G. in persona del dr. che ha concluso per l’accoglimento

del ricorso con le pronunce consequenziali.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di verifica della G. di F. conclusa con p.v.c. del 24 luglio 1998 l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Vicenza con distinti avvisi di accertamento del 24 novembre 2000 contestava alla società Creazioni Elisa S.r.l. la quale svolgeva attività di costruzione di immobili per la successiva rivendita, l’omessa dichiarazione di ricavi, derivante dalla cessione non interamente fatturata di alcune unite immobiliari costruite per gli anni 1995 e 1997; quindi con avviso di rettifica comunicato il 18 settembre 2002 rettificava la dichiarazione Iva per il 1997. L’avviso in questione si fondava sulle dichiarazioni di alcuni acquirenti degli immobili nonchè su documentazione bancaria da cui emergevano discordanze tra gli importi fatturati e quelli dichiarati come corrisposti dagli acquirenti. La Creazioni Elisa S.r.l., eccependo il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento fondato sul rinvio ad atti sconosciuti non notificati nè allegati, il difetto di prova della pretesa tributaria e l’illegittimità delle sanzioni, presentava ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Vicenza la quale lo respingeva.

Proponeva appello la contribuente ribadendo le tesi esposte in primo grado. L’ufficio resisteva riaffermando le proprie posizioni. La Commissione tributaria regionale del Veneto respingeva l’impugnazione.

Avverso la detta sentenza la società contribuente ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in dieci motivi. Il Ministero dell’Economia e delle finanze e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La prima doglianza, svolta dalla ricorrente, articolata per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2 si fonda sulla premessa che gli avvisi di accertamento rinviano al contenuto del processo verbale di constatazione, il quale rinvia a sua volta alle dichiarazioni di alcuni acquirenti degli immobili ed alla documentazione bancaria comprovante tali dichiarazioni. Ora tali dichiarazioni e tale documentazione – così continua la ricorrente – non sarebbero state offerte alla disponibilità della contribuente prima del giudizio di secondo grado: in particolare, il contenuto delle dichiarazioni dei terzi non sarebbe stato riprodotto nel processo verbale nè le dichiarazioni e la documentazione bancaria sarebbero state incluse tra gli allegati nè comunque allegate all’avviso di accertamento.

La doglianza, riportata nella sua essenzialità, è contestata però in punto di fatto dalle Amministrazioni controricorrenti le quali, dopo aver premesso che la contribuente “conosceva bene, come conosce, i verbali di che trattasi e poteva esercitare, come ha esercitato, il proprio diritto di difesa” … in quanto “il processo verbale è stato debitamente notificato alla, parte ricorrente, previa sottoscrizione di ogni pagina dello stesso rappresentante legale sig. M.M.” aggiungono che il contenuto delle dichiarazioni rese dai soggetti acquirenti “è riportato nello stesso verbale, quale fonte di prova, e la cui raccolta risulta allegata allo stesso, tanto è vero che a pag. 3 dell’art. 14, al processo verbale, poco prima della sottoscrizione apposta dalla controparte, è così scritto “per i motivi che hanno determinato le differenze non dichiarate-contabilizzate di cui al presente elenco, si rimanda a quanto descritto nei verbali di dichiarazioni rese, dai citati clienti, che costituiscono allegato al p.v. di constatazione” (cfr.

fl. 12 controricorso).

Ciò premesso, giova sottolineare che, se col regime introdotto dalla … 27 luglio 2000, n. 212. art. 7, l’obbligo di motivazione degli atti tributar può essere adempiuto “per relationem”, cioè mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, solo a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale (v. Cass. n. 1906 del 2008), è altrettanto vero che, a fronte del contrasto tra le parti in causa circa l’effettuata allegazione dei suddetti atti, allegazione negata dalla contribuente ed affermata invece dalle Amministrazioni, la doglianza in esame avrebbe potuto essere apprezzata solo attraverso un’attenta lettura dell’avviso opposto e del p.v.c. ai quale esso rinvia. Pertanto, a tale scopo, parte ricorrente avrebbe dovuto in ricorso riportare il testo di tali atti per rendere possibile a questa Corte la valutazione e decisione della censura stessa sulla base del solo ricorso e senza necessità di indagini integrative non consentite dalla natura della censura in esame in quanto solo l’attenta lettura integrale del suddetto p.v.c. e dell’avviso di accertamento avrebbe potuto consentire di valutare la fondatezza o meno della censura.

E ciò, senza considerare che la contribuente avrebbe dovuto provare che almeno una parte del contenuto di tali atti era stata necessaria ad integrare (direttamente o indirettamente) la motivazione del suddetto atto impositivo e che tale parte non era stata già riportata in tale ultimo atto (ovvero in quello cui esso rinviava), venendo così comunque a conoscenza della contribuente stessa. Ed invero, secondo il recente orientamento di questa Corte, in tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1 (cosiddetto Statuto dei contribuente), nei prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non intende certo riferirsi ad atti di cui il contribuente abbia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione. Infatti, un’interpretazione puramente formalistica si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause d’invalidità o d’inammissibilità chiaramente irragionevoli. (Cass. n. 18073/08). Consegue che la doglianza va ritenuta inammissibile per difetto di autosufficienza.

Passando alla seconda doglianza, va rilevato che la contribuente lamenta l’utilizzo di prove non ammesse nel processo tributario, non potendo la pretesa fondarsi sulle dichiarazioni di terzi illegittimamente acquisite giusta il divieto di prova testimoniale.

Ed invero, i verificatori – così continua la ricorrente – hanno valorizzato le dichiarazioni rese dai sigg.ri Mu.Em. (per l’anno 1995) e C. (per l’anno 1997) acquirenti di alcune unità immobiliari laddove l’assunzione di informazioni testimoniali non è consentita da nessuna norma di legge in materia tributaria.

Anche tale doglianza non coglie nel segno. Posto che nel caso di specie il quadro probatorio, posto dai giudici di merito a base della loro decisione, si compone di numerosi altri elementi al di là delle dichiarazioni dei terzi, quali la documentazione bancaria, titoli di credito utilizzati per i pagamenti, matrici degli assegni, le differenze tra le somme pagate e quelle fatturate, la mancata conservazione delle fatture di vendita e del registro Iva vendite.

giova aggiungere che nel processo tributario, gli elementi indiziali, come le dichiarazioni dei terzi acquisite dalla guardia di finanza nel corso delle operazioni di verifica, concorrono a formare il convincimento del giudice, ove confortati da altri elementi di prova.

Se rivestono i caratteri di gravità precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ. essi danno luogo a presunzioni semplici (del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54), generalmente ammissibili nel contenzioso tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale (Cass. n. 9402/07).

Ed invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo con le garanzie del contraddicono e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento anche sul conto di un determinato contribuente Tali dichiarazioni, proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali semplici elementi “indiziari” il cui valore può essere sempre contestato dal contribuente nell’esercizio del suo diritto di difesa (cfr Cass. n. 902/02, n. 18/00).

Passando all’esame della terza doglianza, articolata per insufficiente ovvero contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia, per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. va osservato che ad avviso della ricorrente, la CTR con riferimento all’avviso di accertamento Irpeg ed Ilor 1997 avrebbe omesso di pronunciarsi sulla circostanza che nessuna prova era stata fornita in ordine ai soggetti che avrebbero negoziato gli assegni bancari comprovanti i pagamenti in nero; con riferimento all’avviso di accertamento Irpeg ed Ilor 1997 ed IVA 1997 avrebbe omesso di pronunziare sulla dedotta infondatezza della pretesa, sulla circostanza che gli importi corrisposti dall’ A. erano stati fatturati in precedente al C. che non aveva più acquistato l’immobile.

La doglianza è inammissibile per un duplice ordini di motivi: 1) in primo luogo per l’irrituale commistione tra vizi ontologicamente diversi quali l’omessa motivazione e l’omessa pronunzia. A riguardo, è appena il caso di sottolineare che il vizio di “omessa pronuncia” integrarne un difetto di attività del giudice, quindi un error in procedendo, produttivo della nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 si verifica quando il giudice omette di pronunciarsi su una domanda, un’eccezione oppure, in appello, su uno dei fatti costituitivi della domanda di appello, mentre il vizio di “omessa motivazione su un punto decisivo della controversia”, presuppone che il giudice abbia preso in considerazione la questione oggetto della domanda o dell’eccezione e l’abbia risolta, anche se senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la sua decisione 2) in secondo luogo, perchè l’asserita mancata verifica da parte del giudice del merito degli elementi dedotti dalla ricorrente non integra, di per se, il vizio di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, occorrendo che le risultanze processuali non esaminate allentano a circostanze che, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità avrebbero potuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata laddove tale presupposto non è stato neppure dedotto nel caso di specie. Passando alla quarta censura, fondata sulla dedotta inesistenza della notifica degli alti impugnati e sulla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 deve osservarsi che la ricorrente rassegna i suoi rilievi essenzialmente sulla circostanza che l’ufficiale notificatore non ha provveduto a redigere la relata di notifica e che la raccomandata è stata inviata ad un indirizzo non corrispondente alla sede della società per cui la notifica deve ritenersi inesistente con conseguente rilevabilità di ufficio del relativo vizio.

La censura appare infondata. Ed invero, l’inesistenza della notificazione, come tale insuscettibile di sanatoria, è configurabile solo quando essa manchi totalmente oppure quando l’attività compiuta esca completamente dallo schema legale del procedimento notificatorio, essendo stata effettuata in modo assolutamente non previsto dalla normativa. Il parametro elaborato per distinguere l’inesistenza dalla nullità dell’atto giuridico comporta infatti che sussiste nullità della notificazione, e non inesistenza, allorchè i vizi siano tali da non escludere l’eventualità della conoscenza dell’atto da parte del destinatario, come potenziale sviluppo dell’attività dell’ufficiale notificante, anche se irritualmente compiuta (Cass. 16900/03). Ne deriva che una notificazione è soltanto nulla e deve ritenersi sanata in virtù del raggiungimento dello scopo quando la consegna sia comunque avvenuta mediante rilascio di copia dell’atto a persona ed in luogo aventi un qualche riferimento con il destinatario della notificazione ed il notificando, così come è avvenuto nella specie, mostra di aver avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto ed ha potuto dedurre i vizi relativi alla notifica nonchè difendersi nel merito.

Con il quinto motivo di impugnazione per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55 e dell’art. 2697 c.c., la ricorrente lamenta che la CTR avrebbe sbagliato nel ritenere esatta l’affermazione dell’Agenzia delle Entrate quando ha dedotto che la società fino al 31 luglio 1998 non aveva regolarizzato la situazione provvedendo a fatturare gli ulteriori importi riscossi. Infatti, alla data di conclusione della verifica (24 luglio 1998) non erano ancora scaduti i termini per la presentazione della dichiarazione.

La censura è inammissibile in quanto non è in correlazione alcuna con la le ragioni poste dalla CTR a base della propria decisione sul punto specifico, ragioni le quali si fondano invece sul rilievo che dagli atti processuali non risultava alcuna prova dell’avvenuta regolarizzazione della operazione contabile, non essendo stati prodotti nè depositati dalla contribuente documenti volti a dimostrare che la società contribuente avesse nelle more attuato alcun ravvedimento operoso. Del resto, come rileva l’Amministrazione nelle sue difese, vale la pena di chiarire che la dichiarazione, essendo riferibile al 1997, avrebbe dovuto essere presentata entro il 15 marzo 1998 per cui alla data di conclusione della verifica i termini relativi erano già ampiamente scaduti.

Passando alla sesta doglianza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55 e del D.P.R. n. 600 del 1972, art. 42 nonchè dell’art. 112 c.p.c. va rilevato che la ricorrente lamenta la mancata sottoscrizione dell’avviso di rettifica IVA per il 1997 e l’omessa pronuncia sul punto da parte del giudice del merito.

Ed invero – cosi continua la ricorrente – l’avviso non sarebbe stato sottoscritto dal capo dell’ufficio nè inoltre sarebbe risultato che il firmatario fosse un impiegato della carriera direttiva, o comunque un impiegato appositamente delegato alla firma.

Dubitandosi di ciò – così continua la ricorrente – era stato chiesto all’Amministrazione di fornire la prova della delega alla firma o della carica direttiva. Nessuna prova in tal senso era stata fornita dall’Amministrazione e la CTR aveva omesso ogni pronuncia sul punto.

A riguardo, appare opportuno premettere che, come risulta dalla sentenza impugnata, la decisione non contiene il minimo accenno alla questione in parola riguardante la pretesa nullità dell’avviso di rettifica. Nè la ricorrente si è preoccupata di riportare, nel ricorso, previa trascrizione nei suoi esatti termini, il contenuto della doglianza, che avrebbe costituito il motivo di appello e sul quale la CTR avrebbe omesso di pronunciarsi.

E ciò, ad onta del fatto che, come avverte costantemente questa Corte, in ragione del principio di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso il ricorrente ha l’onere di specificarne il contenuto della doglianza proposta mediante la sua sintetica ma esauriente esposizione nonchè di procedere alla sua integrale trascrizione nel ricorso, non essendo assolutamente sufficiente all’uopo il semplice richiamo all’atto depositato in quanto deve essere invece consentito a questa Corte il necessario controllo, al fine di verificare la ritualità del contenuto oltre che la tempestività della proposizione della doglianza. Ed è appena il caso di sottolineare che pur configurando la violazione dell’art. 112 c.p.c. un error in procedendo, per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, non essendo tale vizio rilevabile d’ufficio, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non comporta che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli, (Cass., 10593/08). Ne consegue che in applicazione di questo principio la censura formulata deve essere dichiarata inammissibile.

Considerazioni analoghe valgono per l’ultima doglianza, la decima, con cui la ricorrente lamenta l’omessa pronunzia del giudice d’appello sulla pretesa illegittimità della condanna alla rifusione delle spese del giudizio di primo grado, la cui trattazione viene anticipata per comodità di esposizione. Anche, in tal caso, va rilevato introduttivamente che la sentenza impugnata, non contiene il minimo accenno alla doglianza che sarebbe stata avanzata con l’appello dalla contribuente e che quest’ultima non ha assolto l’onere di specificare il contenuto della censura proposta nè tanto meno ha provveduto alla sua integrale trascrizione nel ricorso. Ne deriva l’inammissibilità della doglianza per difetto di autosufficienza.

Restano da esaminare le tre successive censure, esattamente la settima, l’ottava e la nona secondo l’ordine del ricorso, formulate per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 2, comma 2, artt. 7, 12, 16, 17 e 27.

Con la prima di esse la ricorrente ha lamentato l’illegittima irrogazione della sanzione per infedele dichiarazione in quanto la CTR avrebbe trascurato che, secondo il D.Lgs. citato, art. 2, comma 2 in vigore dal 1.4.1998 precedentemente alla dichiarazione Iva presentata in data 31 luglio 1998, le sanzioni sono applicabili solo alle persone fisiche che hanno commesso o hanno concorso a commettere la violazione e non anche alle società.

A riguardo, mette conto di sottolineare che, a norma della art. 25, n. 1 – Disposizioni transitorie – del D.Lgs. n. 472 del 1997, le disposizioni di detto decreto “si applicano alle violazioni non ancora contestate o per le quali la sanzione non sia stata irrogata alla data della sua entrata in vigore”. Ciò posto, considerato che, nel caso di specie, alla data del 1 aprile 1998 coincidente con l’entrata in vigore del decreto sopra indicato, la violazione non era stata ancora contestata nè era stata notificata l'”irrogazione di alcuna sanzione, l’interprete che esaurisse la sua attenzione sulla norma sopra menzionata, ai fini dell’applicazione della regola riguardarne l’imputabilità delle sanzioni alla persona fisica in luogo della società di cui agli artt. 2 e 11 del D.Lgs. in parola, potrebbe essere indotto a ritenere la fondatezza della doglianza, non rilevando in senso contrario la circostanza che l’irregolarità fosse relativa all’anno 1997 come ha invece ritenuto l’Amministrazione nel suo controricorso.

Fatto sta che il successivo art. 27 del D.Lgs. in esame, sempre in tema di disciplina transitoria, prevede invece, testualmente, che “Le violazioni riferite dalle disposizioni vigenti a società, associazioni od enti si intendono riferite alte persone fisiche che ne sono autrici, se commesse dopo l’entrata in vigore del presente decreto”.

Ora non vi è dubbio che quest’ultima norma, nel riportarsi in maniera diretta e specifica alle violazioni riferite dalle disposizioni vigenti a società associazioni o enti, si atteggia come species rispetto al genus costituito dalla più ampia e generica previsione contenuta nell’art. 25 sopra citato, n. 1 con la conseguenza che, nel caso di specie, deve ritenersi applicabile alla fattispecie la norma di cui all’art. 27 citato in ossequio al principio di specialità. Tale conclusione è altresì confortata dalla considerazione che in base al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 25, n. 2 soltanto gli artt. 3, 4, 5, 6, 8 e 12, e non anche gli artt. 2 ed 11 che hanno introdotto il cd. principio di personalizzazione della sanzione, si applicano ai procedimenti in corso alla data indicata nel comma 1.

Ne deriva l’infondatezza della doglianza in esame in quanto la violazione risulta commessa prima dell’entrata in vigore del decreto in questione dovendosi ritenere che le violazioni “commesse in epoca precederne continuano ad essere riferite alla società, all’associazione o all’ente con permanenza della responsabilità solidale della persona fisica prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 98 senza che possa trovare applicazione il principio del “favor rei”, in quanto l’abrogazione della disciplina previdente non ha avuto alcun effetto sulla norma incriminatrice” (cfr. Cass. n. 5714/07).

Con le due successive doglianze, l’ottava e la nona, la ricorrente ha lamentato rispettivamente l’irragionevolezza delle modalità di determinazione delle sanzioni, in una alla carenza di motivazione, nonchè la mancata applicazione del beneficio della continuazione, in una all’omessa pronunzia sulla relativa richiesta avanzata nel corso del giudizio di merito.

Ed invero – in tali rilievi si riassumono le doglianze – l’Ufficio non si sarebbe limitato all’irrogazione di una sanzione pari al minimo edittale ritenendo erroneamente che le violazioni configurassero gli estremi del danno grave per l’Erario e comportassero sanzioni penali, pur trattandosi di una presunta evasione di imposta per L. 10 milioni: la CTR avrebbe infine omesso ogni pronunzia sulla richiesta applicazione del D.Lgs. citato, art. 12 per più tributi e per più periodi di imposta.

Entrambe le doglianze sono inammissibili sia pure per ragioni diverse. Ed invero, l’ottava censura è inammissibile nella misura in cui richiede una rivalutazione della decisione nel merito, che è preclusa in sede di legittimità: la nona è invece inammissibile per difetto di autosufficienza posto che la sentenza impugnata non contiene alcun accenno a tale motivo di impugnazione e che il contribuente si è ben guardato dall’asso vere l’onere, a suo carico, di indicare in quale atto avrebbe avanzato la richiesta di ridetemi inazione delle sanzioni facendo corretta applicazione dell’art. 12 citato e quindi di provvedere a riportare nei suoi esatti termini, previa trascrizione, il contenuto della doglianza al fine di consentire a questa Corte di verificarne la ritualità e la tempestività.

Considerato che la sentenza impugnata appare in linea con i principi di diritto richiamati, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 5.200,00 di cui Euro 200.00 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2010

 

 

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