Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11126 del 10/06/2020

Cassazione civile sez. un., 10/06/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 10/06/2020), n.11126

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di sez. –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 30263-2018 proposto da:

A2A S.P.A., nella qualità di società incorporante di Edipower

s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E.Q. VISCONTI 99, presso lo

studio dell’avvocato ILARIA CONTE, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ERNESTO CONTE;

– ricorrente –

contro

REGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA, in persona del Presidente

della Regione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

COLONNA 355, presso l’Ufficio di rappresentanza della regione

stessa, rappresentata e difesa dall’avvocato MAURO COSSINA;

COMUNE DI FORNI DI SOTTO, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PORTA PINCIANA 6, presso

lo studio dell’avvocato GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LAURA D’ORLANDO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 55/2018 del TRIBUBALE SUPERIORE DELLE ACQUE

PUBBLICHE, depositata il 06/04/2018;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/01/2020 dal Consigliere MILENA FALASCHI;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati Ilaria Conte, Mauro Cossina e Giovanni Crisostomo

Sciacca.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

La EDIPOWER s.p.a evocava, dinanzi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, ai sensi del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 143, la Regione Friuli Venezia Giulia ed il Comune di Forni di Sotto per ottenere l’annullamento del provvedimento di cui alle note 7 marzo 2016 n. 6552 e n. 6558, con le quali la Regione Friuli Venezia Giulia aveva assentito al Comune di Forni di Sotto la concessione a derivare – dal (OMISSIS) – una parte della portata già concessa alla società ricorrente, senza la corresponsione di alcun indennizzo.

Aveva, inoltre, la medesima ricorrente, con motivi aggiunti, impugnato in via derivata, il decreto n. 1145/AMB del 17.05.2016, con il quale era stata rilasciata la concessione di derivazione in favore dello stesso Comune. Precisava al riguardo la ricorrente di essere titolare di concessione – per averla acquisita dalla Società Adriatica di Elettricità – di derivazione di acqua pubblica dal fiume (OMISSIS) e dagli affluenti (OMISSIS), siti nei Comuni di (OMISSIS), e di essere venuta a conoscenza dell’avvenuta presentazione da parte del Comune di Forni di Sotto di una domanda di concessione di acqua pubblica per uso potabile avente ad oggetto le portate captate dal (OMISSIS), per cui presentava opposizione alla domanda di concessione del predetto Comune, alla quale seguiva comunicazione della Regione che affermava essere superabile l’opposizione mediante l’inserimento nel decreto di concessione dell’impegno dell’Ente locale ad indennizzare la società ricorrente secondo modalità da concordare; aggiungeva che, diversamente da quanto comunicato dalla Regione, il Comune sosteneva la tesi secondo cui la EDIPOWER, ai sensi dell’art. 7, punto 5 del disciplinare regolante la concessione idroelettrica della società, era tenuta in ogni caso a garantire l’approvvigionamento dell’acquedotto comunale; inoltre, lo stesso Comune aveva invocato la L.R. n. 11 del 2015, art. 42 e art. 54 chiedendo la revisione, limitazione o revoca parziale della concessione di EDIPOWER senza alcun indennizzo; con i provvedimenti impugnati la Regione Friuli Venezia Giulia aveva fatto proprie le tesi del Comune, che venivano esposte negli atti difensivi dinanzi al TSAP.

Il Tribunale adito ha respinto il ricorso ritenendo l’interpretazione fornita dalla Regione con l’adozione dei provvedimenti de quibus conforme sia al contenuto del T.U. n. 1755 del 1933, art. 45 sia alla espressa previsione del disciplinare, da cui faceva discendere che la società ricorrente non poteva vantare alcun diritto all’intangibilità della portata concessa, che in ogni caso doveva essere compatibile con le prioritarie esigenze del consumo umano, spettante senza indennizzo; da ciò derivava, altresì, la infondatezza dei restanti motivi di doglianza.

La sentenza del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche è stata impugnata con ricorso proposto dalla A2A s.p.a., nella sua qualità di società incorporante la EDIPOWER s.p.a., articolato su cinque motivi. La Regione Friuli Venezia Giulia ed il Comune di Forni di Sotto Lombardia hanno resistito con separati controricorsi.

La ricorrente ed il Comune hanno anche depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va pregiudizialmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso dedotta dal Comune nel controricorso, e meglio precisata nella memoria illustrativa, con la quale si assume che, ai sensi del combinato disposto del R.D. n. 1775 del 1933, artt. 143 e 201 le sentenze del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche pronunciate in unico grado quale giudice della legittimità amministrativa sono ricorribili alle Sezioni Unite della Corte di cassazione solo per difetto di giurisdizione.

L’art. 200 T.U. sulle acque pubbliche dispone al comma 1 che “Contro le decisioni pronunciate in grado di appello dal Tribunale superiore delle acque pubbliche è ammesso il ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione: a) per incompetenza o eccesso di potere ai termini della L. 31 marzo 1877, n. 3761, art. 3; b) per violazione o falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 517 c.p.c., n. 3, o se si verifichi la contraddittorietà prevista nell’art. 517 medesimo, n. 8”. Tale disposizione si ritiene unanimemente applicabile non solo contro le sentenze rese nei giudizi su diritti soggettivi, ma anche contro quelle emesse nelle materie contemplate nell’art. 143 T.U. cit., che l’art. 201 riteneva impugnabili solo per motivi attinenti alla giurisdizione. Quest’ultima norma, infatti, deve essere letta alla luce dell’art. 111 Cost., il quale limita il ricorso per cassazione ai soli motivi inerenti alla giurisdizione soltanto con riferimento alle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

In tal senso è la costante giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. Un. 21 novembre 1986 n. 6839; v. pure Cass., Sez. Un., 6 maggio 1995 n. 4987; Cass., Sez. Un., 23 aprile 2001 n. 170; Cass., Sez. Un. 29 ottobre 2002 n. 15251; Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2003 n. 14624; Cass., Sez. Un. 22 agosto 2007 n. 17822; più di recente v., Cass., Sez. Un., 6 novembre 2018 n. 28220).

Deve, altresì, aggiungersi che con riguardo alla violazione di legge deducibile, in base all’art. 111 Cost., come motivo di ricorso per cassazione contro le decisioni in unico grado o in grado d’appello del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, può ricomprendersi il solo vizio di motivazione (sotto i profili dell’inesistenza, della contraddittorietà o della mera apparenza) risultante dal testo dei provvedimenti impugnati, mentre non rientra nei compiti della Corte di cassazione la verifica della sufficienza o della razionalità della motivazione in ordine alle quaestiones facti, la quale comporta un raffronto tra le ragioni del decidere espresse nella sentenza impugnata e le risultanze istruttorie sottoposte al vaglio del giudice del merito (Cass. 2 agosto 2007 n. 17822; Cass. 5 aprile 2007 n. 8520).

Deve quindi concludersi che il ricorso, nella parte in cui denuncia violazioni di legge, nei sensi su precisati, è senz’altro ammissibile con conseguente infondatezza della relativa eccezione del controricorrente Comune – salvo quanto si dirà in seguito, nella disamina dei singoli motivi.

Passando al merito del ricorso, con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c. e del R.D. n. 1775 del 1933, artt. 1 e 2 quanto alla interpretazione dell’art. 7, punto 5, del disciplinare 26 aprile 1948 n. 4246 laddove era strato imposto alla società Adriatica di Elettricità “di assicurare ai Comuni di (OMISSIS), in dipendenza della concessa derivazione, la quantità d’acqua necessaria per gli acquedotti, ivi compreso il servizio incendi, per i lavatoi pubblici e per tutti quegli usi coperti da regolare concessione qualora per questi ultimi non si sia provveduto da parte della Società in base al T.U. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 45”. Ad avviso della ricorrente la disposizione in argomento avrebbe imposto alla concessionaria di assicurare ai detti Comuni la quantità d’acqua necessaria per tutti gli usi ivi indicati, i quali però dovevano risultare coperti da regolare concessione. Nella specie, di converso, i due Comuni erano del tutto sprovvisti di una qualsiasi concessione, per cui non potevano vantare alcun diritto nei confronti della prima concessionaria e quindi della EDIPOWER.

Nè poteva ritenersi conforme alla interpretazione letterale della clausola in questione l’assunto del TSAP secondo cui la struttura complessiva del periodo comportava una distinzione tra un primo gruppo di utilità, che ricomprendeva gli acquedotti, i servizi incendi ed i lavatoi pubblici, per i quali non era necessaria concessione, ed un secondo gruppo, costituito da tutti quegli altri usi coperti da regolare concessione, per i quali era, invece, applicabile il T.U. n. 1775 del 1933, art. 45 trattandosi di affermazione viziata sotto diversi aspetti. In primo luogo, per violazione dell’art. 115 c.p.c. allorquando viene affermato che “l’acquedotto del Comune di Forni di Sotto veniva esercitato tramite una sorgente non iscritta nell’elenco delle acque pubbliche”, in quanto circostanza mai dichiarata nè dalla Regione nè dal Comune. In secondo luogo, ad avviso della ricorrente, affermando il TSAP che la qualificazione della pubblicità delle acque sarebbe stata introdotta dalla L. n. 36 del 1994, con detta statuizione sarebbe stato violato il T.U. n. 1775 del 1933, art. 1 il quale stabilisce che “sono pubbliche tutte le acque…le quali…abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse”; con la conseguenza che risulterebbe violato anche l’art. 2 menzionato T.U., il quale afferma la necessità della concessione per poter derivare acque pubbliche.

La censura è mal posta, perchè fa riferimento a parametri di tutela della concessione in termini privatistici, mentre nella specie trattasi del regime giuridico delle acque pubbliche che hanno un loro particolare status (v. art. 1 T.U. sulle acque, vigente ratione temporis e D.P.R. n. 238 del 1999, art. 1). In relazione a tale status, gli eventuali diritti dei privati (che non possono mai essere diritti assoluti) sono acquisiti con la condizione implicita che siano fatte salve le esigenze, anche straordinarie, della collettività, il cui diritto all’uso delle acque pubbliche, sempre latente, può riespandersi in ogni momento, senza che nulla possa pretendere il concessionario, consapevole di tale limite, al quale compete soltanto un riallineamento del canone con l’effettivo utilizzo (rapportato alle riduzioni temporali e quantitative) dell’acqua. La tesi giuridica prospettata dalla società ricorrente non tiene conto del presupposto che caratterizza la fattispecie in esame, costituito dal fatto che la Edipower non è proprietaria delle acque e quindi non subisce la compressione di un diritto di proprietà che non ha. La concessionaria doveva rilasciare l’acqua richiesta in forza di un obbligo assunto con la sottoscrizione dell’atto di concessione, a causa del verificarsi di una condizione, legittima ed accettata, che comportava la riespansione del primato della destinazione pubblica dell’acqua. Trattandosi dell’adempimento di un obbligo, non si pone un problema di indennizzo o risarcimento, ma al più di adeguamento del canone, ove ne ricorrano i presupposti.

Il motivo va, dunque, rigettato.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1346 e 1362 c.c., per avere il TSAP ritenuto infondata la doglianza di “genericità della quantità di riserva d’acqua da riservare ai comuni”, non precisandosi nel disciplinare siffatta quantità, prescrivendo la norma invocata di indagare, in sede interpretativa, “quale sia stata la comune intenzione delle parti” e con ciò si riferirebbe alla situazione di fatto e di diritto vigente al momento della redazione dell’atto da interpretare. Il TSAP, nella sostanza, nella sentenza impugnata erroneamente ha fatto riferimento alla situazione attuale e non già al tempo di sottoscrizione dell’atto, anno 1948.

Anche la seconda censura è priva di pregio.

Questa Corte ha da sempre segnalato l’esigenza che i provvedimenti amministrativi siano interpretati in senso il più possibile conforme alla normativa di cui costituiscono applicazione (v., fra molte, Cass., Sez. Un., 18 aprile 1991 n. 13750). E’ palese che il criterio vale con maggiore pertinenza rispetto ai riferimenti normativi contenuti espressamente nei provvedimenti stessi, in quanto essi disegnano, ad un tempo, l’economia e la finalità dell’azione amministrativa nel caso specifico. Ora, costituisce prerogativa del giudice del merito il richiamo del citato art. 7, punto 5, del disciplinare n. 4246 del 1948 ed ha attribuito alla previsione attitudine decisiva nel circoscrivere l’oggetto della concessione, dimostrando di concedere rilevanza ermeneutica alla norma. Inoltre nei riportati passi della motivazione censurata la tematica viene saggiata non solo con attenzione agli aspetti letterali, ma anche evitando di isolare la previsione del disciplinare dal contesto normativo in esso richiamato.

Va, altresì, rimarcata l’esistenza di un limite oggettivo categorico che concerne la ratio medesima del “diritto” alla concessione: la pubblicità degli interessi presidiati mediante la cennata delimitazione – che inerisce al regime delle acque pubbliche – comporta che essa, quale normazione primaria, in primo luogo conformi la concessione e, ove ciò non sia in fatto avvenuto, prevalga sulle difformi clausole di quella.

Nel caso concreto, dunque, lungi dall’affidamento esclusivo al significato astratto delle parole adoperate nel disciplinare, il contenuto da riferire in concessione alle sorgenti deve assumere concretezza, per quanto possibile, in via interpretativa del provvedimento medesimo, al lume dell’ordito normativo che si è appena messo in risalto e che contempera l’immediata protezione degli interessi privati con la natura pubblica delle acque e col governo delle stesse da parte della Pubblica Amministrazione. Solo in quest’ottica possono assumere esatto rilievo le determinazioni complessive contenute nel disciplinare, come chiaramente posto in luce dal TSAP nella decisione impugnata.

Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. laddove il TSAP nel confermare il provvedimento regionale impugnato ha statuito che nell’ambito della normativa di settore volta alla pianificazione del bilancio idrico non appare contraddittorio che eventuali diminuzioni possano essere limitate alle aree dove si verificano specifici squilibri, in relazione alle caratteristiche del territorio, con motivazione del tutto avulsa dal motivo di censura. In altri termini, la questione che la ricorrente assume avere sottoposto all’esame del giudice delle acque riguardava l’esigenza di stabilire se le disposizioni legislative concernenti la pianificazione del bilancio idrico potessero essere invocate dalla Regione per giustificare la sottensione di una utenza di acqua pubblica senza indennizzo.

Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. sotto altro aspetto: per avere il TSAP eluso anche la critica all’affermazione della Regione secondo cui l’impoverimento delle sorgenti acquedottistiche dipenderebbe dall’esercizio della derivazione idroelettrica che capterebbe le acque a monte della zona in cui si realizza una elevata capacità di infiltrazione delle acque che alimentano il sistema delle sorgenti dell’acquedotto, con conseguente loro impoverimento. Infatti, quand’anche il fatto fosse vero, la ricorrente aveva esercitato il proprio diritto di utenza di acqua pubblica tenendo un comportamento giuridicamente corretto.

Le due censure – che per la evidente connessione argomentativa che le avvince vanno trattate unitariamente – sono prive di pregio.

Occorre premettere che nella più recente giurisprudenza di questa Corte prevale l’affermazione per cui la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (così, Cass. n. 28663 del 2013). Di qui la possibilità di eventualmente integrare la motivazione della sentenza impugnata, ove ritenuta lacunosa.

Ciò precisato, gli atti qui impugnati non si pongono in contrasto con le norme invocate, ma anzi subordinano l’utilizzazione della concessione idroelettrica all’uso sostenibile del territorio, proprio dando prevalenza agli interessi pubblici. Del resto se vi fossero tratti di corso d’acqua classificati a rischio, per non compromettere il raggiungimento o il mantenimento degli obiettivi di qualità stabiliti nel Piano Regionale di Tutela ed Uso delle Acque, l’Amministrazione ove sussistessero esigenze di approvvigionamento non altrimenti soddisfacibili, ne potrebbe disporre l’utilizzazione anche in deroga al disciplinare. E ciò dimostra l’esatto contrario di quanto vorrebbe sostenere parte ricorrente.

A parte, poi, il rilevare che per come articolato l’ordito motivazionale le argomentazioni esposte con le censure in esame risultano del tutto ininfluenti proprio per la prevalente ragione addotta dal TSAP della superiore tutela degli interessi pubblici sottesi alla concessione ed al disciplinare che ne regola l’utilizzazione. Il TSAP, infatti, ha affrontato la questione del riconoscimento di un indennizzo a favore della ricorrente ai sensi del R.D. n. 1775 del 1933, art. 45 giungendo tuttavia ad escluderlo anche in forza delle norme sulla pianificazione idrica di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006 e alla L.R. Friuli Venezia Giulia n. 11 del 2015.

Il fatto che la normativa comunitaria stabilisca, altresì, delle soglie minime di produzione e i relativi criteri di calcolo, comporta non già che la produzione di energia da fonti rinnovabili non possa incontrare limiti di sorta, neppure su base provinciale, ma solo che gli Stati membri devono adoperarsi per conseguire tali soglie minime (in tal senso è stata anche l’interpretazione della Corte costituzionale nella sentenza n. 124 del 2010 che ha dichiarato illegittimo la L.R. Calabria n. 42 del 2008, art. 2 in quanto detta norma prevedeva, nelle more dell’aggiornamento del Piano energetico ambientale regionale e della ripartizione nazionale tra le regioni delle produzioni di energia da fonti non rinnovabili, dei limiti di potenza autorizzabile sul territorio regionale. Ciò in contrasto con la L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 167, che in ottemperanza agli indirizzi internazionali Protocollo di Kyoto – e comunitari – art. 3 Dir. 2001/77/CE – prevede che la quota minima d’incremento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili sia ripartita tra le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nell’ambito della Conferenza permanente tra Stato, regioni e le predette province autonome). E la circostanza secondo cui il TSAP avrebbe statuito che l’impoverimento delle sorgenti acquedottistiche dipenderebbe dall’esercizio della derivazione idroelettrica che capterebbe le acque a monte della zona in cui si realizza una elevata capacità di infiltrazione delle acque che alimentano il sistema delle sorgenti di acquedotto, costituisce apprezzamento delle risultanze probatorie, in particolare di quelle di natura prettamente tecnica, come tali non censurabili in questa sede ove supportate – come nella specie – da adeguava valutazione.

Con il quinto ed ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione del R.D. n. 1775 del 1933, art. 143 l’eccesso di potere giurisdizionale, la violazione dell’art. 115 c.p.c., la violazione del D.P.R. 15 febbraio 2006, n. 22335, art. 7, comma 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 6 e dell’art. 112 c.p.c. per avere il TSAP disatteso il quarto motivo relativo alle determinazioni sull’attuale fabbisogno idropotabile del Comune di Forni di Sotto, ben al di sotto di quello necessario negli anni precedenti, con motivazione da cui emerge la scelta di sostituirsi alla Regione nelle valutazioni di merito, del tutto carenti nell’atto amministrativo impugnato. In siffatto ragionamento viene a concretarsi un eccesso di potere giurisdizionale, in violazione dell’art. 143 cit., il quale attribuisce al TSAP la giurisdizione di merito soltanto in alcune controversie, esulanti dalla vicenda de qua.

Non può trovare ingresso neanche l’ultima doglianza.

Occorre premettere che in base al principio desumibile dal R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 143, comma 1, lett. a), – che attribuisce alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione “in materia di acque pubbliche” – devono ritenersi devoluti alla cognizione di tale Tribunale tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, concorrono, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di quell’acqua, onde in tale ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo a interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l’utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque; per converso, sono escluse dalla giurisdizione di detto Tribunale le controversie aventi ad oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque, le quali non richiedono le competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore necessarie – attraverso la configurazione di uno speciale organo giurisdizionale, nella particolare composizione richiesta – per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche.

Sulla base di tale discrimine, correttamente il provvedimento in discorso, avendo riguardo alla natura dell’interesse tutelato a livello territoriale, ha effettuato una valutazione tecnica strumentale rispetto all’attuazione di siffatta posizione pubblica, accertamento che involge un sindacato diretto sulla entità e sulle caratteristiche dell’utilizzazione delle sorgenti, condizionandone le modalità di gestione, con ciò condividendo le argomentazioni esposte dalla Regione negli atti impugnati.

Appaiono peraltro inammissibili le censure rivolte alla sentenza impugnata per aver attribuito rilevanza alle ragioni illustrate negli atti di natura amministrativa, effettuate sulla base della documentazione acquisita.

In conclusione, il ricorso va rigettato, con ogni conseguenza in ordine alle spese, poste a carico della parte ricorrente, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore delle parti resistenti.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, per ciascuno dei controricorrenti, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020

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