Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11120 del 27/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 27/04/2021), n.11120

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15717/2019 proposto da:

S.P., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato PIERPAOLO SAFRET;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE

DELLO STATO presso cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 216/2018 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 09/11/2018 R.G.N. 85/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2021 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Trieste, con la sentenza n. 216 del 2018, pronunciando sull’appello proposta da S.P., nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Trieste, ha rigettato impugnazione.

Il S. era stato sottoposto a procedimento penale per il delitto di turbata libertà degli incanti per fatti commessi in servizio, ed era stato sottoposto a procedimento disciplinare per tali fatti.

Il procedimento disciplinare era stato poi sospeso. Dopo che il procedimento penale era stato definito con sentenza irrevocabile di condanna, era stato riattivato il procedimento disciplinare, all’esito del quale il S. era stato licenziato per giusta causa.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento dinanzi al Tribunale di Trieste, che rigettava la domanda.

2. La Corte d’Appello nel rigettare l’impugnazione ha affermato, in particolare, quanto segue.

2.1. Poichè nella specie il contegno sanzionato era da subito percepibile come contrario al cd. minimo etico ed al codice penale, non assumeva rilievo la pubblicità del codice disciplinare.

Peraltro, il S. aveva ammesso di essere a conoscenza che il comportamento tenuto era pressochè ingiustificabile, rendendo palese la consapevolezza della gravità dei fatti ascrittigli.

2.2. L’atto di licenziamento non difettava della forma scritta poichè lo stesso era stato emesso come atto informatico firmato digitalmente.

Dunque, vi era un atto scritto di licenziamento, anche a prescindere dal ricorso ai soli fini di comunicazione e conoscenza ad una sua copia analogica.

2.3. Poichè il lavoratore era stato condannato con sentenza penale irrevocabile per un delitto commesso in servizio, considerato l’art. 653 c.p.p., in tema di giudicato penale nel giudizio disciplinare, non era fondata la censura con cui si richiamavano alcune ipotesi di cui all’art. 13 del CCNL, codice disciplinare, sanzionate in modo meno grave.

2.4. Non sussisteva infine demansionamento e conseguente diritto al risarcimento del danno, poichè l’iniziativa datoriale era pienamente legittima.

3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando quattro motivi di ricorso, assistiti da memoria.

4. Resiste con controricorso il Ministero.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, art. 13, comma 8, del CCNL 2002/2005, e dell’art. 1352 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Ricorda il lavoratore che la suddetta norma contrattuale stabilisce “Al codice disciplinare di cui al presente articolo deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in posto di lavoro in luogo accessibile a tutti i dipendenti. Tale forma di pubblicità è tassativa e non può essere sostituita con altre”.

Dunque, il CCNL impone l’affissione del codice disciplinare come forma ad substantiam, con la conseguenza che la violazione di tale previsione è causa di nullità della sanzione disciplinare, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2730 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

E’ censurata la statuizione con cui la Corte d’Appello ha affermato che il S. era perfettamente consapevole che il comportamento tenuto era pressochè ingiustificabile. Una simile dichiarazione non poteva assurgere a prova, in quanto rappresentava una mera valutazione del comportamento e non già un fatto. Ciò anche considerando che la confessione deve avere ad oggetto fatti obiettivi e non opinioni.

La dichiarazione del S. era stata resa l’11 ottobre 2016 in sede di audizione davanti all’U.P.D., per giustificarsi al fine di scongiurare il licenziamento, nell’ambito del procedimento disciplinare riattivato con nota del 20 settembre 2016, a seguito della sentenza penale definitiva della Corte di cassazione, n. 34878 del 2016.

Dunque, il dato temporale escludeva che tale consapevolezza potesse sussistere al momento della commissione dei fatti.

Sussisteva, pertanto, l’errore di percezione caduto sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, che aveva investito una circostanza che aveva formato oggetto di discussione tra le parti.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la falsa applicazione dell’art. 653 c.p.p., comma 1-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente assume l’erroneità della sentenza, laddove la stessa ha ritenuto che il comportamento sanzionato fosse da subito percepibille come contrario al minimo etico e al codice penale, con la conseguenza che non era necessaria l’affissione del codice disciplinare.

Ed infatti, il giudicato penale opera in relazione ai fatti, ma la valutazione effettuata dalla Corte di appello risulta svolta ex post rispetto ai fatti.

Inoltre, i fatti riguardavano lavori di importo inferiore a 40.000 Euro, per i quali è consentito l’affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento.

Pertanto, era necessaria l’affissione del codice disciplinare, poichè non si verteva in una ipotesi in cui il comportamento posto in essere poteva essere immediatamente percepibile come illecito in quanto contrario ai doveri fondamentali del lavoratore, rientranti nel cd. minimo etico o di rilevanza penale. La Corte d’Appello aveva erroneamente applicato l’art. 653, c.p.p..

Il ricorrente, inoltre, si duole di quello che definisce assorbimento improprio del secondo e del terzo motivo di appello, che vertevano sulle circostanze delle modalità di pubblicazione del codice disciplinare, cui la Corte d’Appello era pervenuta in ragione dell’affermazione che non sussisteva la necessità della pubblicazione del codice disciplinare.

4. I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono in parte inammissibili e in parte non fondati.

La Corte d’Appello ha ricordato che il fatto commesso dal ricorrente e poi contestatogli in sede disciplinare costituisce e costituiva reato ed è stato sanzionato in sede penale con sentenza irrevocabile. Il lavoratore, in ragione di sentenza penale passata in giudicato, era colpevole a tutti gli effetti del delitto di cui agli artt. 81,110 e 353 c.p., per avere in modo reiterato ed in concorso con gli altri turbato la regolarità di informali gare volte alla fornitura dell’Ufficio del Ministero di sua appartenenza.

Il contegno sanzionato era da subito percepibile come illecito in quanto contrario al minimo etico e al codice penale, con la conseguenza che non era necessaria la pubblicità del codice disciplinare.

Tale statuizione è corretta alla luce dei principi già enunciati da questa Corte in materia.

La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare che in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito. perchè contrario ai cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 55, in quanto il dipendente pubblico, come quello del settore privato, ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (Cass., n. 28741 del 2019, n. 25977 del 2017; n. 21032 del 2016).

Deve in proposito richiamarsi la ormai lontana origine del principio, nato in ambito di rapporti di lavoro con datori di lavoro privati, per cui la necessaria previsione delle violazioni all’interno di Codice disciplinare pubblicizzato mediante affissione non è condizione indefettibile dell’azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico.

Ciò in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato nelle forme del caso non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare, in sè basato sul disposto dell’art. 2106 c.c. e sul richiamo di esso alle norme, di formulazione ampia e generale, di cui agli artt. 2104 e 2105, c.c., ma è invece quella di predispone e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore. Esigenza che non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto “minimo etico”, proprio perchè il lavoratore, come reiteratamente affermato da tale giurisprudenza sul lavoro privato, in tali evenienze, non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere.

In tal senso, pertanto, come affermato dalla giurisprudenza richiamata, è da intendere ora anche la previsione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 2.

E’ vero che tale norma rimette alla contrattazione collettiva la determinazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, ma al contempo essa richiama l’art. 2106 c.c. e, di conseguenza, anche le norme generali (artt. 2104 e 2105 c.c.), cui la medesima disposizione rinvia.

Ciò permette di radicare l’illecito disciplinare nella violazione dei generalissimi obblighi di diligenza e fedeltà e dunque consente in ogni caso la persecuzione disciplinare dei fatti che, esorbitando dal menzionato “minimo etico”, si pongano al contempo in contrasto con quegli obblighi e risultino in lineare correlazione rispetto al mantenimento o meno del rapporto fiduciario.

Pertanto, non sono fondate le censure volte a sostenere la necessità della pubblicità del codice disciplinare.

A ciò consegue che sono inammissibili, per difetto di rilevanza le doglianze relative alla statuizione di non fondatezza del secondo e terzo motivi di appello, riferiti anch’essi alla pubblicazione del codice disciplinare.

Inoltre, atteso che il S. non contesta l’accertamento del giudice di appello sul fatto che la condotta oggetto della contestazione disciplinare, che peraltro non è riprodotta nel ricorso, riguardava i fatti per cui era intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, la censura relativa al carattere non probatorio della propria affermazione sulla non giustificabilità della condotta risulta priva di rilevanza e dunque inammissibile.

5. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata la violazione della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, art. 13, comma 8, del CCNL 2002-2005, modificato dall’art. 27, commi 1 e 2 del CCNL 2006-2009, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, degli artt. 2106,1362,1363 e 1366 c.c. e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che, benchè appaia innegabile il portato del giudicato penale, tuttavia andava considerata la disciplina in materia di appalti, che consentiva per il valore delle procedure in questione l’affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento, per cui esso ricorrente non aveva violato il principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost..

Nè il codice disciplinare prevedeva alcuna specifica sanzione per il reato di cui all’art. 353 c.p., per cui doveva trovare applicazione dell’art. 13, comma 7 del CCNL secondo cui “Le mancanze non espressamente previste nei commi da 2 a 6, sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all’individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 23 del CCNL del 16 maggio 1995, come modificato dal presente CCNL, quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti”.

La sanzione espulsiva non rispettava i criteri della contrattazione collettiva, che prevedeva sanzioni meno gravi per condotte più gravi di quelle di cui all’art. 353 c.p., come stabilito del citato art. 13, commi 3 e 4.

La Corte d’Appello aveva, altresì, violato del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, che prevede che le sanzioni disciplinari vanno applicate in ragione della gravità delle infrazioni, nonchè la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, secondo la quale nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice deve tener conto delle tipizzazioni di giusta causa presenti nei contratti collettivi. Richiama infine la disciplina sugli appalti.

6. Il motivo non è fondato.

In tema di licenziamento disciplinare, la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso, in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo, ovvero ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne sono alcune non rispondenti al modello legale e, dunque, nulle per violazione di norma imperativa; ne consegue che il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione (Cass., n. 3283 del 2020).

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di tale principio in quanto nel vagliare il codice disciplinare, art. 13, ha affermato che il lavoratore era stato condannato per un delitto commesso in servizio e che trovava applicazione l’art. 653 c.p.p., in tema di efficacia del giudicato penale nel giudizio disciplinare in merito all’esistenza del fatto, alla sua illiceità e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Il giudice di secondo grado ha rilevato, quindi, nel valutare tali fatti ai fini disciplinari, che si era trattata di una violazione commessa per ragioni di servizio e in veste di dipendente pubblico con violazione assai grave del vincolo fiduciario, e che dunque erano inconferenti i richiami ad altre condotte come la falsa testimonianza, le minacce ed ingiurie, proposte come termini di paragone per la minore sanzione contrattualmente prevista.

Il giudice di appello ha quindi effettuato il giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva irrogata al lavoratore con riguardo alla suddetta condotta, così facendo corretta applicazione del principio secondo cui è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo

per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflittala (Cass., n. 18858 del 2016), e ha affermato, con statuizione che dunque si sottrae, a censura che il S. ebbe a violare con il suo comportamento uno degli aspetti più importanti e delicati del suo essere dipendente dello Stato quale, esemplificativamente, il canone di rango costituzionale di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost..

7. Il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002. art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2021

 

 

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