Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1109 del 20/01/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/01/2020, (ud. 02/04/2019, dep. 20/01/2020), n.1109

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27369-2015 proposto da:

A.S., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ORAZIO TOTARO;

– ricorrente –

contro

C.A. & C S.N.C., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato MARCO

D’AREZZO, rappresentata e difesa dall’avvocato PASQUALE P. FATIGATO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 645/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 06/05/2015 R.G.N. 3080/2012;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore, RILEVA che la sig.ra A.S., premesso di aver lavorato come operaia alle dipendenze della C.A. s.n.c. dal primo marzo 1999 al 31 luglio 2009; che da febbraio dell’anno 2006 aveva subito maltrattamenti e umiliazioni nonchè demansionamenti siccome adibita a lavori più umili, da parte delle figlie di C.A., M. e N., dal momento in cui le stesse avevano iniziato a lavorare nella ditta del padre; che era stata minacciata e dileggiata quasi tutti i giorni davanti ai colleghi con espressioni ingiuriose; che aveva provveduto a registrare gli episodi verificatisi in data (OMISSIS), i cui dialoghi erano stati trascritti e quindi prodotti in giudizio; che C.A. non aveva mai assunto determinazioni, di modo che per essa A. non era stato più possibile ottenere il ripristino di un accettabile ambiente di lavoro; che le era stata diagnosticata sintomatologia ansiosa, con agitazione e pianto profuso, per cui erano state poi anche riscontrati ulteriori stati morbosi (deflessione del tono timico, intensa anergia, abulia, anolania con stato di allerta ansiosa persistente e disturbi del ciclo sonno-veglia nonchè dell’alimentazione, disturbo dell’adattamento con ansia dell’umore depresso con carattere di cronicità); che aveva presentato apposita diffida in data 15 dicembre 2007, provvedendo altresì a sporgere denuncia-querela in data sei novembre 2008, denunciando altresì i fatti all’Inail, che aveva poi eseguito accertamenti sul posto; tanto premesso, l’ A. aveva adito il giudice del lavoro di FOGGIA, convenendo in giudizio la C.A. & C. s.n.c. per l’accertamento dei fatti e la condanna della società al risarcimento di tutti i danni non patrimoniali ravvisabili nella specie, instando altresì in via istruttoria per l’ammissione di apposita c.t.u., pure al fine di confermare le registrazioni sonore prodotte ed acquisire informative varie;

il giudice adito rigettava la domanda come da sentenza del 17 maggio 2002, quindi impugnata con ricorso depositato il 9 novembre 2012, poi respinto dalla Corte d’Appello di Bari con la pronuncia n. 645/2 marzo – sei maggio 2015, avverso la quale di conseguenza la sig.ra A.S. ha proposto ricorso per cassazione come da atto del due / tre novembre 2015, affidato a cinque motivi, cui ha resistito la C.A. e C. s.n.c., in persona del l.r.p.t. sig. C.A., mediante controricorso del 10/11 dicembre 2015;

il Pubblico Ministero in sede ha concluso come da requisitoria scritta del 27 febbraio / sei marzo 2019 per il rigetto del ricorso;

la ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo la ricorrente ha lamentato difetto di pronuncia – omessa motivazione – mancata applicazione dell’art. 112 c.p.c. – art. 360 c.p.c., n. 4, in proposito osservando che la Corte d’Appello aveva rigettato l’impugnazione soffermandosi sul punto in cui si stigmatizzava il riferimento al corso semestrale necessario per integrare la fattispecie di mobbing. Al riguardo la sentenza impugnata aveva ritenuto di non dover esaminare la questione, assumendo che l’affermazione contenuta nella gravata pronuncia costituiva una mera premessa di principio e non aveva alcuna causale con la decisione, sicchè le censure in proposito risultavano manifestamente infondate. Secondo la ricorrente, la decisione de qua non coglieva totalmente la portata della questione proposta, esaminata limitatamente al tema del periodo necessario al mobbing, senza alcun accenno al pure denunciato difetto di pronuncia e alla conseguente violazione dell’art. 24 Cost.. Il giudice investito della causa era obbligato a pronunciarsi ai sensi dell’art. 112 c.p.c. sulla base di tutta la domanda rivolta. Il diritto alla domanda ricomprendeva il diritto alla pronuncia sul merito nei limiti delineati dalla parte che la proponeva. Nel caso di specie la Corte d’Appello non si era pronunciata sulla domanda e su tutte le richieste istruttorie formulate, nè aveva esaminato gli atti e i documenti di parte attrice e di parte resistente prodotti nel corso del giudizio. L’atto di appello aveva criticato a fondo la sentenza gravata, composta di poche righe dattiloscritte e posto principalmente il tema del difetto di pronuncia della vicenda, gestita dal primo giudicante con molta superficialità. Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte distrettuale, vi era la prova di tutti gli elementi costituenti il denunciato mobbing con relativa pretesa risarcitoria. La motivazione, su domanda e richieste istruttorie disattese, era stata totalmente omessa. I motivi di doglianza erano stati nettissimi;

con il secondo motivo è stata denunciata la mancata applicazione dell’art. 115 c.p.c. – omessa motivazione – art. 360 c.p.c., n. 4, per mancata ammissione dell’istruttoria e cattiva gestione dei fatti acquisiti. Nel caso di specie, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la prova dei fatti denotanti il mobbing era stata virtualmente raggiunta. Dall’esame della memoria difensiva di primo grado, depositata da parte resistente, si ricavava senza ombra di dubbio che nell’azienda della ditta C. si erano verificati numerosi episodi di attriti e di conflitto tra la deducente e le signore M. e C.N., figlie di C.A., fondatore della convenuta. La pluralità degli episodi era stata confermata dalla stessa memoria di parte resistente, laddove si affermava l’atteggiamento di ostilità dimostrato da essa ricorrente, per cui i rapporti degenerarono completamente nell’estate del 2006. Dunque, secondo quanto affermato dalla stessa convenuta vi erano stati reiterati e continui episodi conflittuali. Tutti i fatti erano stati ampiamente spiegati nelle pagine 18, 19 e 20 della memoria difensiva della medesima resistente. La conferma dei fatti era dunque eclatante e si riferiva al periodo da (OMISSIS), come detto ex adverso, “fino al (OMISSIS), come si dice nel ricorso”. Anche il fatto che di tutti gli episodi di mobbing non fosse mai venuto a conoscenza il titolare della ditta datrice di lavoro risultava totalmente smentito dalle affermazioni contenute nella anzidetta memoria. Egli era stato più volte sollecitato ad intervenire dalla ricorrente, dal sindacato e dagli ispettori dell’Inail, che avevano svolto le indagini a seguito della denuncia della ricorrente. La relazione conclusiva dell’Istituto (tuttavia nemmeno minimamente riportata ex art. 366 c.p.c., n. 6) ne aveva dato espressamente conto. Le istanze volte a sollecitare l’ammissione di tutti gli altri mezzi istruttori andavano a completare il complesso delle prove già sufficiente. Nè la ricorrente aveva fondato i suoi progetti di prova sui tre episodi registrati, trascritti e dedotti a dimostrazione per conferma, come erroneamente ritenuto dalla Corte distrettuale. Il quadro dei fatti era molto più ampio ed esaustivo, ma nulla la sentenza impugnata aveva detto sulle conferme di controparte. La deducente le aveva puntualmente indicate, sollecitandone il doveroso esame mai avvenuto, donde anche per questo motivo la nullità dell’impugnata pronuncia (invero, non risultano neppure riprodotte le registrazioni che si assumono essere state trascritte e depositate nel corso del giudizio di merito);

con il terzo motivo la ricorrente ha ulteriormente denunciato la mancata applicazione dell’art. 115 c.p.c. – art. 360 n. 4 dello stesso codice di rito, sostenendo che l’art. 115 imponeva al giudice il dovere di decidere in base alle prove dedotte dalle parti ed acquisite al giudizio con i mezzi istruttori previsti dal codice di rito. Nella specie la denunciante aveva puntualmente indicato nei propri atti tutti i mezzi istruttori, l’interrogatorio formale, la prova per testi e le consulenze tecniche, che la Corte territoriale non aveva inteso accogliere, negando l’apertura dell’istruttoria mai svolta. Contrariamente a quanto opinato dai giudici di appello, secondo la ricorrente la prova articolata era del tutto idonea a dimostrare il coinvolgimento del datore di lavoro in tutti i fatti indicati a sostegno della domanda. Gli episodi di alterchi, sopraffazioni e reciproci conflitti erano stati numerosi e riportati nelle capitolazioni di prova con dovizia di particolari, non occorrendo la quotidianità degli atti lesivi, essendo sufficiente anche una loro cadenza settimanale. La conoscenza dei fatti della parte datoriale era stata confermata dalla documentazione in atti ed era stata riportata nel verbale d’ispezione INAIL, nonchè confermata abbondantemente in più punti dalle difese avversarie. Da tanto emergeva che il signor C.A. era stato personalmente presente in alcuni degli episodi più violenti (quello del (OMISSIS)), aveva partecipato agli incontri sindacali, era stato interrogato in sede di ispezione INAIL e si era informato con i colleghi della stessa A., perchè non si spiegava il comportamento della stessa. Tanto smentiva tutto quanto affermato dalla sentenza impugnata, laddove si era formata una errata convinzione nel momento in cui aveva ritenuto che le registrazioni prodotte e descritte sarebbero state del tutto irrilevanti ai fini della configurazione del mobbing. In questo passaggio la Corte d’Appello aveva concentrato tutta la sua illegittima decisione, avendo ritenuto l’inammissibilità delle prove orali e dell’intera istruttoria per l’accertamento del mobbing, pervenendo a tale sua involuta affermazione mediante pronuncia su situazioni medico-legali di carattere psichico, però richiedenti accertamenti di natura scientifica, bisognevoli di competenze iper-specialistiche, certamente non in possesso della Corte barese. La decisione di non procedere all’istruttoria, dunque, era ingiustificata e soprattutto violava la possibilità di difendersi, privando così la ricorrente dei diritti stabiliti dall’invocato art. 115 c.p.c., donde anche sotto questo profilo la nullità della sentenza impugnata;

con il quarto motivo l’impugnata sentenza è stata censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè per motivazione apparente e incomprensibile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, contestandosi, in particolare, l’argomentazione secondo cui non vi era prova del comportamento doloso posto in essere dai compagni di lavoro, nè di quello colposo riconducibile al datore di lavoro, in violazione del cit. art. 2087. Erroneamente la Corte di merito aveva considerato del tutto irrilevanti le registrazioni delle conversazioni intervenute, siccome ritenute idonee a dimostrare esclusivamente l’esistenza di una situazione di conflittualità e di una reciproca aggressività sul posto di lavoro. La decisione, però, smentiva il precedente assunto, contenuto nella medesima sentenza, circa la carenza di prova dei fatti denotanti il mobbing, e con ulteriore incoerenza la stessa Corte distrettuale aveva ritenuto non utilizzabili le registrazioni, in base all’art. 2712 c.c. e art. 214 c.p.c. e ss., avendo rigettato il relativo motivo di appello e poi dando per scontata la situazione di conflittualità e di aggressività delle sorelle C. con la deducente. Inoltre, secondo univoca giurisprudenza, la ricorrente ha sostenuto che in tema di mobbing il lavoratore non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro, dovendo soltanto allegare e provare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta asseritamente violate. Sta di fatto che la sentenza non aveva applicato correttamente l’art. 2087 c.c.. In particolare, la Corte territoriale aveva omesso di considerare la richiesta di c.t.u. medico-legale, finalizzata ad accertare i danni alla salute, la loro entità e la dipendenza degli stessi dai fatti di mobbing allegati. Da questo mezzo istruttorio, insieme agli altri richiesti, si poteva agevolmente ricavare il nesso causale, trattandosi peraltro di accertamenti di natura scientifica, laddove per altro verso era il datore di lavoro onerato della prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il versificarsi del danno e che la malattia non era ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi come da citata giurisprudenza di legittimità. Nel caso di specie, vi era stata condotta omissiva del datore di lavoro, che non aveva saputo, voluto o potuto porre rimedio a quanto commesso dalle sorelle C., e la stessa Corte d’Appello aveva riconosciuto la situazione di conflittualità all’interno dell’azienda, però senza trarne le dovute conseguenze. Inoltre, il nesso causale era desumibile dalla certificazione medica in atti attestante lo stato di malessere psicologico post traumatico da stress, uno degli eventi morbosi tipici denotanti il mobbing;

con il quinto motivo, infine, la ricorrente si è doluta della violazione e falsa applicazione dell’art. 2712 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – mancata applicazione degli artt. 214 c.p.c. e ss. in relazione all’art. 360, n. 4 cit. codice – omessa e incomprensibile motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Infatti, la Corte d’Appello non aveva esaminato il punto inerente alla rituale acquisizione al giudizio delle registrazioni fonografiche, prodotte su supporto elettronico e trascritte fedelmente in atti dalla deducente. Mediante oscura ed incomprensibile argomentazione, la Corte distrettuale, dopo aver respinto il motivo di doglianza, aveva affermato che; anche ove fosse stata raggiunta la prova della veridicità del contenuto di tali tre episodi, tanto non sarebbe bastato a dimostrare la sistematicità delle presunte condotte vessatorie. La ricorrente sosteneva, tra l’altro, di aver chiesto la prova testimoniale e la c.t.u. per la conferma della genuinità delle registrazioni, proprio al fine di ovviare alle prevedibili contestazioni avversarie, però del tutto irrituali, sicchè anche per queste ragioni l’impugnata sentenza andava cassata e dichiarata nulla;

tanto premesso, il ricorso va disatteso in forza delle seguenti ragioni, dovendosi in primo luogo rilevare come l’impugnazione de qua risulti non autosufficiente, in violazione di quanto per contro richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, oltre che poco, se non per nulla, pertinente alle rationes decidendi coerentemente enunciate nella sentenza di secondo grado, la quale, dopo aver ritenuto ammissibile l’interposto gravame, esaminava adeguatamente i motivi addotti a sostegno dello stesso (perciò nei limiti di quanto devoluto, non essendo, come è ormai da tempo noto, l’appello un novum judicium, bensì integrando una revisio prioris instantiae – v., tra le altre, Cass. sez. un. civ. n. 3033 – 08/02/2013 e n. 28498 del 23/12/2005), evidenziando in primo luogo un obiter dictum nella gravata pronuncia laddove si era accennato al periodo minimo non inferiore al semestre, trattandosi di affermazione che non aveva alcuna relazione causale con la decisione, mentre il giudice adito aveva rigettato la domanda sulla scorta di allegazioni probatorie inidonee a supportare la pretesa risarcitoria per totale assenza di sistematicità e durata delle asserite condotte vessatorie, con riferimento, in particolare, agli unici tre episodi su cui sostanzialmente la lavoratrice aveva fondato la denuncia di mobbing (per gli accadimenti del (OMISSIS)), dunque irrilevanti anche ove mai rispondenti al vero. Quanto alle altre doglianze espresse dall’appellante, la Corte di merito osservava che il primo giudicante dopo aver correttamente valorizzato, tra gli elementi costitutivi del mobbing, quello della sistematicità delle condotte vessatorie, condivisibilmente aveva ritenuto detto requisito non desumibile però nella specie dai soli tre episodi enunciati dall’attrice, laddove peraltro la prova testimoniale non era stata capitolata e la cui articolazione era diretta semplicemente a confermare la trascrizione del contenuto di alcune registrazioni, ma non l’accadimento delle circostanze (sub 16, 17 e 18) ivi rappresentate. Inoltre, a completamento di quanto ritenuto sul punto dal Tribunale, la Corte territoriale rilevava che le circostanze sub 1, 2, 3, 4 e 7 di cui alla richiesta istruttoria non risultavano contestate, mentre quelle sub 5 e 6 contenevano valutazioni inibite ai testi, laddove poi le rimanenti apparivano irrilevanti, poichè in nessuna di esse risultava dedotto che l’ A. avesse messo il datore di lavoro a conoscenza di tale situazione, avendo l’attrice unicamente dedotto (sub punto 13) che “il responsabile dell’azienda non si era mai seriamente impegnato a far desistere le figlie da simili ingiustificati comportamenti, che si ripetevano non notevole frequenza”, cosa di per sè non sufficiente a dimostrare che il datore di lavoro fosse a conoscenza della situazione. Infatti, per poter configurare il c.d. mobbing orizzontale, come quello dedotto in giudizio, al comportamento doloso del collega di lavoro doveva accompagnarsi quello colposo del datore di lavoro, che in violazione dell’art. 2087 c.c. non poneva in essere tutte le cautele necessarie ad evitare la nocività del luogo di lavoro in danno alla persona del proprio dipendente. La Corte d’Appello, osservava inoltre che l’attrice neppure risultava aver documentalmente mai notiziato della situazione (asseritamente) mobbizzante il datore di lavoro, nè tale coinvolgimento di quest’ultimo risultava oggetto di prova testimoniale. Per tali ragioni del tutto irrilevanti apparivano le registrazioni intervenute tra l’appellante e le figlie del C., idonee a dimostrare esclusivamente una situazione di conflittualità tra le stesse ed una reciproca aggressività sul posto di lavoro;

a fronte delle succitate lineari argomentazioni, per cui ad ogni modo non si ravvisa alcuna violazione del c.d. minimo costituzionale nella motivazione in relazione a quanto previsto dagli artt. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. cit. codice di rito, con riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. civ. sez. 6 – 3, ordinanza n. 22598 del 25/09/2018, in senso analogo v. pure Cass. n. 23940 del 2017, nonchè tra le altre Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014. Nella specie, peraltro, non è stato nemmeno ritualmente denunciato alcun eventuale vizio sussumibile nella previsione del vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del resto nemmeno denunciabile per effetto della doppia conforme tra pronuncia di primo e secondo grado, applicandosi nella specie, con riferimento al ricorso d’appello in data 9 novembre 2012, l’art. 348-ter, u.c. medesimo codice, sicchè deve comunque escludersi qualsiasi omesso esame di fatti storici e decisivi per il giudizio), le anzidette doglianze di parte ricorrente appaiono generiche ed inconferenti, non risultando adeguatamente riprodotto il testo del ricorso introduttivo del giudizio, delle difese ivi svolte da parte resistente (se non per alcune isolate e frazionate parole, riportate in misura comunque assolutamente carente – cfr. in part. pagg. 10 e 11 del ricorso per cassazione), della sentenza di primo grado (cui per relationem abbondantemente ha fatto rinvio la motivazione di quella qui impugnata), nonchè dello stesso atto di appello, per cui nemmeno risultano riportate le circostanze di fatto di cui la ricorrente lamenta la mancata ammissione di prova testimoniale, nè tanto meno sono stati enunciati i dialoghi delle conversazioni registrate, per cui invece la ricorrente si è limitata ad apodittiche, generiche e sommarie affermazioni, le quali, del resto, nemmeno trovano puntuale riscontro nell’impugnata sentenza, sicchè a maggior ragione la ricorrente avrebbe dovuto rigorosamente osservare gli oneri di allegazione imposti, a pena d’inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c. (il ricorso per cassazione de quo non contiene nemmeno un indice della produzione di parte, laddove a pag. 24 si limita ad indicare, con pari assoluta genericità, l’allegazione del fascicolo di merito, unitamente alla copia della sentenza impugnata);

resta, quindi, inosservato il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., per cui occorre che l’atto contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. lav. n. 31082 del 28/12/2017. V. parimenti Cass. Sez. 6 – 3, n. 1926 del 3/2/2015: per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa,… per cui si richiede alla Corte di Cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Conformi Cass. II civ. n. 7825 del 04/04/2006, I civ. n. 12688 del 30/05/2007 e n. 19018 del 31/07/2017.

Parimenti, secondo Cass. V civ. n. 29093 del 13/11/2018, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza.

Inoltre, secondo Cass. sez. un. civ. n. 7074 del 20/03/2017, ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali.

Cfr. altresì Cass. Sez. 6 – 3, n. 13312 del 28/05/2018: per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente. Il requisito non è adempiuto, pertanto, laddove i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado. In tale contesto, per altro verso, occorre pure richiamare l’onere di chiarezza, unitamente a quello di sintesi espositiva, da ultimo confermato con ordinanza n. 8009 del 21/03/2019 da Cass. V civ.: il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2 c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso – che non è normativamente sanzionata – ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4 assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità. Conforme Cass. II civ., sentenza n. 21297 del 20/10/2016 ed in senso analogo v. anche Cass. lav. n. 17698 del 6/8/2014);

pertanto, avuto riguardo a quanto puntualmente e motivatamente argomentato – nei sensi sopra indicati, anche per relationem con riferimento alla sentenza di primo grado, perciò confermata – con la pronuncia de qua dalla Corte di merito, appaiono inconferenti le anzidette doglianze, peraltro come già detto largamente incomplete ed insufficienti, che non soddisfano i requisiti di pertinenza, precisione e di autosufficienza, però occorrenti ai sensi del cit. art. 366 alla luce della succitata giurisprudenza, anche per i vari errores in procedendo, irritualmente, oltre infondatamente, denunciati da parte ricorrente ex art. 360 c.p.c., n. 4 (v. tra le altre, Cass. lav. n. 11738 – 08/06/2016, secondo cui l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, sicchè, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del “tantum devolutum quantum appelatum”, è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate. Parimenti, secondo Cass. V civ. n. 19410 del 30/09/2015, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale. Cfr. ancora similmente Cass. lav. n. 23420/11 in data 20/09 – 10/11/2011: “…Secondo la giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) od a quello de tantum devolutum quantum appellatum (art. 437 c.p.c.), trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo, che attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (cfr., Cass., nn. 11755/2004; 17109/(OMISSIS)). Tuttavia, anche in ipotesi di denuncia di un error in procedendo, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè il ricorrente è tenuto, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale, non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 5148/2003; 20405/2006; 21621/2007). Coerentemente, con riferimento all’ipotesi in cui sia stata denunciata l’omessa pronuncia da parte del giudice di secondo grado sulle doglianze mosse in appello per relationem alle ragioni esposte davanti al tribunale, è stato affermato che non viene rispettato il principio di autosufficienza allorchè nel ricorso per cassazione non siano esposte quelle specifiche circostanze di merito che avrebbero portato all’accoglimento del gravame, non potendo ottemperarsi a tale principio mediante il richiamo ad altri atti o scritti difensivi presentati nei precedenti gradi di giudizio (cfr., Cass., n. 26693/2006); più in generale, sempre con riferimento ai casi di denunzia del vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è stato reiteratamente affermata la necessità, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto de loro contenuto, nel ricorso per cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 7194/2000; 6361/2007; 21226/2010). Analogamente, laddove, come nel caso di specie, l’error in procedendo denunciato inerisca alla falsa applicazione del principio tantum devolutum quantum appellatum, l’autosufficienza del ricorso per cassazione impone che, nel ricorso stesso, siano esattamente riportati sia i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio, sia quelli del ricorso d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate. Tali oneri non sono stati ottemperati nel caso di specie dal ricorrente, che si è limitato a rappresentare l’oggetto delle proprie originarie domande e delle proprie successive doglianze, senza trascriverle negli esatti termini del loro svolgimento, ma riportandosi alla sintesi che delle medesime era stata fatta nella sentenza impugnata”);

escluso, poi, per quanto già detto, ogni e qualsiasi difetto o vizio di motivazione nel caso di specie, le censure di parte ricorrente si appalesano inconferenti ed infondate per quanto lamentato circa la mancata ammissione della prova testimoniale o di c.t.u. (consulenza che tecnicamente, come è noto, non è un vero e proprio mezzo di prova), avuto riguardo alle argomentazioni in proposito svolte dagli aditi giudici di merito, laddove inoltre è del tutto fuori luogo l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. Cass. sez. un. civ. n. 15982 del 18/12/2001), poichè il vizio di omessa pronuncia, che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112, ed è rilevante ai fini di cui all’art. 360, n. 4 cit. codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (in senso conforme, tra le varie, Cass. III civ. n. 7074 del 28/03/2006, n. 3357 in data 11/02/2009, Sez. Lav. n. 6715 del 18/03/2013, Sez. 6 – 1 n. 13716 del 5/7/2016 e n. 24830 del 20/10/2017); le carenze probatorie derivanti nel caso di specie dalle precedenti argomentazioni, con le quali vengono disattese, alla fine, istanze di carattere essenzialmente istruttorio, concernenti le questioni esaminate con i primi tre motivi, appaiono ad ogni modo assorbenti rispetto alle doglianze espresse con la quarta censura, relativamente alla configurazione del mobbing e della portata dell’art. 2087 c.c. (rinviandosi alle precedenti argomentazioni quanto poi alla pretesa motivazione apparente ed incomprensibile, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4) che siccome formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 può inerire esclusivamente alle pretese violazioni di legge, senza perciò trasmodare in ricostruzioni dei fatti diverse rispetto a quanto sul punto ritenuto dai giudici di merito;

di conseguenza, rilevato alla luce di quanto accertato in sede di merito, con l’esclusione e in particolare, del necessario elemento soggettivo, tale da poter configurare nella specie integrata la condotta mobbizzante ipotizzata da parte attrice, va ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c. ad integrazione “ex lege” delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una responsabilità contrattuale). Conseguentemente, il danno biologico – inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona in sè considerata, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione – può in astratto conseguire sia all’una che all’altra responsabilità. Qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale, che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.), cosicchè grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa (Cass. lav. n. 4184 del 24/02/2006, conformi id. n. 12763 del 21/12/1998, n. 5491 del 02/05/2000 e n. 23162 del 7/11/2007. Cfr. parimenti Cass. lav. n. 8911 del 29/03/2019, secondo cui la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione all’attività lavorativa svolta, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, anche quelle imprevedibili.

V. altresì Cass. lav. n. 26495 del 19/10/2018: l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. Conformi Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018, n. 18626 del 5/8/2013 e n. 2038 del 29/01/2013);

per giunta, risultando, dalla sentenza impugnata, la domanda di risarcimento danni, a suo tempo avanzata dall’attrice, fondata espressamente sull’asserito mobbing, dedotto nei confronti della convenuta parte datoriale, nemmeno risultava sufficiente al riguardo una condotta meramente colposa, occorrendo la dimostrazione di un apposito e più inteso elemento psichico (cfr. Cass. n. 3785 del 17/02/2009: per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Cfr. altresì Cass. lav. n. 26684 del 23/05 – 10/11/2017, laddove, richiamata in motivazione la necessità pure dell’elemento psichico “cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (Cass. 6.8.2014 n. 17698 e fra le più recenti Cass. 24.11.2016 n. 24029)”, ha osservato come, quindi, l’elemento qualificante debba ricercarsi già non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. A tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perchè, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo, che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata. Parimenti, la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: è configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo);

nel caso di specie qui in esame, per di più, anche in base alla non autosufficiente rappresentazione operata con il ricorso de quo, la condotta ascritta alla parte convenuta appare prospettata in termini omissivi – con riferimento alle compagne di lavoro della sig.ra A., alle quali sarebbero imputabili direttamente i pretesi comportamenti vessatori – per cui l’impugnata sentenza ha ipotizzato il c.d. mobbing orizzontale, addebitabile in astratto al datore di lavoro (convenuto in giudizio) sul presupposto che lo stesso ne fosse a conoscenza, presupposto tuttavia indimostrato per carenti allegazioni sul punto da parte attrice, sulla quale persisteva l’onere probatorio nell’ambito dell’elemento psichico, che pure la stessa parte era comunque tenuta a dimostrare (tanto più con riferimento alla supposta condotta, dolosa, posta in essere dalle autrici materiali della stessa, sicchè la mera colpa ex artt. 2087 e 1218 c.c. intanto può rilevare nei confronti di parte datoriale, con conseguente prova liberatoria a suo carico, sempre che risulti dimostrata la conoscenza della stessa parte dell’attività persecutoria, quindi necessariamente dolosa, posta in essere da altri dipendenti nel contesto della ordinaria attività di lavoro. Peraltro, nel caso di specie la ricorrente non ha, in ogni caso, ritualmente, denunciato alcun vizio per violazione degli artt. 2697 e/o 2049 c.c., laddove d’altro canto la responsabilità ex art. 2049, per i danni arrecati dal fatto illecito dei domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti, richiede che costoro abbiano perseguito, con il comportamento dannoso, finalità coerenti con le mansioni affidate e non estranee all’interesse del padrone o committente. Cfr. in tal sensi Cass. n. 12939 del 4/6/2007 e n. 22343 del 2006);

circa, infine il quinto ed ultimo motivo di ricorso, si rimanda alle precedenti considerazioni circa l’insussistente violazione del c.d. minimo costituzionale riguardo alla motivazione, indubbiamente chiara e sufficiente nella specie, nonchè per il difetto di specificità e di autosufficienza in ordine alle rilevate carenze ex art. 366 c.p.c. del ricorso de quo, pure in ordine al contenuto delle registrazioni fonografiche, di cui i giudici di merito per giunta hanno motivatamente evidenziato l’irrilevanza, segnatamente poi con riferimento al preteso mobbing dedotto in giudizio;

pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese;

atteso l’esito negativo dell’impugnazione, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore di parte controricorrente, nella misura di complessivi Euro 4000,00 (quattromila/00), per compensi ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2020

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