Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11110 del 27/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2021, (ud. 21/10/2020, dep. 27/04/2021), n.11110

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20862/2017 proposto da:

RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO

LEOPOLDO FREGOLI 8, presso lo studio dell’avvocato ROSARIO SALONIA,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.M.A.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ANGELICO 35, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI NICOLA D’AMATI,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIA

COSTANTINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1240/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/03/2017 R.G.N. 1056/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/10/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1240/2017, confermava la pronuncia di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda proposta da D.M.A.R., aveva dichiarato che dall’8 ottobre 2014 era in atto un rapporto di lavoro subordinato tra la stessa ricorrente e la RAI s.p.a., con diritto della D. all’inquadramento nel 4 livello e con diritto a riprendere il posto precedentemente occupato, oltre al risarcimento dei danni in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della notifica del ricorso alla sentenza e al risarcimento del danno da omissione contributiva, da liquidarsi in separata sede.

2. Il Tribunale aveva affermato che i contratti di lavoro stipulati tra le parti da ottobre 2004 a marzo 2011, aventi ad oggetto fino al 2009 lo svolgimento di attività di regista per predeterminate unità di spettacolo/puntate in relazione a specifiche produzioni e specifici archi temporali – c.d. promo – e l’ultimo attività di consulenza, stipulati come contratti di lavoro autonomo, erano da qualificarsi come collaborazioni coordinate e continuative e ricadevano nella normativa del lavoro a progetto di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, ed in particolare nel divieto di stipulare contratti co.co.co; che i contratti erano privi dell’indicazione del progetto, con la conseguenza che il rapporto di lavoro doveva considerarsi di natura dipendente con presunzione assoluta e senza possibilità del datore di lavoro di offrire la prova contraria della natura autonoma del rapporto; che per il principio della nullità derivata i successivi contratti stipulati erano illegittimi, anche se in ogni caso essi presentavano gli stessi vizi del primo contratto; che dalla nullità derivava il diritto alla riattivazione del rapporto di lavoro e la tutela risarcitoria dalla data della messa in mora avvenuta con la notifica del ricorso fino alla sentenza di condanna; che la ricorrente non aveva provato lo svolgimento dei mansioni sussumibili nel livello A “programmista regista” e dall’istruttoria era emerso che ella aveva prestato mansioni sussumibili nell’inferiore livello 4 CCNL; che doveva essere accolta la domanda risarcitoria per omissione contributiva.

3. Tanto premesso, la sentenza di appello esponeva che il ricorso principale della RAI era articolato in tre motivi per dedurre: con il primo, l’autonomia del rapporto di lavoro e l’assenza di motivazione circa la riconducibilità della prestazione ad una collaborazione coordinata e continuativa; con il secondo, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69, quanto alla prospettata presunzione assoluta della subordinazione; con il terzo, l’erronea condanna risarcitoria per omissione contributiva.

4. Nel rigettare tali censure la Corte di appello argomentava, in sintesi, come segue.

a) Sussistono la continuità, la personalità e la coordinazione della collaborazione. Dall’esame dei contratti stipulati nel corso degli anni, è emersa la continuità con strette cadenze mensili delle prestazioni di lavoro di regista, l’impegno di circa tre giorni alla settimana e l’indicazione del numero specifico delle prestazioni per unità di spettacolo o puntate, ovvero un numero di giorni predeterminato in date da stabilire con la produzione. Anche nei fatti la D. aveva lavorato costantemente e continuativamente per un numero di giornate predeterminate da stabilire nelle cadenze indicate da Raisat, lavorando in media 15/20 giorni al mese; il rapporto era stato pressochè continuativo nel corso degli anni. La personalità della prestazione e il coordinamento con RAI emergevano dai contratti stipulati: la prestazione era resa con prestazioni intellettuali ma secondo tempistiche e nei luoghi e con gli obblighi stabiliti dalla Rai; anche la prova testimoniale aveva confermato la coordinazione in relazione alle modalità che la D. doveva seguire nelle varie fasi di redazione e approvazione dei testi. Il motivo di appello è affidato alla sola dimostrazione dell’assenza degli indici della subordinazione, mentre nessun riferimento viene effettuato all’assenza dei requisiti della collaborazione coordinata e continuativa, che notoriamente costituisce ipotesi di lavoro autonomo.

b) Quanto alla presunzione assoluta di subordinazione in assenza di programma o progetto ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, è condiviso l’orientamento espresso da Cass. nn. 12820 e 17127 del 2016. La circostanza che nei contratti sia stata indicata la volontà delle parti di stipulare un contratto di lavoro autonomo e non subordinato è irrilevante, perchè per fare operare la presunzione assoluta è sufficiente la presenza di una collaborazione coordinata e continuativa (affatto esclusa dalle parti, trattandosi anche in questa ipotesi di lavoro autonomo) e non certo della subordinazione.

c) Quanto al risarcimento per omissione contributiva, è infondato l’appello della Rai che lamenta l’inammissibilità di un risarcimento del danno ancor prima della maturazione del diritto alla pensione. Il Tribunale ha emesso una sentenza di condanna generica sulla base dei principi giurisprudenziali di cui alle sentenze della Suprema Corte nn. 2630 e 21300 del 2014 e n. 26990 del 2005. A tali principi, condivisi, va aggiunto quanto ulteriormente precisato da Cass. n. 1179 del 2015, per cui ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, il lavoratore può agire per far valere il danno da irregolarità contributiva.

5. Per la cassazione di tale sentenza RAI s.p.a. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi. Ha resistito la D. con controricorso.

6. La controricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

7. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per ultrapetizione. Assume la RAI che la sentenza sarebbe viziata per avere mutato la causa petendi dell’azione proposta dalla D., la quale nel ricorso introduttivo aveva agito per il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro e non aveva proposto, nemmeno in via subordinata, il riconoscimento di un rapporto di lavoro parasubordinato. Pertanto, se è vero che spetta al giudice qualificare giuridicamente l’azione e attribuire il nomen iuris al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, resta pur sempre il limite del vizio di ultrapetizione, costituito dal divieto di sostituire l’azione proposta con una diversa, perchè fondata su una diversa causa petendi.

8. Il motivo è inammissibile. Già il giudice di primo grado, come risulta dalla sentenza di appello, aveva accolto la domanda (introdotta tempestivamente dalla D. in primo grado in via subordinata) intesa al riconoscimento di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa che, soggiacendo agli effetti del regime di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, ossia al regime della collaborazione a progetto, era da ritenere convertito ex lege in rapporto di lavoro subordinato, stante l’assenza di un progetto.

9. Orbene, non risulta che fosse stato proposto un motivo di appello nei termini ora denunciati dalla RAI avverso la pronuncia di primo grado. Non solo la società ricorrente per cassazione – che vi era onerata – non ha lamentato un’omessa pronuncia (art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) su questione in tal senso formulata come motivo di appello, ma la stessa sentenza impugnata ha dato atto espressamente che la censura svolta in secondo grado dalla RAI con il primo motivo concerneva il difetto di motivazione e l’erronea interpretazione dei contratti circa la riconosciuta (dal primo giudice) riconducibilità della prestazione ad una collaborazione coordinata e continuativa e non il vizio di ultrapetizione rispetto alla domanda introduttiva.

10. Il secondo motivo denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., nonchè dell’art. 409 c.p.c., comma 3, D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61 e art. 69, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Assume la RAI che la D. non aveva allegato nè dimostrato gli indici di qualificazione del rapporto di lavoro parasubordinato, non potendosi a tal fine ritenersi sufficiente la mera richiesta, formulata in via subordinata, nelle sole conclusioni del ricorso ex art. 414 c.p.c.. Richiama l’orientamento di questa Corte secondo cui il collaboratore deve provare il fatto costitutivo della continuità e coordinazione della propria prestazione.

11. Anche tale motivo è inammissibile.

12. Il motivo ha inteso richiamare, a fondamento dei propri assunti, il principio enunciato da questa Corte (Cass. n. 9471 del 2016) secondo cui, in caso di domanda di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro proposta del D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 69, comma 2, costituisce violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato la sentenza emessa ai sensi dell’art. 69, comma 1, in quanto le ipotesi contemplate nei rispettivi commi poggiano su distinte causae petendi e introducono diversi temi di indagine. Tuttavia, tale richiamo non giova alla tesi della odierna ricorrente, dovendo l’eventuale vizio relativo alla originaria domanda, in ragione della sua prospettazione, essere fatto valere come motivo di impugnazione in appello.

13. Come già detto con riferimento al primo motivo, non risulta dalla sentenza impugnata che la RAI avesse mosso censure circa la qualificazione dell’azione o la corrispondenza tra chiesto e pronunciato o l’incompatibilità tra le domande di cui al comma 1 e al comma 2 del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69.

14. Nel caso in esame, il giudice di primo grado – come già osservato con riguardo al primo motivo – aveva ritenuto non provata la subordinazione, ma al contempo aveva ritenuto validamente formulata la domanda che invocava, per l’ipotesi in cui fosse ritenuta giudizialmente la natura autonoma della collaborazione, la sussistenza dei requisiti del coordinamento e della continuità della prestazione. Nell’accoglimento della domanda subordinata è all’evidenza implicito il superamento di ogni questione circa la compatibilità delle due azioni e circa la sussistenza dell’allegazione dei relativi fatti costitutivi.

15. A ciò va aggiunto un ulteriore profilo di inammissibilità dell’odierno ricorso per cassazione, atteso che la Corte di appello ha testualmente dato atto che il primo motivo di appello della RAI era stato affidato alla sola contestazione degli indici della subordinazione, mentre non vi erano censure circa gli indici della collaborazione coordinata e continuativa.

16. Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 409 c.p.c., comma 3 e art. 2222 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di appello riscontrato nella fattispecie concreta gli indici della collaborazione coordinata e continuativa. Il motivo analizza gli elementi che deporrebbero per una diversa soluzione interpretativa dei fatti di causa.

17. La censura è inammissibile.

18. Il ricorso, pur denunciando un’erronea ricognizione della fattispecie legale, in realtà allude ad una erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta previa ricostruzione dei fatti secondo un diverso apprezzamento di merito e non secondo la ricostruzione fattuale posta a base della sentenza impugnata. Il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

19. La Corte di appello, sulla base della disamina dei singoli contratti (la cui interpretazione non è neppure censurata per violazione dei canoni di ermeneutica negoziale) e delle risultanze istruttorie, ha confermato l’esito cui era pervenuto il primo giudice nella valutazione ed apprezzamento dei fatti allegati e dimostrati, nei termini in cui questi erano emersi in giudizio.

20. Il quarto motivo censura la sentenza per violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per avere la Corte di appello ritenuto che, in mancanza dell’indicazione di un progetto, in applicazione dell’art. 69 cit., comma 1, il rapporto dovesse essere considerato iuris et de iure di natura subordinata a tempo indeterminato sin dalla originaria stipula.

21. Il motivo è infondato, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, di cui la Corte di appello ha fatto corretta applicazione.

22. Nel caso in esame, opera la definizione legale del contratto a progetto fornita dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, nel testo originario, poi sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. a), modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 24 bis, comma 7, conv. in L. n. 134 del 2012, ed ancora dal D.L. n. 76 del 2013, art. 7, comma 2, lett. c), conv. in L. n. 99 del 2013 ed infine abrogato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 52, di attuazione del c.d. Jobs Act.

23. In base al testo applicabile ratione temporis, per la configurazione della fattispecie è necessaria la riconducibilità dell’attività “a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”.

24. Questa Corte ha chiarito che l’assenza del progetto di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, che rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie, ricorre sia quando manchi la prova della pattuizione di alcun progetto, sia allorchè il progetto, effettivamente pattuito, risulti privo delle sue caratteristiche essenziali, quali la specificità e l’autonomia (Cass. n. 8142 del 2017). Il progetto concordato non può comunque consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale della committente, e dunque nella previsione di prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l’ordinaria attività aziendale (v. Cass. n. 17636 del 2016 e n. 8142 del 2017).

25. Va pure aggiunto che una volta appurata l’assenza di un programma o progetto nel contesto di una collaborazione coordinata e continuativa consegue de iure la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, senza necessità di ulteriori accertamenti.

26. Il regime sanzionatorio articolato del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di c.d. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti (Cass. 12820 del 2016).

27. E’ stato chiarito che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f)), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (Cass. n. 17127 del 2016, v. pure Cass. n. 9471 del 2019).

28. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2116 c.c., comma 2, nella parte in cui la sentenza impugnata aveva confermato la condanna generica della RAI al risarcimento del danno da omesso versamento contributivo. Sostiene la ricorrente che nella fase anteriore alla maturazione del diritto a pensione il lavoratore può agire solo con una domanda di accertamento del proprio diritto e non di condanna, che presuppone un danno attuale.

29. Il motivo è infondato.

30. La Corte di appello ha richiamato, a fondamento del decisum, Cass. n. 2630 del 2014, secondo cui, nel caso di omissione contributiva, sussiste l’interesse del lavoratore ad agire per il risarcimento del danno ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi della domanda di condanna generica, ammissibile anche nel rito del lavoro, per accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare danno, salva poi la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell’evento dannoso (coincidente, in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali, con il raggiungimento dell’età pensionabile), l’azione risarcitoria ex art. 2116 c.c., comma 2, oppure quella diversa, in forma specifica, della L. 12 agosto 1962, n. 1338, ex art. 13.

31. Già in precedenza Cass. 22751 del 2004 aveva affermato che, nel caso di omissione contributiva, se è vero che il diritto al risarcimento del danno non può sorgere prima del verificarsi di un pregiudizio, è altrettanto vero che il lavoratore può chiedere la tutela della sua aspettativa concernente le prestazioni assicurative ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi, a tal fine, della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, volta ad accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare danno, salva poi la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell’evento dannoso, l’azione risarcitoria ex art. 2116 c.c., comma 2, o quella diversa, in forma specifica, della L. 12 agosto 1962, n. 1338, ex art. 13.

32. Ancor più recentemente, Cass. n. 1179 del 2015, pure richiamata dalla Corte di appello, ha affermato che l’omissione della contribuzione produce un duplice pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, consistente, da un lato, nella perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l’età pensionabile, e, dall’altro, nella necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui alla L. 12 agosto 1962, n. 1338, art. 13. Ne consegue che le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il lavoratore, nei confronti del datore di lavoro, consistono, una volta raggiunta l’età pensionabile, nella perdita totale o parziale della pensione che dà luogo al danno risarcibile ex art. 2116 c.c., mentre, prima del raggiungimento dell’età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso.

33. A fronte di tale costante orientamento, qui condiviso e ribadito, la società odierna ricorrente si è limitata a formulare un motivo del tutto generico, teso immotivatamente a contestare tale soluzione interpretativa.

34. In materia di procedimento civile, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità’, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (cfr. ex plurimis, Cass. n. 14832 del 2007).

35. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

36. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la RAI al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5.250,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2021

 

 

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