Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11107 del 19/04/2019

Cassazione civile sez. I, 19/04/2019, (ud. 29/03/2019, dep. 19/04/2019), n.11107

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13276/2018 proposto da:

I.A., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour,

presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso dall’avvocato Carmine Verde, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno – Commissione Territoriale per il

Riconoscimento della Protezione Internazionale;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO del 22/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

29/03/2019 dal Cons. Dott. SCORDAMAGLIA IRENE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Campobasso, con decreto del 19 marzo 2018, depositato il 22 marzo 2018, ha rigettato il ricorso proposto avverso il provvedimento della Commissione territoriale di Salerno – Sezione di Campobasso – che aveva respinto la domanda di protezione internazionale, sub specie di riconoscimento dello status di rifugiato ovvero di protezione sussidiaria, e, in subordine, di protezione umanitaria avanzata da I.A. – che aveva addotto, a ragione della richiesta, il timore di subire persecuzioni in Pakistan, suo paese di origine o, comunque, di incorrere nel pericolo di un grave danno alla persona ove vi fosse ritornato, a causa della instabilità politico-sociale colà esistente che impediva allo Stato di approntare un’efficace protezione alla sua persona, già minacciata dai comportamenti di altre persone, che per banali ragioni di edificazione di un muro sul confine di terreni, l’avevano minacciato e percosso costringendolo a fuggire dal paese, e il rischio, in ogni caso, di subire la compromissione dei suoi diritti fondamentali, in specie di vedere arrestato l’iniziato percorso di una vita normale ad effetto del forzato rientro in Paskistan -, avendo confermato l’apprezzamento di totale inattendibilità della narrazione dei fatti – connotata da lacune e incongruenze – svolta dal ricorrente; la valutazione, espressa dalla Commissione Territoriale, in ordine alla situazione del Pakistan, in particolare del Punjab, quale paese che non presentava – seconde le più aggiornate informazioni desumibili dal report del Ministero degli affari esteri – un contesto di violenza generalizzata tale da esporre a minaccia grave e individuale la persona del richiedente, in difetto di allegazione di indicatori di rischio differenziato e qualificato, ovvero la vita della popolazione civile, e il giudizio circa l’assenza di situazioni di vulnerabilità significative suscettibili di incidere, in ipotesi di rimpatrio, sulla tutela dei diritti fondamentali del richiedente.

2. Il ricorso per cassazione, presentato nell’interesse del richiedente, avverso la decisione del Tribunale, è affidato a due motivi.

– Con il primo motivo è denunciata promiscuamente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione di legge, in relazione al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, sul rilievo che il giudice censurato avrebbe eluso l’obbligo di cooperazione istruttoria, che incombe sulle autorità decidenti, avendo verificato la situazione della regione di provenienza del richiedente sulla base di un non meglio qualificato report del Ministero degli Esteri, senza compulsare le fonti qualificate, richiamate in ricorso, idonee a dimostrare l’esistenza di un contesto di violenza generalizzata anche nell’area geografica del Punjab; al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), sul rilievo che il mancato approfondimento istruttorio officioso in ordine alla instabilità socio-politica e religiosa della regione pakistana del Punjab aveva determinato un vuoto probatorio rilevante in tema di esistenza di una situazione di violenza indiscriminata, posto che, in tale ipotesi, la prova della minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile può essere desunta dalla situazione stessa, senza che assumano rilievo l’inverosimiglianza e le contraddittorietà del racconto del richiedente; in relazione al D.Lgs. 25 luglio 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. 28 gennaio 2008, art. 32, comma 3, sul rilievo che la ridetta situazione di violenza indiscriminata sarebbe tale da ridondare anche in pregiudizio dei diritti primari del richiedente.

– Con il terzo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in riferimento alla mancata compiuta valutazione da parte del Tribunale, ai fini della protezione umanitaria, della situazione di integrazione sociale del richiedente, siccome comprovata dalla documentazione prodotta, attestante l’esercizio di un’attività imprenditoriale e lo svolgimento di un lavoro a tempo indeterminato; in caso di rimpatrio forzato nel paese di origine, infatti, il richiedente avrebbe subito una compromissione dei suoi diritti fondamentali, se non altro per l’incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è improcedibile.

1. Avuto riguardo al principio di diritto secondo il quale, in tema di ricorso per cassazione, ove la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, è necessario che il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, estragga copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato) ed attesti, con propria sottoscrizione autografa, la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter, depositando nei termini quest’ultima presso la cancelleria della Suprema Corte (Sez. 6, Ordinanza n. 30765 del 22/12/2017, Rv. 647029-01), occorre rilevare che al suddetto onere non si è correttamente adempiuto da parte del difensore di I.A., che, piuttosto che attestare la conformità della copia analogica, cioè cartacea, del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna, ai documenti informatici da cui la copia stessa è tratta, ha, all’inverso, attestato che la copia informatica depositata è conforme all’originale analogico.

2. A ciò deve che le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 8312 del 25 marzo 2019, hanno affermato che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica della decisione impugnata redatta in formato elettronico e firmata digitalmente (e necessariamente inserita nel fascicolo informatico) senza attestazione di conformità del difensore D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-bis, comma 9-bis, convertito dalla L. n. 221 del 2012, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comporta l’applicazione della sanzione dell’improcedibilità ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale della medesima decisione. Mentre se alcune o tutte le parti rimangano intimate o, comunque, disconoscano la conformità all’originale della copia analogica non autenticata della decisione tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica della decisione impugnata sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.

3. Poichè l’intimato Ministero dell’Interno e rimasto tale e il difensore del ricorrente non ha depositato, entro la data dell’odierna adunanza in camera di consiglio, l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica della decisione impugnata, il proposto ricorso non può essere che dichiarato improcedibile.

4. S’impone, dunque, la declaratoria d’improcedibilità del ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva, nè ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, essendo stato il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte dichiara improcedibile il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2019

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