Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1118 del 21/01/2021

Cassazione civile sez. VI, 21/01/2021, (ud. 10/12/2020, dep. 21/01/2021), n.1118

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17975/2018 R.G. proposto da:

F. S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. Agostino

Gambino, dall’Avv. Prof. Claudio Consolo e dall’Avv. Massimo

Ranieri, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma,

via dei Tre Orologi, n. 14/A;

– ricorrente –

contro

Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell’Economia e delle

Finanze e Agenzia delle Entrate, rappresentati e difesi ex lege

dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici

domiciliano ope legis in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza n. 29653/2017 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 12 dicembre 2017 R.G.N. 11375/2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 dicembre

2020 dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Il fatto e le questioni trattate, per quanto ancora di essi rileva in questa sede, sono così descritti nell’ordinanza impugnata:

“con ordinanza emessa ai sensi del R.D. 14 aprile 1910, n. 639, art. 3, l’Intendenza di Finanza di (OMISSIS), a ciò delegata dal Ministero dell’Industria, ingiunse alla Interfito Mediterranea S.p.A. il pagamento della somma di Lire 29.679.702.000 (oltre interessi ed accessori), quale restituzione dei contributi erogati in virtù del D.Lgs. 30 marzo 1990, n. 76, art. 39, comma 11, restituzione conseguente al D.M. Industria 31 marzo 1994, n. 85, di decadenza della predetta società dal godimento dei benefici di cui al citato decreto legislativo.

“Nello spiegare opposizione, la società intimata dedusse la nullità dell’ordinanza ingiunzione, argomentando dall’illegittimità del decreto di revoca dei contributi per inefficacia del provvedimento “a monte” di concessione degli stessi, quale conseguenza della pronuncia del lodo arbitrale con cui era stata dichiarata risolta, per inadempimento della P.A. concedente, la convenzione relativa al progetto finanziato con l’ammissione a contributo”.

Integrato il contraddittorio nei confronti del Ministero dell’Industria (successivamente denominato Ministero dello Sviluppo Economico), “il Tribunale di Potenza, affermata la legittimazione passiva di tutte le PP.AA. convenute, accolse l’opposizione, sul rilievo dell’annullamento giudiziale ad opera del T.A.R. Lazio del decreto ministeriale di decadenza dai benefici, presupposto dell’ingiunzione.

“Sull’impugnazione proposta dalle PP.AA., la Corte di Appello di Potenza, con la sentenza n. 458/2014 del 6 maggio 2014, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate (succeduta ex lege all’Intendenza di Finanza), e confermato, per il resto e nel merito, la decisione di primo grado”.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte di cassazione ha accolto il secondo dei motivi del ricorso proposto dal MI.S.E. (con il quale si denunciava violazione di legge per avere la Corte di appello omesso di pronunciare sulla fondatezza della pretesa erariale di ottenere la restituzione dei contributi indebitamente percepiti dall’opponente) e l’unico motivo del ricorso incidentale proposto dalla F. S.p.a., società incorporante la Interfito Mediterranea S.p.A. in liquidazione (che si doleva della ritenuta carenza di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate); ha quindi cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviato al giudice a quo, anche per le spese.

A fondamento dell’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale (che qui viene denunciato siccome, in tesi, frutto di errore di fatto revocatorio) la S.C. ha osservato che il thema decidendum della controversia introdotta dall’opposizione ad ingiunzione fiscale “non si esaurisce nella verifica della validità formale del provvedimento impugnato e della sussistenza delle condizioni di ammissibilità del ricorso della pubblica amministrazione al peculiare strumento di autotutela… ma si estende necessariamente all’accertamento sul merito della pretesa creditoria fatta valere dalla P.A..

“In altre parole, l’opposizione ad ingiunzione fiscale ha ad oggetto non soltanto l’atto amministrativo, ma anche il rapporto giuridico obbligatorio sottostante, e la cognizione del giudice adito non si limita ai vizi di legittimità formale dell’ingiunzione dedotti dall’opponente ma involge comunque, a prescindere da una espressa richiesta in tal senso, l’accertamento sull’esistenza e l’entità del credito.

“In detto giudizio, infatti, con il richiedere il rigetto dell’avversa opposizione ovvero la conferma dell’impugnata ingiunzione, l’opposta amministrazione formula una domanda di riconoscimento (totale o parziale) del diritto al recupero del credito nella misura e per le ragioni causali già giustificanti l’ingiunzione, sulla cui fondatezza il giudice è tenuto a statuire, in base agli elementi di prova addotti dalle parti (assumendo l’amministrazione opposta, ai fini del riparto del relativo onere, la veste di attore in senso sostanziale), atteso che è lo stesso atto di accertamento notificato all’ingiunto, nei limiti da questi impugnato, ad integrare gli estremi della domanda sulla quale il giudice è chiamato a pronunciarsi (ex plurimis, Cass. 03/11/2011, n. 22792; Cass. 18/06/2010, n. 14812; con specifico riferimento alla distribuzione dell’onus probandi, Cass. 16/05/2016, n. 9989)”.

Sulla base di queste premesse la S.C. ha, quindi, osservato che erroneamente la Corte d’appello aveva “ravvisato la “illegittimità della pretesa fatta valere con l’ingiunzione” quale conseguenza, sic et simpliciter, dell’annullamento in sede giurisdizionale amministrativa dell’atto prodromico, ovvero il decreto ministeriale di decadenza dai benefici e di revoca dei contributi” e che altrettanto erroneamente aveva “ritenuto non dover pronunciare sul credito della P.A. alla restituzione del contributo dacchè, in quanto fondato su un titolo diverso rispetto a quello posto a base dell’ingiunzione (“ovvero sulle circostanze evidenziate nella stessa sentenza del TAR Lazio e prima ancora sul lodo arbitrale”: così testualmente, pag. 11 della sentenza impugnata), presupponeva la proposizione di apposita domanda riconvenzionale, non formulata invece dalla P.A. opposta”.

Secondo la S.C., infatti, “l’argomentazione così sviluppata, non immune da intrinseche contraddizioni, non è condivisibile nell’apprezzamento della diversità della causa petendi del credito restitutorio controverso rispetto alla ragione giustificante l’emissione dell’ingiunzione fiscale.

“Quest’ultima, invero, trae fondamento nell’accertamento da parte della P.A. di una condictio indebiti sostanziale del soggetto privato, cioè a dire del sopravvenuto venir meno della causa di erogazione del contributo per effetto della risoluzione (con lodo arbitrale) della convenzione relativa al progetto in tal modo finanziato, accertamento rispetto al quale il decreto ministeriale di revoca del beneficio assume valenza meramente ricognitiva.

“Con l’ordinanza ingiunzione de qua, la P.A. ha, in altri termini, preteso la ripetizione di somme divenute indebite per effetto della dichiarata inefficacia del provvedimento di erogazione, accertata con il D.M. di revoca del contributo: diritto alla restituzione per siffatto titolo costituente, senza necessità di domanda riconvenzionale, il thema decidendum del giudizio di opposizione ed oggetto altresì delle contestazioni in tale sede sollevate dall’ingiunto, il quale, sulla scorta del medesimo fatto (lodo arbitrale di risoluzione della convenzione), ha dedotto l’infondatezza della richiesta restitutoria della P.A. ed invocato il contrario accertamento di un proprio maggiore credito.

“La delibazione sull’esistenza ed entità del preteso (e controverso) credito da ripetizione dell’indebito dell’amministrazione opposta e sulle eccezioni della società opponente risulta pertanto erroneamente omessa nella sentenza impugnata”.

3. Per la revocazione della ordinanza della Suprema Corte propone ricorso la F. S.p.a., ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, con unico motivo, cui resistono le amministrazioni intimate, depositando controricorso.

4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Secondo la ricorrente la sentenza de qua, nel punto sopra descritto (ossia là dove ha accolto il secondo motivo del ricorso per cassazione proposto dal MI.S.E.), è frutto di errore di fatto percettivo, ex art. 395 c.p.c., n. 4, atteso che, contrariamente a quanto in essa affermato, la pretesa restitutoria per la quale era stata emessa l’ingiunzione fiscale opposta, era fondata su causa petendi (la decadenza dal contributo per mancata conclusione nei termini delle opere) diversa dalla risoluzione della convenzione, per inadempimento della stessa amministrazione, già definitivamente pronunciata con lodo arbitrale: causa petendi, quest’ultima, inammissibilmente introdotta solo in appello (come aveva ritenuto, secondo la ricorrente correttamente, la Corte territoriale).

Sostiene la ricorrente che “causa una svista caduta sia sul contenuto del ricorso avversario, sia sugli atti del giudizio di legittimità… la Corte ha… ritenuto che la P.A. avesse, sin dal D.M. n. 85 del 1994, e dalla conseguente ingiunzione fiscale, invocato, a fondamento del proprio credito restitutorio, il lodo arbitrale di risoluzione per inadempimento della P.A. della convenzione con Interfito”, mentre “dagli atti e dai documenti del giudizio di legittimità emerge… che nè il D.M. n. 85 del 1994, nè l’ingiunzione fiscale facevano il minimo riferimento al lodo di risoluzione…”.

Tale lodo era stato piuttosto invocato dall’ingiunta “non già per resistere ad una richiesta di restituzione ex art. 1458 c.c., ma per dedurre l’illegittimità dello sviamento posto in essere dalla parte pubblica al fine di aggirare, a proprio vantaggio, la decisione arbitrale, nonchè per chiedere in via subordinata, per il solo caso di conferma dell’ingiunzione (caso non verificatosi nei giudizi di merito, con conseguente assorbimento di tale domanda), la rideterminazione del credito della P.A. e la compensazione dello stesso con il suo maggior credito derivante dall’Iodo arbitrale”.

2. Questi essendo i termini della questione sottoposta all’esame di questa Corte, occorre anzitutto rilevare l’infondatezza della eccezione preliminarmente opposta dalle amministrazioni controricorrenti di inammissibilità del ricorso per revocazione, poichè riferito a sentenza della Suprema Corte che, non decidendo nel merito, ha cassato la sentenza d’appello con rinvio al giudice a quo: eccezione motivata dal rilievo che, quando la decisione di merito viene cassata con rinvio, ogni eventuale errore revocatorio può essere fatto valere nel giudizio di riassunzione (v. in tal senso, richiamate nel controricorso, Cass. n. 20393 del 12/10/2015; n. 16184 del 25/07/2011; n. 13790 del 07/11/2001).

Questo Collegio intende al riguardo dar continuità al diverso principio – consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte successivamente agli arresti richiamati nel controricorso – secondo il quale “il ricorso per revocazione delle pronunce di cassazione con rinvio deve ritenersi inammissibile soltanto se l’errore revocatorio enunciato abbia portato all’omesso esame di eccezioni, questioni o tesi difensive che possano costituire oggetto di una nuova, libera ed autonoma valutazione da parte del giudice del rinvio ma non anche se la pronuncia di accoglimento sia fondata su di un vizio processuale dovuto ad un errore di fatto o se il fatto di cui si denuncia l’errore percettivo sia assunto come decisivo nell’enunciazione del principio di diritto, o, nell’economia della sentenza, sia stato determinante per condurre all’annullamento per vizio di motivazione” (Cass. n. 12046 del 17/05/2018; conf. Cass. n. 8259 del 22/03/2019).

Tale condizione (che osta ad pronuncia di inammissibilità del ricorso per revocazione e che al contrario lo rende ammissibile) si verifica certamente nella specie, dal momento che, per il vincolo derivante dalla pronuncia di annullamento, il giudice del rinvio, chiamato bensì a delibare “sull’esistenza ed entità del preteso (e controverso) credito da ripetizione dell’indebito dell’amministrazione opposta” (oltre che sulle eccezioni della società opponente), non potrà comunque escludere l’ammissibilità della relativa pretesa restitutoria (perchè, in tesi, estranea al thema decidendum), essendo tale ammissibilità irretrattabilmente stabilita nella pronuncia del giudice di legittimità.

3. Il ricorso è nondimeno inammissibile per diversa ragione, afferente alla natura del vizio denunciato.

Secondo principio costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore revocatorio è configurabile nelle ipotesi in cui la Corte sia incorsa in un errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti – con i caratteri della evidenza e della obiettività, così da non richiedere lo sviluppo di argomentazioni induttive o indagini – e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati, risolvendosi questa ben diversamente in preteso errore di giudizio della Corte, non suscettibile di formare oggetto di ricorso per revocazione (v. ex multis Cass. Sez. U. n. 30/10/2008, 26022; Cass. 05/03/2015, n. 4456; 18/06/2015, n. 12655; 09/12/2013, n. 27451).

Nella specie è per l’appunto questa seconda ipotesi a profilarsi quale reale oggetto della doglianza, dovendosi comunque escludere che dalla sentenza possa dirsi emergere, con i caratteri della evidenza, della obiettività e della incontrovertibilità, un errore meramente percettivo.

Ed invero, lungi da potersi ipotizzare la denunciata “svista”, da varie parti della sentenza emerge ben chiara la consapevolezza, da parte del Collegio decidente, del fatto che: a) l’ingiunzione fiscale fosse stata emessa sul presupposto della decadenza dai contributi erogati, già dichiarata con D.M. n. 85 del 1994; b) la risoluzione per inadempimento della P.A. era stata invece dedotta, quale motivo di opposizione, dall’ingiunta; c) il credito restitutorio fatto valere dalla P.A. nel giudizio di opposizione era fondato su un “titolo diverso” rispetto a quello posto a base dell’ingiunzione (“ovvero sulle circostanze evidenziate nella stessa sentenza del TAR Lazio e prima ancora sul lodo arbitrale”).

Sulla base di tali premesse fattuali, indubbiamente desumibili dalla sentenza e corrispondenti a quanto viene qui rappresentato dalla ricorrente come effettiva realtà emergente dagli atti (sulla quale dunque, ripetesi, non è predicabile alcuna “svista” da parte della S.C.), viene successivamente svolta in sentenza l’osservazione secondo cui la valutazione che ne aveva tratto le Corte d’appello (secondo cui la diversità del titolo posto a base della pretesa restitutoria nel giudizio di opposizione rispetto a quello posto a base dell’ingiunzione avrebbe richiesto, nel predetto giudizio, la proposizione di apposita domanda riconvenzionale), “non è condivisibile”.

E tale “non condivisibilità” viene motivata non già perchè la S.C., giunta a tal punto, obliterando quanto fin a quel momento ripetutamente evidenziato in punto di fatto, affermi che in realtà i “titoli” sono, morfologicamente, identici, ma bensì perchè quei dati fattuali non possono giustificare “l’apprezzamento della diversità della causa petendi del credito restitutorio controverso rispetto alla ragione giustificante l’emissione dell’ingiunzione fiscale”.

Condivisibile o meno che possa apparire, si tratta dunque di una valutazione giuridica non della percezione di un fatto; la S.C. Corte valuta, cioè, che quella diversità (pur ripetutamente evidenziata) di impostazione fattuale riscontrabile tra le ragioni dell’ingiunzione fiscale e quelle poste a fondamento della pretesa restitutoria avanzata nel giudizio di opposizione, non esclude che la causa petendi possa comunque “apprezzarsi” (significativo, in tal senso, l’uso in sentenza di tale termine) come immutata.

E ciò ai fini dell’applicazione, anche nel caso di specie, del principio di diritto in precedenza richiamato secondo cui “nel giudizio di opposizione a ingiunzione fiscale, con il richiedere il rigetto dell’avversa opposizione ovvero la conferma dell’impugnata ingiunzione, l’opposta amministrazione formula una domanda di riconoscimento (totale o parziale) del diritto al recupero del credito nella misura e per le ragioni causali già giustificanti l’ingiunzione, sulla cui fondatezza il giudice è tenuto a statuire, in base agli elementi di prova addotti dalle parti (assumendo l’amministrazione opposta, ai fini del riparto del relativo onere, la veste di attore in senso sostanziale), atteso che è lo stesso atto di accertamento notificato all’ingiunto, nei limiti da questi impugnato, ad integrare gli estremi della domanda sulla quale il giudice è chiamato a pronunciarsi”.

In tale prospettiva vanno indubbiamente lette anche le affermazioni successive secondo cui:

– (l’ingiunzione fiscale) “trae fondamento nell’accertamento da parte della P.A. di una condictio indebiti sostanziale del soggetto privato, cioè a dire del sopravvenuto venir meno della causa di erogazione del contributo per effetto della risoluzione (con lodo arbitrale) della convenzione relativa al progetto in tal modo finanziato, accertamento rispetto al quale il decreto ministeriale di revoca del beneficio assume valenza meramente ricognitiva”;

– “con l’ordinanza ingiunzione de qua, la P.A. ha, in altri termini, preteso la ripetizione di somme divenute indebite per effetto della dichiarata inefficacia del provvedimento di erogazione, accertata con il D.M. di revoca del contributo: diritto alla restituzione per siffatto titolo costituente, senza necessità di domanda riconvenzionale, il thema decidendum del giudizio di opposizione ed oggetto altresì delle contestazioni in tale sede sollevate dall’ingiunto, il quale, sulla scorta del medesimo fatto (lodo arbitrale di risoluzione della convenzione), ha dedotto l’infondatezza della richiesta restitutoria della P.A. ed invocato il contrario accertamento di un proprio maggiore credito”.

Sull’assunto che, ai fini in questione, la causa petendi cui occorre guardare, per giudicare della novità o meno della pretesa restitutoria, sia la condictio indebiti, ossia il carattere indebito delle somme erogate, la S.C. esprime, in sostanza, un giudizio di irrilevanza del fatto che tale carattere indebito derivi dalla decadenza dichiarata nel D.M. (il quale, si rimarca in tal senso, ha carattere “meramente ricognitivo”, ovverosia non costitutivo della pretesa restituoria) ovvero dalla più radicale ragione della risoluzione della convenzione.

Gli effetti dell’una e dell’altra origine della pretesa saranno certamente diversi sul piano della valutazione delle opposte ragioni di credito/debito (e difatti la sentenza dà poi mandato al giudice di rinvio di delibare tali contrapposte ragioni), ma non sono tali da poter condurre a negare che del giudizio di opposizione facesse comunque parte anche quella pretesa restitutoria, indipendentemente dalla proposizione di una rituale e tempestiva domanda riconvenzionale.

Senza che metta conto esprimere apprezzamenti di alcun genere in ordine a tale ragionamento, quel che è sufficiente in questa sede rimarcare è che, per l’appunto, si tratta certamente di una valutazione giuridica, condotta sulla base di dati esattamente rappresentati e come tale sottratta al sindacato proprio del giudizio di revocazione, e non di una valutazione obiettivamente e incontrovertibilmente condizionata dalla erronea percezione di un fatto processuale.

4. La memoria che, come detto, è stata depositata dalla ricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.

5. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021

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