Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11105 del 19/04/2019

Cassazione civile sez. I, 19/04/2019, (ud. 29/03/2019, dep. 19/04/2019), n.11105

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13272/2018 proposto da:

M.I., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour,

presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso dall’avvocato Carmine Verde, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO del 22/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

29/03/2019 dal Cons. Dott. SCORDAMAGLIA IRENE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Campobasso, con decreto del 19 marzo 2018, depositato in data 22 marzo 2018, ha rigettato il ricorso proposto avverso il provvedimento della Commissione territoriale di Salerno – Sezione di Campobasso – che aveva respinto la domanda di protezione internazionale, sub specie di riconoscimento dello status di rifugiato ovvero di protezione sussidiaria, o di protezione umanitaria, avanzata da M.I. – che aveva addotto, a ragione della richiesta, il timore di subire persecuzioni in Costa d’Avorio, suo paese di origine, o, comunque, di rimanere esposto ad un grave danno alla persona ove vi fosse ritornato, perchè ricercato dai parenti della donna cristiana, con la quale aveva intrattenuto una relazione, che lo ritenevano responsabile della prematura morte della congiunta, dovuta al parto, o di dovere affrontare il rischio di compromissione dei propri diritti fondamentali ad effetto del forzato rientro nel suo paese di origine -, avendo confermato l’apprezzamento, espresso dalla Commissione Territoriale, di totale inattendibilità della narrazione dei fatti – connotata da lacune e incongruenze – svolta dal ricorrente; la valutazione in ordine alla situazione della Costa d’Avorio, quale paese immune – secondo le aggiornate ed affidabili fonti informative – da un contesto di violenza generalizzata per l’esistenza di un conflitto interno tale da esporre a minaccia grave la vita dei civili, pur se in esso erano presenti tensioni, e il giudizio circa l’assenza di situazioni di vulnerabilità significative, suscettibili di incidere, in ipotesi di rimpatrio, sulla tutela dei diritti fondamentali del richiedente.

2. Il ricorso per cassazione, presentato nell’interesse del richiedente, avverso la decisione del Tribunale, è affidato ad un solo motivo, che denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dal documento attestante la malattia affliggente il richiedente – l’epatite B – non efficacemente fronteggiabile nel paese d’ordine; donde la situazione di particolare vulnerabilità del richiedente, che l’avrebbe esposto ad una compromissione del suo fondamentale diritto alla salute in ipotesi di forzato rientro in Costa d’Avorio.

3. L’intimato Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In limine va riconosciuta la procedibilità del ricorso.

1.1. Avuto riguardo al principio di diritto secondo il quale, in tema di ricorso per cassazione, ove la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, è necessario che il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, estragga copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato) ed attesti, con propria sottoscrizione autografa, la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter, depositando nei termini quest’ultima presso la cancelleria della Suprema Corte (Sez. 6, Ordinanza n. 30765 del 22/12/2017, Rv. 647029-01), occorre rilevare che al suddetto onere non si è correttamente adempiuto da parte del difensore di M.I., che, piuttosto che attestare la conformità della copia analogica, cioè cartacea, del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna, ai documenti informatici da cui la copia stessa è tratta, ha, all’inverso, attestato che la copia informatica depositata è conforme all’originale analogico.

1.2. Deve, tuttavia, darsi atto che le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 8312 del 25 marzo 2019, hanno affermato che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica della decisione impugnata redatta in formato elettronico e firmata digitalmente (e necessariamente inserita nel fascicolo informatico) senza attestazione di conformità del difensore D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-bis, comma 9-bis, convertito dalla L. n. 221 del 2012, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comporta l’applicazione della sanzione dell’improcedibilità ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale della medesima decisione. Mentre se alcune o tutte le parti rimangano intimate o, comunque, disconoscano la conformità all’originale della copia analogica non autenticata della decisione tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica della decisione impugnata sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.

1.3. Poichè il controricorrente Ministero dell’Interno, costituitosi in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata e non ha, comunque, disconosciuto la conformità della copia informale all’originale della medesima decisione, il ricorso non può essere dichiarato improcedibile.

2. Tanto rilevato, il ricorso è, tuttavia, inammissibile; ciò rende irrilevante lo ius superveniens, in materia di protezione umanitaria, costituito dal D.L. 4 ottobre 2018, convertito in L. n. 132 del 2018.

2.1. Va, in primo luogo, rammentato che secondo la più aggiornata giurisprudenza di legittimità (Sez. 6-1, Ordinanza n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648-01; Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01), l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, ritenuta dai giudici di merito, costituisce già ragione sufficiente per negare anche la protezione umanitaria.

2.2. A ciò deve aggiungersi che la stessa giurisprudenza ha pure affermato che tra i motivi per i quali è possibile accordare la protezione umanitaria non figurano, di per sè, i problemi di salute dai quali il richiedente sia affetto, essendo necessario “…invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU” (Sez. 6-1, Ordinanza n. 26641 del 21/12/2016, Rv. 642778-01). In tale prospettiva è stato chiarito che la situazione di vulnerabilità che costituisce il fondamento giustificativo del permesso di soggiorno per motivi umanitari (secondo la normativa vigente “ratione temporis”) può ben essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute (Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01), ma perchè trovi tutela è necessario che ricorrano i presupposti di legge per il rilascio del permesso di protezione umanitaria e che il ricorrente adempia in maniera specifica al proprio onere di allegazione. Nondimeno, si è ulteriormente sottolineato che non è configurabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè un obbligo di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di ” estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico (Sez. 6-1, Ordinanza n. 3681 del 07/02/2019, Rv. 652754-01).

2.3. Da tutto quanto detto, e tenuto, altresì, conto dell’ineludibile collegamento del diritto alla protezione umanitaria con la sussistenza di “seri motivi”, discende che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, è necessaria la verifica della personale condizione di vulnerabilità in cui versi il richiedente: verifica da effettuarsi con una valutazione individualizzata e con un apprezzamento comparato tra la situazione di vita privata e familiare di cui egli goda nell’attualità e quella che gli sia spettata prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

2.4. Alla stregua delle riportate indicazioni ermeneutiche, va riconosciuto che la decisione assunta, nel caso concreto, dal giudice di merito, laddove ha escluso la sussistenza di individualizzate ragioni ostative al rimpatrio, è conforme a diritto.

2.5. Peraltro, la censura articolata del ricorrente, in ordine all’omesso esame da parte del Tribunale di un fatto decisivo – segnatamente la propria positività all’epatite B – oggetto di discussione tra le parti, per come prospettata, è del tutto generica, posto che la scarna documentazione sanitaria inserita nell’allegato 3 del fascicolo di parte, nulla evidenziando in ordine allo stato della patologia accusata, se sia attiva o silente; se la stessa sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza; se sia concretamente idonea a determinare un’alterazione significativa della condizione di vita del richiedente, suscettibile, peraltro, di ulteriore compromissione in ipotesi di ritorno in patria di questi, a causa dell’impossibilità di ricevere colà le cure specifiche del caso, è del tutto priva dei requisiti per potere essere qualificata come fatto tale da sortire un diverso esito della decisione.

3. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso non può che essere dichiarato inammissibile. Discende la condanna del ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compenso, oltre le spese prenotate a debito, Non ricorrono, invece, i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, il ricorrente essendo stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compenso, oltre le spese prenotate a debito. Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2019

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