Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11165 del 10/06/2020

Cassazione civile sez. I, 10/06/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 10/06/2020), n.11165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Angelo A. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 5587/2019 proposto da:

C.Y., rappresentato e difeso dall’Avv. Lucia Paolinelli, come

da procura speciale in calce al ricorso per cassazione, con la

stessa elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell’Avv.

Enrica Inghilleri;

– controricorrente –

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di ANCONA n. 1152/2018,

pubblicata in data 2 luglio 2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/02/2020 dal Consigliere CARADONNA Lunella.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. C.Y., nato in (OMISSIS), ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Ancona del 28 marzo 2017, che, al pari della Commissione territoriale competente, aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

2. Il richiedente ha dichiarato che dopo la morte dei suoi genitori, quando aveva sei anni, si era trasferito con lo zio ad A., nella regione (OMISSIS), e di avere frequentato la scuola di (OMISSIS), dove il leader religioso B.F. svolgeva il ruolo di insegnante e dove anche lui svolgeva il ruolo di insegnante; che il B., nel 2012, veniva arrestato, torturato e poi rilasciato e così altri docenti della scuola; che spaventato, il 12 agosto 2012 decideva di lasciare il Paese, prima in Senegal, poi in Mali, Burkina Faso, Niger Libisa e da lì in Italia.

3. La Corte di appello di Ancona ha ritenuto insussistenti i presupposti necessari per il riconoscimento di ciascuna delle forme di protezione invocate, sulla base delle dichiarazioni del richiedente giudicate non credibili, della mancanza di un effettivo rischio nell’ipotesi di rientro nel Paese d’origine alla luce della concreta situazione socio-politica del suo Paese di provenienza e dell’assenza di lesioni di diritti umani.

4. C.Y. ricorre in cassazione con due motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese e ha depositato atto di costituzione ai soli fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va rilevata la tardività della documentazione prodotta dalla parte ricorrente, atteso che nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di atti e documenti che non siano stati prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero concernano nullità inficianti direttamente la decisione impugnata, nel qual caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., rimanendo inammissibile la loro produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 c.p.c. (Cass., 12 novembre 2018, n. 28999).

2. Con il primo motivo C.Y. lamenta la violazione e falsa applicazione della legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4, 5 e art. 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 11; vizio/carenza di motivazione.

Ad avviso del ricorrente non si rinviene nello sviluppo argomentativo della decisione impugnata il corretto esame dei parametri normativi di credibilità del racconto del richiedente, che era stato ritenuto dalla Commissione sufficiente per la coerenza interna e dotato di un profilo di coerenza esterna, ritenendolo insufficiente solo con riguardo alle date precise di alcuni accadimenti e sulla mancata informazione del rientro dell’Imam in Gambia.

Inoltre, il ricorrente evidenzia che la sua storia si inseriva bene all’interno della nota situazione di violazione dei diritti umani in Gambia, come messo in luce nello studio di Amnesty International “Dangerous to dissent: Human rights under threat in Gambia”, di contro a quanto affermato dalla Corte distrettuale che aveva minimizzato la situazione interna del Gambia senza motivare perchè tale situazione escludeva l’applicabilità del danno grave, almeno nelle ipotesi di cui alle lett. a) e b) (ma non era da escludere la lett. c) e che non aveva acquisito attendibili informazioni sulla situazione del paese di provenienza del ricorrente, ovvero ne aveva travisato o distorto i contenuti.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte distrettuale ha ritenuto la versione dei fatti portata dal richiedente non attendibile e carente di riscontri in ordine alla veridicità del racconto, oltre che non circostanziata per una serie di ragioni specificamente enunciate:

– il richiedente si è limitato a riferire degli arresti dei docenti della scuola in termini generici e senza spiegare le ragioni concrete che lo portavano a temere per la sua vita;

tutte le vicende raccontate gli sono state riferite, non avendo una conoscenza diretta di alcuna vicenda;

ha confuso il nome delle moschee;

non ha prodotto alcun documento a conferma anche parziale di quanto riferito.

Tanto premesso, questa Corte, in materia di protezione internazionale, ha affermato che “D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, verifica sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21142).

2.2 Nel caso di specie la decisione censurata ha valutato le dichiarazioni rese dal ricorrente, rilevando le contraddizioni del racconto e giungendo ad una valutazione complessiva di non credibilità, fondata su un controllo di logicità del racconto del richiedente.

2.3 Peraltro la valutazione compiuta dal giudice del merito al riguardo non è sindacabile in sede di legittimità sul piano della violazione di legge, ma solo nei limiti del sindacato motivazionale consentito dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati.

Il motivo, sotto lo specifico profilo esaminato, è quindi infondato perchè la motivazione esiste ed è basata su risultanze di causa specificamente richiamate e valutate dal collegio giudicante e quindi sorretta da un contenuto non inferiore al “minimo costituzionale”, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte, così da sottrarsi al sindacato di legittimità della stessa e alla conseguente valutazione di “anomalia motivazionale” delineata, per quanto detto, come violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053).

2.4 Il ricorrente sostiene che neppure la Commissione aveva dubitato della credibilità, quanto meno sotto il profilo della coerenza esterna del racconto del richiedente.

La circostanza è irrilevante poichè il ricorrente deve confrontarsi con il contenuto del provvedimento giurisdizionale impugnato, reso nell’ambito di un giudizio di cognizione che ha per oggetto l’accertamento del diritto del richiedente alla protezione internazionale nelle sue varie forme.

Peraltro, è lo stesso ricorrente ad affermare che la Commissione aveva evidenziato l’insufficienza del suo racconto con specifico riferimento alle date di alcuni accadimenti e alla mancata informazione sul rientro dell’Imam in Gambia.

2.5 Per quel che concerne la protezione sussidiaria erra, poi, l’istante a dolersi della mancata spendita, da parte dei giudici del merito, dei doveri di cooperazione istruttoria contemplati in tema di protezione internazionale.

2.6 La Corte di appello ha, infatti, dato atto che, in base a quanto documentato dal report 2016/2017 di Amnesty International, in Gambia, pur essendo elevato il livello di allerta a causa della condizione di insicurezza nel Paese, da sempre caratterizzato da violazioni dei diritti umani, questa non era tale da far ritenere che si potesse parlare di un conflitto generalizzato, interno o internazionale e che la situazione del paese era avviata alla normalità, come evidenziato anche dal sito aggiornato della F..

Deve peraltro sottolinearsi che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui all’art. 14, lett. c) citato, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, sicchè non può essere rivalutato in questa sede, con l’impugnazione proposta, il giudizio espresso dalla Corte di appello sulla scorta delle informazioni da essa acquisite (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass. 21 novembre 2018, n. 30105).

Va inoltre ricordato, in proposito, che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente, che è prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27503).

Anche le domande aventi ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato politico e di protezione sussidiaria ex art. 14 cit., lett. a) e b), in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento, sono state dunque correttamente disattese.

3. Con il secondo motivo C.Y. lamenta la violazione e falsa applicazione della legge nazionale e sovranazionale inerente il permesso di soggiorno per motivi umanitari, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, commi 6 e 19, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32; dell’art. 3 CEDU e art. 10 Cost.; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Vizio di motivazione.

Ad avviso del ricorrente anche sotto il profilo della protezione umanitaria la Corte distrettuale doveva verificare la situazione di grave instabilità politica e sociale presente in Gambia e la conseguente necessità di applicare il principio di non refoulement stabilito anche dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.

3.1 Il motivo è inammissibile.

E’ utile, invero, premettere che, come ribadito anche di recente da questa Corte, la protezione umanitaria – secondo i parametri normativi stabiliti dall’art. 5, comma 6; 19, comma 2, T.U. n. 286 del 1998 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32 – è una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

A tal fine, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio e non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con specifico riferimento, poi, al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

3.2 Nel caso concreto, la Corte territoriale ha escluso l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, oltre che della protezione internazionale e sussidiaria, anche della invocata protezione umanitaria, considerando che il ricorrente non aveva indicato oggettive e gravi situazioni personali che non permettevano l’allontanamento dal territorio nazionale, evidenziato, sia pure in modo stringato, ma non apodittico (pag. 3), l’assenza di criticità nel Paese di provenienza del richiedente ed ha escluso sue situazioni di vulnerabilità soggettiva, correlate a difficoltà di natura economica e sociale, che il ricorrente richiama, occorrendo, invece, che la condizione di vulnerabilità sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita nel Paese di provenienza, in conformità del disposto degli artt. 2, 3 e 4 CEDU (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

3.3 E’ infondata anche la censura che richiama il principio di non refoulement previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.

Senza prescindere dalla genericità della deduzione che manca di ogni puntuale riferimento al caso in esame e di confronto con la decisione impugnata, va precisato che l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, in cui si declina il più generale principio di non refoulement, resta in ogni caso inserito nel diverso contesto dell’opposizione alla misura espulsiva, che impone al richiedente di prospettare il concreto pericolo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, mentre la disciplina della protezione internazionale introduce una misura umanitaria, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice (Cass., 8 aprile 2019, n. 9762; Cass., 17 febbraio 2011 n. 3898).

4. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, del 2002, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020

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