Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11140 del 08/05/2017

Cassazione civile, sez. un., 08/05/2017, (ud. 11/04/2017, dep.08/05/2017),  n. 11140

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di Sezione –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20211/2016 proposto da:

L.C.A., rappresentato e difeso da sè medesimo unitamente

all’avvocato ANTONIO ANDO’ ed elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE REGINA MARGHERITA 93, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

PASSANITI;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MESSINA, PROCURATORE GENERALE

PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata in

data 25/07/2016;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’11/04/2017 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott.ssa ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto

del primo e terzo motivo, per l’inammissibilità o, in subordine,

per il rigetto del secondo motivo;

udito l’Avvocato Giuseppe Vaccaro, per delega dell’avvocato Antonio

Andò.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A seguito di esposto del 22/09/2003 della sua cliente C.C., l’avvocato L.C.A. fu, con delibera del 25/05/2005, sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina per violazione degli artt. (art. 5, commi 1, 6, 7 e 8, nonchè, infine) 38 e 41 del codice deontologico forense all’epoca vigente, per non avere gestito con puntualità e diligenza il denaro ricevuto dalla cliente, nè reso il conto della gestione; in particolare, gli si attribuì di essersi trattenuto, dal maggio 2002 al giugno 2003, somme versate anche a mezzo assegni dalla cliente e destinate ad essere versate, nell’interesse di lei, a suoi creditori, pure mediante girate a firme apocrife e versamenti sul conto dello studio, senza adeguate comunicazioni e senza rendiconto.

2. Per gli stessi fatti il L.C. fu sottoposto a procedimento penale, sicchè fu deliberata la sospensione di quello disciplinare dal giorno 11/10/2006: ma quest’ultimo, estinto per prescrizione il reato come da sentenza del tribunale di Messina divenuta irrevocabile il 24/06/2013, riprese infine il suo corso, fino ad essere definito dal COA con dichiarazione di responsabilità dell’incolpato, cui fu irrogata la sanzione di mesi tre di sospensione.

3. Il professionista chiese allora al Consiglio Nazionale Forense l’annullamento di tale provvedimento disciplinare, sulla base di tre motivi, che tuttavia il Consiglio Nazionale Forense disattese: per infondatezza dell’eccezione di prescrizione, ritenendone iniziato il decorso dal momento della definizione del procedimento penale e non applicabile la sopravvenuta riforma di cui alla legge professionale forense, nè in ordine all’entità complessiva del termine, nè in ordine alla disciplina della decorrenza o degli eventi interruttivi; per la correttezza delle valutazioni nel merito del materiale istruttorio acquisito, analiticamente riconsiderato ed una volta motivatamente attribuita rilevanza anche alle dichiarazioni dell’esponente; per l’adeguatezza della sanzione in concreto applicata, una volta riscontrata la corrispondenza delle violazioni a suo tempo contestate (artt. 38 e 41 del previgente codice deontologico) a quelle previste dagli artt. 26 e 30 del codice deontologico vigente.

4. Per la cassazione della relativa sentenza, resa col n. 214 il 25/07/2016 e notificata il 18/08/2016, ricorre il L.C., affidandosi a tre motivi ed invocando in via cautelare la sospensione dell’esecutività del provvedimento impugnato, mentre l’intimato COA non espleta attività difensiva in questa sede; e, disattesa l’istanza cautelare con ordinanza n. 21693 del 27.10.16 di questa Corte, il ricorrente deposita memoria ad illustrazione dei motivi di ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il L.C. si duole:

– col primo motivo, di travisamento delle sue doglianze, avendo egli invocato l’applicabilità alla fattispecie della L. n. 247 del 2012, al momento della pronunzia del provvedimento del COA, pure per l’evidente favore per l’incolpato desumibile dall’art. 65 della nuova legge e dovendosi escludere l’aggravamento della condizione dell’incolpato derivante dall’assimilazione degli effetti di una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato a quelli di un giudicato di condanna anche ai fini del decorso della prescrizione, tanto prima che dopo la riforma della legge professionale;

– col secondo motivo, di erroneità dell’apprezzamento dei motivi di ricorso per la presenza di plurimi profili di eccesso di potere per travisamento dei presupposti, per erroneità o per difetto di motivazione, contraddittorietà o carenza di istruttoria, in ordine alle numerose censure da lui svolte alla ricostruzione dei fatti operata dal COA ed al rifiuto del CNF di espletare ulteriore attività istruttoria o di riconsiderare od adeguatamente valutare elementi specificamente indicati;

– col terzo motivo, di violazione del principio di proporzionalità, la perplessità ed irragionevolezza della sentenza impugnata, che finisce con l’applicare la nuova normativa il nuovo codice deontologico in ordine alla sanzione in concreto irrogata, pur non potendo – a suo dire – in applicazione del precedente regime quest’ultima essere comminata e comunque essendo prevista dalle attuali disposizioni, la cui corrispondenza a quelle precedenti non è stata neppure argomentata, un minimo edittale di sei mesi per la sospensione, invece determinata in concreto in mesi tre.

2. Il primo motivo non può trovare accoglimento: il Consiglio Nazionale Forense si è conformato alla giurisprudenza di questa Corte regolatrice in ordine alla disciplina del termine di sospensione del procedimento disciplinare contro l’avvocato in pendenza di quello penale, come ribadita anche di recente (Cass. Sez. U. 31/05/2016, n. 11367): giurisprudenza che non ha mai fatto distinzione quanto alle formule terminative del procedimento penale (fin da Cass. Sez. U. 2762/93 e 9893/93) anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 97/01 (Cass. Sez. U. 15/07/2005, n. 14985) ed applicandole proprio pure al caso di definizione del procedimento penale per estinzione del reato (Cass. Sez. U. 20/09/2016, n. 18394); mentre la tesi della retroattività od immediata applicabilità, ai procedimenti disciplinari per fatti anteriori all’entrata in vigore della L. n. 247 del 2012, della disciplina in materia di prescrizione da questa dettata, invocata dal ricorrente, è contraria alla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (v., tra le altre, le sentenze: 16/07/2015, n. 14905; 16/11/2015, n. 23364; 06/05/2016, n. 9138; 20/09/2016, n. 18394).

3. Neppure il secondo motivo merita accoglimento: con esso il ricorrente prospetta, con ogni evidenza, una diversa valutazione del materiale istruttorio che invece il Consiglio Nazionale Forense, con motivazione immune da censure, ha ritenuto adeguatamente valutato dall’organo disciplinare di primo grado: tale diversa valutazione oltretutto risultando preclusa dai limiti del controllo consentito nella presente sede a queste Sezioni Unite (ribaditi anche di recente; per tutte, v. Cass., S.U., n. 14777 del 2015; Cass., S.U., n. 15203 del 2016), alle quali è dato esprimere solamente un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale.

4. Nè a diversa conclusione può giungersi per il terzo motivo:

– perchè nessuna contraddittorietà si ravvisa nella riserva dell’immediata applicazione della sola disciplina sanzionatrice più favorevole agli incolpati e non anche di quella processuale, a più riprese riconosciuta anche da questa Corte regolatrice;

– perchè coerente è l’individuazione della sanzione, applicata alla fattispecie, correttamente ricondotta entro la nuova previsione la condotta prima sussunta entro quella del previgente codice deontologico di immediata coincidenza testuale, la sanzione conclusiva – differente da quella cautelare o provvisoria disciplinata dal R.D.L. n. 1578 del 1933, artt. 40 e 43 – della sospensione dall’esercizio della professione;

– perchè, in forza della previgente disciplina e contrariamente a quanto argomentato dal ricorrente, la sospensione – ulteriore rispetto alla misura cautelare in pendenza di procedimento – era prevista come irrogabile per fatti per i quali erano previste sanzioni penali: cosa che, con tutta evidenza, ricorre nella fattispecie, per essere stato l’incolpato sottoposto appunto a procedimento penale, non conclusosi in senso a lui sfavorevole solo per l’intervenuta prescrizione del reato; e circostanza che rende irrilevante l’ulteriore indagine, sollecitata dal relativo profilo del motivo, sulla natura ed entità della sanzione irrogabile con la nuova disciplina, comunque di gravità almeno pari;

– perchè difetta ogni interesse a dolersi dell’irrogazione della sanzione per un periodo inferiore al minimo edittale: ben potendo estendersi pure alla materia disciplinare il principio penalistico dell’inammissibilità di una tale doglianza (desunto da Cass. pen., sent. 07/10 – 02/11/2009, n. 42052, imp. Di Bartolo) e comunque dovendo escludersi che un condannato possa invocare una pronuncia che comporti una condanna più severa, quand’anche per rispettare un minimo edittale, su tanto dovendo vigilare solo la pubblica autorità investita della potestà sanzionatoria e titolare dell’interesse pubblico al corretto esercizio di quest’ultima.

5. Il ricorso è pertanto infondato e va rigettato; ma, non avendo l’intimato Consiglio dell’Ordine svolto attività difensiva in questa sede non vi è luogo a provvedere sulle spese.

6. Peraltro, trova applicazione – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da essa proposta, a norma del detto art. 13, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2017

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