Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1118 del 18/01/2018


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 1118 Anno 2018
Presidente: CHINDEMI DOMENICO
Relatore: DELLI PRISCOLI LORENZO

SENTENZA
sul ricorso 2608-2013 proposto da:
CLERICI GIUSEPPE, elettivamente domiciliato in ROMA
VIA GAVINANA 4, presso lo studio dell’avvocato
DOMENICO ANGELINI, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato MICHELE TUMMINELLI giusta
delega a margine;
– ricorrente contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI

12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende;

Data pubblicazione: 18/01/2018

- controricorrente avverso la sentenza n. 92/2012 della COMM.TRIB.REG.
MILANO, depositata il 06/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 06/12/2017 dal Consigliere Dott. LORENZO

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per
il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato ANGELINI che ha
chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato URBANI NERI
che ha chiesto il rigetto.

DELLI PRISCOLI;

FATTI DI CAUSA

Il contribuente, Giuseppe Clerici, in qualità di rappresentante
legale della Casa del Caffè s.a.s., impugnava davanti alla
Commissione Tributaria Provinciale di Milano il provvedimento con il
quale l’Agenzia delle Entrate gli aveva comunicato il diniego di

29 dicembre 2002, n. 289 – relativo ad una istanza da lui presentata
il 14 giugno 2003, in quanto, secondo la suddetta Agenzia, non
risultavano effettivamente pagate le somme dovute in base all’istanza
stessa.
Il contribuente lamentava l’intervenuta decadenza dell’Ufficio
dalla potestà di imposizione e l’effettivo pagamento della somma
necessaria ai fini del perfezionamento del condono.
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano rigettava il ricorso
con sentenza n. 329/22/10, affermando che l’Agenzia delle Entrate
non era decaduta dalla potestà di imposizione e, nel merito, la
legittimità del provvedimento di diniego del perfezionamento del
condono, attesa l’insussistenza dei pagamenti necessari.
Contro tale pronuncia il contribuente, riproponendo le medesime
doglianze, proponeva appello, che veniva respinto dalla Commissione
Tributaria Regionale della Lombardia con la sentenza n. 92/32/12 del
6 giugno 2012.
Il contribuente proponeva allora ricorso per Cassazione mediante
due motivi di ricorso; resisteva con controricorso l’Agenzia delle
entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 cod.
proc. civ., comma 1, n. 4, il contribuente ricorrente denuncia un vizio
di omessa pronuncia in relazione all’art. 112 cod. proc. civ., in
quanto, nel processo di primo grado, il ricorrente aveva eccepito
l’illegittimità del provvedimento amministrativo perché l’Erario,

definizione di ritardati od omessi pagamenti – ex art. 9 bis della legge

anziché limitarsi a negare il condono di cui all’art. 9 bis citato,
avrebbe dovuto attivare la procedura di riscossione prevista dall’art.
37, comma 44, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito in legge 24
agosto 2006, n. 248), procedendo all’iscrizione a ruolo dei tributi e
notificando la cartella di pagamento entro il 31 dicembre 2008,

dell’Agenzia dal potere impositivo.
Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ.,
comma 1, n. 3, il contribuente ricorrente deduce violazione dell’art.
28 del d.P.R. n. 602 del 1973, anche con riferimento agli artt. 1269 e
2697, comma 2, cod. civ.
Riferisce il contribuente che la sentenza di appello ha affermato
che non vi è prova aliunde che i pagamenti siano stati eseguiti, e che
pertanto il condono ex art. 9 bis della legge n. 289 del 2002 non si è
perfezionato. Afferma tuttavia il contribuente di avere effettuato il
pagamento a mezzo di delega accettata dalla banca e che la delega
bancaria costituisce una modalità di versamento dei tributi prevista
dall’art. 28 del d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto si inserisce
nell’ambito del rapporto di delegazione che obbliga il delegato-banca
ad eseguire il pagamento nei confronti del creditore-Erario ex art.
1269 cod. civ., con conseguente liberazione del delegantecontribuente.
L’Agenzia delle entrate si difende affermando, quanto al primo
motivo di ricorso, che nessuna violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato vi sarebbe stata in quanto la
lamentata non corrispondenza altro non sarebbe che un accertamento
giudiziale dei fatti diverso da quello ipotizzato dalla ricorrente, la
quale sostiene che l’Ufficio sia decaduto dalla potestà di imposizione,
mentre la sentenza di appello ha implicitamente rigettato tale tesi
ritenendo non perfezionatosi il condono. Peraltro l’art. 37, comma 44,
cit. sarebbe inconferente perché la notifica delle cartelle di

circostanza che invece non è avvenuta, con conseguente decadenza

pagamento era già avvenuta: successivamente le cartelle di
pagamento sono state sospese fino alla revoca di tale sospensione,
avvenuta per effetto del mancato perfezionamento del condono.
Quanto al secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate
osserva che il contribuente pretenderebbe un nuovo apprezzamento

inammissibile in sede di legittimità.
Il ricorso è infondato.
Relativamente al primo motivo di ricorso, effettivamente, come
lamentato dal ricorrente, il giudice di appello ha omesso di
pronunciarsi circa l’eccepita decadenza dell’Ufficio dalla potestà
impositiva, sulla quale pure si era pronunciato il giudice di primo
grado. Tuttavia, alla luce dei principi di economia processuale e di
ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art.
111, comma 2, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente
orientata dell’attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi,
una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la
Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza
impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di
diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la
statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della
sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa
in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede
ulteriori accertamenti di fatto (Cass. 28 giugno 2017, n. 16171).
Ora, conformemente a quanto sostenuto dall’Agenzia delle
entrate, l’art. 37, comma 44, del D.L. n. 223 del 2006 è inconferente
perché – come si evince dalla lettura dell’36, comma 2, lett. a) e b)
del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 (secondo cui «per le somme che
risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle
dichiarazioni, la cartella di pagamento è notificata, a pena di
decadenza, entro il 31 dicembre: a) del quarto anno successivo a

dei fatti e delle prove già avvenuto nei gradi precedenti,

quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle
dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003; b) del quinto anno
successivo a quello di presentazione della dichiarazione,
relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre
2001»), richiamato – a proposito del condono ex art. 9 bis I. 289 del

«entro il 31 dicembre 2008 è eseguita la notifica delle cartelle di
pagamento relativa alle dichiarazioni di cui all’articolo 36, comma 2,
lett. a) e b) del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, nei confronti dei
contribuenti che hanno presentato dichiarazioni o effettuato
versamenti ai sensi dell’articolo 9-bis della citata legge n. 289 del
2002»), è norma che si riferisce a somme dovute all’Erario relative a
cartelle di pagamento mai notificate («somme che risultano dovute a
seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni»), mentre nel
caso di specie la notifica delle cartelle di pagamento è già avvenuta
proprio al momento della notifica delle stesse cartelle di pagamento
che successivamente sono state oggetto del tentativo di condono, le
quali sono dunque rimaste soltanto sospese fino alla revoca di tale
sospensione, avvenuta per effetto del mancato perfezionamento del
condono. La conseguenza è che l’obbligazione originaria del
contribuente, appunto temporaneamente sospesa per effetto della
domanda di condono, dispiega nuovamente i suoi effetti con la
comunicazione del diniego del condono ed il contribuente è tenuto al
pagamento integrale di quanto in origine era dovuto, senza che
occorra una nuova notifica della cartella, se non altro perché
altrimenti, se così non fosse tale meccanismo sarebbe irragionevole e
dunque contrario all’art. 3 Cost., in quanto si incoraggerebbero
richieste di condono ab Mit-io maliziosamente soltanto dirette a
costringere l’Erario ad una nuova notifica, nella speranza di un errore
procedurale di quest’ultimo e comunque con un conseguente
appesantimento del procedimento impositivo, in contrasto con i

zAr

2002 – dall’art. 37, comma 44, citato dal ricorrente (secondo cui

principi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa di cui
all’art. 97 Cost.
Il secondo motivo di ricorso, che entra nel merito della vicenda, è
parimenti infondato, in quanto la sentenza di appello, pur nella sua
estrema sinteticità, rileva che non vi è prova aliunde che i pagamenti

n. 289 del 2002 non si è perfezionato. Il ricorrente, pur lamentando
una violazione di legge, in realtà si duole della circostanza che non è
stata svolta una sufficiente attività istruttoria nei giudizi di merito
volta a dimostrare che i suoi pagamenti sono stati realmente
effettuati, in quanto l’Agenzia delle entrate si sarebbe limitata ad un
controllo meramente formale circa le risultanze del pagamento: in
questo modo però, come sottolineato dall’Agenzia delle entrate, il
contribuente pretenderebbe un nuovo apprezzamento dei fatti e delle
prove già avvenuto nei gradi precedenti, inammissibile in sede di
legittimità. A tale proposito ha affermato la Cassazione, in tema di
accertamento dei fatti storici allegati dalle parti, che i vizi deducibili
con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 4 o 5
(e tanto meno attraverso denuncia del n. 3) cod. proc. civ., non
possono riguardare apprezzamenti di fatto difformi da quelli
propugnati da una delle parti, poiché, a norma dell’art. 116 cod. proc.
civ., rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del
giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento,
apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e
scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione. Tale operazione, che suppone un
accesso diretto agli atti e una loro delibazione, non è consentita
davanti alla Cassazione (Cass. 27 luglio 2017, n. 18665).
Ne consegue il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente,
soccombente, alle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, in
favore della controricorrente.

siano stati eseguiti, e che pertanto il condono ex art. 9 bis della legge

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alla refusione in favore dell’Agenzia delle
entrate delle spese processuali liquidate in complessivi euro 5.000,
oltre alle spese prenotate a debito.

2017.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 dicembre

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