Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11064 del 19/05/2011

Cassazione civile sez. I, 19/05/2011, (ud. 28/03/2011, dep. 19/05/2011), n.11064

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28322/2005 proposto da:

C.F. (C.F. (OMISSIS)), B.G. (C.F.

(OMISSIS)), CO.RO. (C.F. (OMISSIS)),

domiciliate in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentate e difese dall’avvocato

PATANELLA Onofrio, giusta procura a margine del 714 ricorso;

– ricorrenti –

contro

CURATELA FALLIMENTO LINEA UOMO CONFEZIONI SOC. COOP. A R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1139/2004 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 25/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

28/03/2011 dal Consigliere Dott. ROSA MARIA DI VIRGILIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento dei primi

due motivi del ricorso; assorbimento del terzo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.F. proponeva opposizione allo stato passivo del Fallimento della Linea Uomo Confezioni, società cooperativa a r.l., dichiarato esecutivo con provvedimento del G.D. del Tribunale di Palermo del 15 gennaio 97, e, premesso di avere prestato attività lavorativa quale operaia specializzata dal settembre 1987, deduceva che, a fronte della richiesta di ammissione al passivo del Fallimento per il proprio credito di lavoro, in privilegio, per L. 120.000.000 milioni, di cui L. 24.000.000 in virtù della sentenza resa dal Pretore del lavoro di Palermo il 22 ottobre 1993 e il resto per retribuzioni non corrisposte dal novembre 91 in avanti, per ferie non godute, ratei 13^, 14^, indennità sostitutiva del preavviso, trattamento di fine rapporto, era stata ammessa per L. 26.950.000, in forza della detta sentenza pretorile, e per L. 2.950.000 per il t.f.r..

Analoga opposizione proponevano con separati ricorsi B.G. e Co.Ro. che, nella qualità di operaie dipendenti della società poi fallita, avevano chiesto l’ammissione al passivo in via privilegiata, rispettivamente per L. 81.500.000 e L. 83.890.754, venendo ammesse, la Co. per L. 33.190.754, compreso il t.f.r.

derivante dalla sentenza pretorile del 22 settembre 1994, e la B. per L. 3.285.000 per il t.f.r.

La Curatela, costituitasi nei tre procedimenti, chiedeva il rigetto delle opposizioni, eccependo che il rapporto di lavoro doveva ritenersi risolto alla data del 31 dicembre 1993, epoca di cessazione di fatto dell’attività aziendale, o quanto meno alla data del 30 aprile 94, allorchè si era concluso il periodo di Cassa Integrazione guadagni.

Il Tribunale di Palermo, con le sentenze in data 10 agosto 1999, 11 agosto 1999 e 23 agosto 1999, rigettava le opposizioni, compensando per la metà le spese e gravando le opponenti della restante frazione.

Avverso queste pronunce proponevano appello le lavoratrici; rimaneva contumace il Fallimento.

La Corte d’appello, espletata la prova testimoniale sui capitoli ammessi, con sentenza depositata il 25 ottobre 2004 ha confermato le sentenze di primo grado, respingendo gli appelli ed ha dichiarato irripetibili le spese del grado.

La Corte territoriale ha ritenuto che le appellanti non avevano fatto valere elementi atti a dimostrare che il rapporto di lavoro si fosse protratto sino alla data del fallimento del (OMISSIS), precisando peraltro che il termine iniziale del periodo contestato non era identico, per la C. e la B., dall’aprile 93 al novembre 94, per la Co., del gennaio 93 al novembre 94.

A riguardo, la Corte palermitana ha evidenziato che, a parte le risultanze negative del libro paga, indicante la cessazione del rapporto per tutte e tre le lavoratrici all’ottobre 92 (dato documentale non smentito dalla mancata comunicazione all’Ufficio di collocamento e dalla mancata restituzione del libretto di lavoro, imputabile ad un mero comportamento omissivo del datore di lavoro), non risultavano altri elementi positivi sulla persistenza del rapporto di lavoro, quali ad esempio la corresponsione sia pure parziale di retribuzione ovvero dati documentali relativi alla percezione di emolumenti. Risultava per contro che la presenza delle tre opponenti non era stata riscontrata in occasione delle verifiche dell’Ispettorato del lavoro nei primi giorni del dicembre 93, e degli agenti della Guardia di finanza, che nell’estate 1994, dal 14 luglio al 31 agosto, avevano interrogato i 20 dipendenti presenti; nè era stato dedotto e documentato alcun motivo verosimile e plausibile di assenza in tale periodo; le tre opponenti non risultavano altresì tra i 32 lavoratori in servizio alla data del 1 gennaio 1994, ai fini della richiesta della Cassa Integrazione guadagni ordinaria, dal 21 febbraio al 30 aprile 1994, nè le stesse erano state incluse tra i 24 lavoratori in servizio alla data del 24 novembre 1994, per 22 dei quali era stata ottenuta la Cassa Integrazione guadagni straordinaria, dal 27 novembre 1994 al 25 novembre 1995.

Ad avviso della Corte territoriale, le risultanze delle prove testimoniali, assunte nel secondo grado di giudizio, erano generiche e dunque non idonee a fornire la prova dell’ulteriore protrazione dei rapporti di lavoro in oggetto, oltre al periodo ritenuto dal 1^ Giudice.

La teste L. era stata alquanto generica, aveva dimostrato scarsa consapevolezza della posizione professionale della C., di cui ignorava l’inquadramento professionale e la retribuzione, anche approssimativa, si era limitata a riferire solo che la C. aveva lavorato sino a novembre 1994, ed identica indicazione temporale sulla cessazione del rapporto di lavoro la teste aveva fornito per la B. e la Co., di cui aveva indicato solo le mansioni, come se per l’ultimo periodo del 1994 vi fossero state normali prestazioni di lavoro, pur essendo pacifico che l’attività produttiva era cessata nel dicembre 1993, con alcune rivendicazioni sindacali nel gennaio 1994, a cui era seguita l’ammissione alla Cassa Integrazione.

Il teste S., che aveva cessato l’attività lavorativa nel dicembre 1993, aveva affermato che la C., la Co. e la B. avevano continuato a lavorare nei mesi successivi, per averle viste fuori dello stabilimento, in attesa di essere chiamate, senza precisare quante volte le avesse viste e da cosa avesse desunto che erano in attesa di essere chiamate a lavorare. Secondo la Corte territoriale, la presenza fuori dallo stabilimento non costituiva fatto univoco in ordine alla prova della persistenza del rapporto di lavoro, ben potendo trovare giustificazione in relazione alle agitazioni sindacali per le pretese creditorie relative alle retribuzioni maturate nel periodo precedente all’interruzione dell’attività lavorativa.

Secondo la Corte territoriale, infine, la lettera di licenziamento del Curatore inviata nel novembre 1997, ben dopo il fallimento, assumeva valore meramente cautelativo. La Corte palermitana ha respinto da ultimo il terzo motivo d’appello, ritenendo corretta la statuizione in punto spese ad opera del Tribunale, che, nella sussistenza di giusti motivi, aveva applicato solo in parte il criterio della soccombenza, compensando per la metà le spese di lite.

Propongono ricorso per cassazione avverso detta pronuncia C. F., Co.Ro. e B.G. sulla base di tre motivi.

Il Fallimento intimato non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1.- Con il primo motivo di impugnazione, le ricorrenti denunciano ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 e della L. n. 300 del 1970, art. 18, degli artt. 1418 e 1421 c.c., artt. 2099, 2119, 2120 e 2697 c.c., L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24.

Secondo le ricorrenti, la Corte territoriale ha omesso di valutare che la società Linea Uomo Confezioni, occupando più di 15 dipendenti, era obbligata ad intimare la risoluzione del rapporto di lavoro in forma scritta, a pena di assoluta nullità ed inefficacia, come tale rilevabile d’ufficio, e nell’opposizione allo stato passivo erano state chiaramente esplicitate la data d’inizio e fine della prestazione, coincidente quest’ultima con la data di dichiarazione del fallimento, proprio per far valere i diritti patrimoniali che le lavoratrici avevano già esplicitamente avanzato con la domanda di ammissione al passivo.

In ogni caso, continuano le ricorrenti, risulta agli atti, non presa in esame dal Giudice d’appello, la lettera del Curatore del 6/11/1997, diretta alle odierne ricorrenti, di risoluzione del rapporto di lavoro, con incarico al nuovo C.T.U. rag. B., di ricalcolare il trattamento di fine rapporto con riferimento alla data di estinzione del rapporto fissata al 21/11/1997, e la Curatela ha incluso nella procedura di licenziamento collettivo e di mobilità le ricorrenti, che vi sono state ammesse, riscuotendo il relativo assegno, come comprovato dalla fotocopia versata in atti.

Di contro, nessuna valenza probatoria può riconoscersi al libro paga, “manipolato” dal datore di lavoro, come provato dalla mancata comunicazione all’ufficio di collocamento e dalla mancata restituzione del libretto di lavoro.

Secondo le ricorrenti, la Corte territoriale ribalta e stravolge le regole dell’onere probatorio; inconferente è il riferimento alla visita della Guardia di Finanza e dell’Ispettorato del Lavoro, trattandosi di documenti prodotti dall’Inps per asseverare la sua domanda di dichiarazione del fallimento, e dunque di atti di parte, che la corte territoriale ha acquisito d’ufficio al processo, tacendo sugli atti che hanno sicura valenza probatoria, quali: la relazione dell’Ispettorato del lavoro, quella della Curatela, quella del Giudice delegato, l’assenso dato dal Tribunale con il suo provvedimento camerale, quello del c.t.u., documenti tutti che la corte palermitana conosceva, sia perchè prodotti dal Curatore nel giudizio di primo grado all’udienza del 18 gennaio 1999 sia perchè depositati nel fascicolo delle parti ricorrenti.

La Corte non ha preso altresì in esame la lettera 6 novembre 1997, con cui il curatore comunicava singolarmente alle odierne ricorrenti di avere già avviato la procedura di mobilità ai sensi della L. n. 223 del 1991, e che a far data dal 21 novembre 1997 sarebbe cessato il rapporto intrattenuto con la società; il verbale stilato il 20 novembre 1997 presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro ed infine la prova scritta assai rilevante, costituita dall’assegno non trasferibile relativo al pagamento dell’indennità di mobilità riconosciuta dall’Inps, che da conto dell’esistenza del rapporto alla data del fallimento, così come accertato dalla Curatela, dal Tribunale fallimentare e quindi ratificato dall’UPLMO con il verbale del 20 novembre 1997 in atti. La Corte territoriale ha altresì male interpretato le risultanze testimoniali, e le asserzioni relative costituiscono “autentiche abnormità”, tali da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, senza nesso di coerenza tra le varie ragioni, solo apparenti, della motivazione e con attribuzione agli elementi emersi in sede di prova testimoniale, di un significato fuori dal senso comune ed inconciliabile con il suo effettivo contenuto.

1.2.- Con il secondo motivo, le ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 112, 115 e 345 c.p.c., avendo la Corte territoriale utilizzato documentazione autonomamente acquisita al processo d’appello in forza dell’ordinanza depositata il 31 marzo 2001, ignorando la documentazione prodotta dalle ricorrenti; in appello, la Curatela era rimasta contumace e non aveva depositato neppure il suo fascicolo di primo grado; la Corte ha acquisito documentazione non soltanto estranea al giudizio di opposizione allo stato passivo, ma persino formata nella sua fase di impugnazione e nella contumacia della Curatela, e per di più i documenti non solo appartengono al fascicolo fallimentare, ma sono stati prodotti dal creditore Inps in sede di richiesta di dichiarazione di fallimento; la Corte palermitana ha quindi posto a base della decisione un fatto costitutivo della pretesa di parte convenuta contumace, diverso rispetto a quello allegato e provato dalla stessa Curatela, ed inoltre ha interferito nel potere dispositivo delle parti, colmando d’ufficio una carenza probatoria che, essendo diretta ad invalidare la pretesa delle ricorrenti, integrava una vera e propria eccezione sostanziale. In secondo luogo e subordinatamente, la Corte palermitana si è avvalsa di prove non ricercate dalla Curatela ma dal creditore Inps, che, a seguito di un più approfondito esame eseguito dagli organi ispettivi dell’UPLMO, avevano indotto la Curatela prima e poi il Giudice delegato ed il Tribunale fallimentare a ribaltare il proprio convincimento in ordine alla durata del rapporto di lavoro dipendente della società, successiva alla dichiarazione di fallimento, ossia alla data del licenziamento collettivo operato della Curatela con la sua lettera del 6 novembre 1997.

1.3.- Con il terzo motivo, le ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 93 c.p.c., per non avere la Corte territoriale accolto il motivo di gravame relativo alla condanna della Curatela alle spese del giudizio di primo grado, nè di quelle di secondo grado.

2.1.- Le censure di violazione di legge e di vizio di motivazione fatte valere nel primo motivo sono infondate.

Con la prima censura, le ricorrenti addebitano alla Corte palermitana di non avere rilevato che, trattandosi di rapporti di lavoro assistiti da stabilità, il recesso andava intimato in forma scritta, a pena di nullità ed inefficacia, L. n. 604 del 1966, ex art. 2 e L. n. 300 del 1970, art. 18, nullità che il Giudice del merito avrebbe dovuto rilevare d’ufficio, avendo le ricorrenti in sede di opposizione allo stato passivo chiaramente esplicitato la data di inizio e fine della prestazione ed evidenziato sia nella domanda di ammissione al passivo, che nell’opposizione e nell’atto di appello, che la risoluzione del rapporto non era mai avvenuta in epoca anteriore al fallimento e mai adottata dal datore di lavoro nelle forme di legge.

In merito, è agevole rilevare che le ricorrenti in opposizione hanno fatto valere gli ulteriori periodi di prestazione lavorativa (per la C. e B., dall’aprile 1993, per la Co., dal gennaio 1993), sino al fallimento della società, quale titolo dei crediti retributivi ulteriori rispetto a quelli già ammessi al passivo: a fronte di dette deduzioni, costituisce fatto nuovo e diverso la prospettazione dell’intimazione del licenziamento illegittimo, nè si vede come la Corte territoriale avrebbe potuto rilevare d’ufficio la nullità del fatto mai dedotto; in ogni caso, ove si potesse ritenere la stessa effettuata nella formulazione, già di per sè generica, che le odierne ricorrenti hanno addotto a p. 4 del ricorso, si dovrebbe ritenere il difetto di autosufficienza del ricorso sul punto, non avendo le ricorrenti specificamente riportato le parti degli atti indicati ove le stesse avrebbero dedotto il fatto in oggetto.

Quanto alla restante parte del motivo, va rilevato che non è riscontrabile la dedotta violazione dell’onere della prova, atteso che la Corte territoriale non ha addossato alle appellanti la prova della percezione delle retribuzioni, ma ha ritenuto che le stesse, onerate della prova della protrazione del rapporto di lavoro, non avessero fornito elementi positivi in tal senso, non risultando,tra gli altri, la percezione sia pure ridotta di emolumenti.

La Corte ha tenuto presente la lettera del Curatore del 6/11/1997,attribuendole valenza meramente cautelativa, e nel resto, quanto alle censure di vizio di motivazione avanzate dalle ricorrenti nel primo motivo, vale il richiamo al principio secondo il quale il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione si configura solo quando dal ragionamento del Giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni addotte, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione,nè tali vizi consistono nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal Giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al primo il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, mentre alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal Giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (così Cass. 18119/08,23929/07, 15489/07, 16459/04, tra le tante). Dal principio sopra esposto consegue che non è sindacabile per vizio di motivazione la sentenza di merito che abbia adeguatamente e logicamente valorizzato le circostanze ritenute decisive e gli elementi necessari per chiarire e sorreggere la ratio decidendi (così le pronunce 20911/05 e 10330/03): alla stregua di detti principi, deve concludersi nel senso che le censure delle ricorrenti sono inammissibilmente intese a prospettare una valutazione diversa delle prove da quella offerta motivatamente dalla Corte territoriale e, quanto alla prova testimoniale, a far valere la radicale confusione tra fatti propri del teste e qualificazioni giudiziali, l’incoerenza tra le varie ragioni addotte, peraltro apparenti, l’attribuzione di significati al di fuori del senso comune: a riguardo, è agevole rilevare che le ricorrenti tentano di far valere la totale incongruenza della decisione sul piano della ratio decidendi, mentre le censure addotte riguardano la valutazione offerta dalla Corte territoriale, le specifiche e congruenti argomentazioni fatte valere, che come tali non possono essere riesaminate in sede di legittimità.

2.2.- Il secondo motivo è infondato, per quanto di seguito esposto.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il Giudice d’appello, nel caso di contumacia di una parte costituita in primo grado, non può utilizzare, ai fini della decisione, documenti inseriti nel fascicolo di parte del contumace, restando irrilevante che tale fascicolo non sia stato ritirato così le pronunce 4723/06, 11308/93); tale principio andrebbe raccordato con l’orientamento secondo il quale il giudice dell’opposizione allo stato passivo può acquisire il fascicolo fallimentare e da esso desumere elementi o argomenti di prova, senza che tale facoltà possa sostituire l’onere della prova che incombe alla parte (così Cass. 10118/06, 28302/05), ma in ogni caso la censura delle ricorrenti, anche ove fondata in relazione ai documenti oggetto dell’acquisizione al processo in forza dell’ordinanza del 31/3/2001 e che non erano contenuti nel fascicolo delle appellanti, quali uniche parti costituite, non è idonea a condurre alla cassazione della pronuncia impugnata, atteso che la Corte territoriale a fondamento della decisione ha posto le prove documentali e, con autonoma ratio decidendi, la prova testimoniale, le cui risultanze sono state autonomamente valutate e ritenute inidonee a fornire la prova delle deduzioni delle appellanti.

2.3. Il terzo motivo, relativo alle spese, è assorbito.

Conclusivamente, il ricorso va respinto. Nulla sulle spese, non essendosi costituita la Curatela.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2011

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