Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11161 del 28/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 28/04/2021, (ud. 13/01/2021, dep. 28/04/2021), n.11161

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2225/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– ricorrente –

contro

Edil Vami s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Emilia Romagna, n. 89/20/2011, depositata il 25 novembre 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 gennaio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna accoglieva l’appello proposto dalla società Edil Vami s.r.l. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bologna (n. 15/10/2009), che aveva rigettato il ricorso della contribuente contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, per Irpeg, Iva e Irpef, per l’anno 1999. Infatti, l’Agenzia delle entrate, su segnalazione dell’Inps, che aveva rinvenuto due muratori in loco, aveva contestato maggiori ricavi non contabilizzati per i compensi corrisposti (in nero) ai due dipendenti, oltre all’omesso versamento di ritenute. In particolare, il giudice di prime cure aveva ritenuto esistenti ii compensi per lavoro dipendente, mentre il giudice di appello ha affermato che l’esistenza dei compensi da lavoro dipendente era priva di riferimenti fattuali, essendo le somme determinate dall’Inps per il calcolo dei contributi meramente figurative. Per la Commissione regionale, trattandosi di azienda munita di un solo dipendente e che realizzava piccoli lavori, appariva legittimo considerare compenso di amministrazione la remunerazione del socio per l’attività di acquisizione clienti, gestione e controllo dell’attività svolta. Non risulta, invece, che i soci abbiano percepito altri compensi, diversi da quelli di amministratore, a titolo di lavoro dipendente.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resta intimata la contribuente.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di impugnazione (indicato alle pagine 6 e 7 del ricorso per cassazione), l’Agenzia delle entrate deduce la “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, numero 5”. In particolare, si deduce l’insufficiente motivazione “circa la compatibilità della posizione di lavoratore dipendente ed amministratore”. Per la ricorrente la sentenza di secondo grado è priva di qualsiasi motivazione in relazione alla questione della compatibilità in capo allo stesso soggetto della qualifica di amministratore con quella di lavoratore dipendente. In realtà, si è esclusa la compatibilità delle posizioni solo in caso di amministratore unico di una società di capitali o di presidente del consiglio di amministrazione, in quanto l’attività di amministratore unico assorbe qualsiasi altra attività, essendo incompatibile con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa società. E’ assente, in tal caso, l’effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, che è requisito tipico della subordinazione. Nella specie, Z.P. era titolare dei poteri di ordinaria amministrazione congiuntamente con l’altro socio D.R.G., sicchè non era nè presidente del consiglio di amministrazione, in quanto tale posizione era attribuita al D.R., nè amministratore unico.

1. Il motivo è fondato.

1.1. Invero, per questa Corte è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico o di socio “sovrano”.

Si è, dunque, affermato che la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio – dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci (Cass., sez. L, 21 maggio 2002, n. 7465; Cass., 21 gennaio 1993, n. 706; Cass., sez. L, 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 13 novembre 1989, n. 4781).

La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., sez.L, 26 ottobre 1996, n. 9368; Cass., 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 11 novembre 1993, n. 11119). Pertanto, potendo in astratto coesistere nella stessa persona la posizione di socio di una società e quella di lavoratore subordinato della medesima, pure un socio” componente del consiglio di amministrazione di una società, può essere legato a quest’ultima da un rapporto di lavoro subordinato, purchè appunto risulti in concreto assoggettato ad un potere disciplinare e di controllo esercitato dagli altri componenti dell’organo cui egli appartiene; mentre, in mancanza di siffatto assoggettamento, l’osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione non sono sufficienti da sole a far ritenere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (Cass., sez. L, 15 febbraio 1985, n. 1316).

Il rapporto organico che lega il socio o l’amministratore ad una società di capitali non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a contenuto dirigenziale tra il primo è la seconda (Cass., sez L., 3 dicembre 1998, n. 12283). Solo, quindi, nel caso di amministratore unico di società di capitali datrice di lavoro non è configurabile il vincolo di subordinazione perchè mancherebbe la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla (Cass., sez. L, 29 maggio 1998, n. 5352; Cass., sez. L, 5 aprile 1990, n. 2823).

1.2. Le medesime considerazioni valgono anche in caso di pagamento dei contributi previdenziali, in quanto si è affermato che, qualora il socio amministratore di una società a responsabilità limitata partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, ha l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, mentre, qualora si limiti ad esercitare l’attività di amministratore, deve essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti; ciò in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell’opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (Cass., sez. L, 2 maggio 2018, n. 10426; con richiamo a Cass., sez. un., n. 17076/2011; Cass., sez. 6-L, 3 aprile 2017, n. 8613; Cass., sez., L, 17 gennaio 2008, n. 854; Cass., sez. un., 12 febbraio 2010, n. 3240). Si è, infatti, osservato che occorre distinguere tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore, anche quando la prima attività si esplichi al livello più elevato dell’organizzazione e della direzione. Si tratta di due attività che rimangono su piani giuridici differenti, dal momento che l’attività di amministratore si basa su una relazione di immedesimazione organica o al limite di mandato ex art. 2260 c.c.; sicchè comporta, a seconda della concreta delega, la partecipazione ad un’attività di gestione, l’espletamento di un’attività di impulso e di rappresentanza che è rivolta ad eseguire il contratto di società assicurando il funzionamento dell’organismo sociale e, sotto certi aspetti, sua stessa esistenza. L’attività lavorativa, invece, è rivolta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, al suo raggiungimento operativo, attraverso il concorso dell’opera prestata a favore della società dai soci e dagli altri lavoratori subordinati o autonomi.

1.3. Si è, poi, ritenuto che, in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 62, il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali: la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione (Cass., sez. 5, 13 novembre 2006, n. 24188).

Si è anche chiarito che, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto fra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio; ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell’ambito della società, l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione (Cass., sez. L, 17 novembre 2004, n. 21759).

La qualità di socio, anche “maggioritario”, di una società di capitali, non è, allora, di per sè di ostacolo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra socio e società, allorchè possa in concreto ravvisarsi il vincolo di subordinazione, almeno potenziale, tra il socio medesimo e l’organo societario preposto all’amministrazione, vincolo che in generale è da escludere unicamente nelle ipotesi di socio “amministratore unico”, o di socio “unico azionista” o di “socio sovrano” (Cass., sez. L, 19 maggio 1987, n. 4586).

1.4. Nella specie, risulta che Z.P. era titolare, nelle 1999, di partecipazioni per il 50% delle quote della società, mentre l’altro socio, al 50% era D.R.G.. Quest’ultimo, inoltre, era rappresentante legale della società e presidente del consiglio di amministrazione, mentre Z.P. era soltanto consigliere.

La Commissione regionale non ha tenuto conto in alcun modo nè della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, in relazione alla compatibilità tra il ruolo di consigliere di amministrazione di società di capitali e lavoratore subordinato, nè degli elementi di fatto pacifici tra le parti, anch’essi suindicati. Il giudice di appello infatti si è limitato ad affermare che l’esistenza di compensi in nero era priva di riferimenti fattuali, “in quanto le somme determinate dall’Inps per il calcolo dei contributi dovuti sono meramente figurative e derivano dalla diversa qualificazione giuridica del rapporto fra il socio e la società (lavoro dipendente anzichè lavoro autonomo dell’amministratore)”. Il giudice di merito ha poi aggiunto che “trattandosi di azienda che ha un solo dipendente e realizza piccoli lavori (come risulta dal fatturato) appare legittimo considerare compenso di amministrazione la remunerazione del socio per l’attività di acquisizione clienti, gestione e controllo dell’attività svolta”.

Come si vede, la motivazione resa dal giudice di appello è del tutto insufficiente, proprio perchè non ha tenuto conto del ruolo svolto concretamente dal socio Z.P., che era consigliere di amministrazione e socio al 50% delle quote. Pertanto, non essendovi una incompatibilità assoluta tra il ruolo di componente del consiglio di amministrazione e la posizione di lavoratore subordinato (tranne che per le ipotesi di l’amministratore unico o socio unico azionista o quotista o per il socio “sovrano”) il giudice di merito avrebbe dovuto esaminare in concreto l’attività svolta dal socio Zagaria nell’ambito della società, valutando se sussistessero o meno i presupposti del rapporto di lavoro subordinato.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce (a pagina 9 del ricorso per cassazione) la “insufficiente e contraddittoria motivazione sul secondo lavoratore dipendente (signor Capoluongo)”, in quanto il giudice di secondo grado si è limitato ad affermare che l’azienda aveva un solo dipendente, quindi facendo riferimento proprio al signor C. che, negli anni precedenti, era stato iscritto nel libro paga e matricola, senza considerare che lo stesso era stato assunto e licenziato più volte e che, formalmente, nel 1999 (al momento del controllo del (OMISSIS), poi riportato nella redazione del verbale dell’Inps) non era dipendente presso la società, non era iscritto nel libro paga e matricola ed i compensi a lui corrisposti per l’attività prestata non erano stati assoggettati a ritenuta. Dalla segnalazione del IV Inps era emerso che la società aveva licenziato il C. in data (OMISSIS), mentre questi aveva continuato a prestare la propria attività a beneficio della Edil Vami s.r.l. fino al maggio dell’anno successivo, con conseguente omessa registrazione a libro paga e matricola per i periodi dal 1 luglio 1998 al 31 maggio 1999 e, quindi, per il 1999, vi era stato il rilievo avente ad oggetto l’omessa effettuazione di ritenute per i primi cinque mesi di tale anno, con riferimento ai compensi pagati in nero.

2.1. Tale motivo è fondato.

Invero, il giudice di appello, in relazione al dipendente della società, C.S., si è limitata ad asserire che l’azienda aveva “un solo dipendente”, senza menzionare in alcun modo l’attività lavorativa svolta dal C. nei primi cinque mesi del 1999.

La ricorrente, invece, ha dedotto che il C., pure essendo stato formalmente licenziato dalla società in data (OMISSIS), aveva però continuato a prestare la propria attività in favore della società stessa fino al (OMISSIS).

Tale circostanza di fatto è stata del tutto negletta dal giudice di merito.

2.2. Deve anche evidenziarsi che questa Corte, con riferimento agli anni 1997 e 1998, in un procedimento tra le stesse parti, ha accolto il ricorso della Agenzia delle entrate, cassando la sentenza di merito con rinvio (Cass., sez. 5, 24 luglio 2012, n. 13027).

3. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2021

 

 

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