Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11054 del 27/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/04/2021, (ud. 29/01/2021, dep. 27/04/2021), n.11054

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23069/2014 R.G. proposto da:

Due s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso,

dall’Avv. Carlo Amato e dall’Avv. Giuseppe Marini, elettivamente

domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, Via di Villa

Sacchetti n. 9.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12,

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Veneto, n. 254/29/2014, depositata l’11 febbraio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 gennaio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso (n. 124/9/2012), che aveva accolto il ricorso presentato dalla società Due s.r.l. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno 2006, ai fini Ires ed Irap, in relazione a tre riprese fiscali. In particolare, il giudice di appello confermava le riprese di cui ai punti A e C dell’avviso di accertamento. Quanto alla cessione delle partecipazioni possedute dalla società contribuente in Fornace Dosson, la Commissione regionale ha ritenuto che legittimamente l’ufficio ha ripreso a tassazione, ai fini della determinazione della plusvalenza, la parte della stessa costituita dal valore dell’acquisto del diritto di usufrutto sulle 3000 azioni già detenute in nuda proprietà (Euro 102.375,00), avvenuto il (OMISSIS). Era, dunque, carente il presupposto della Pex (participation exemption) di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, costituito dall’ininterrotto possesso delle azioni o delle quote di partecipazioni in società dal primo giorno del 120 mese (180 mese per la normativa vigente nel 2006) precedente quello dell’avvenuta cessione. Poichè la cessione delle partecipazioni era avvenuta con atto del 29 dicembre 2006, quindi a distanza di soli due mesi dall’acquisto dell’usufrutto delle 3000 azioni, era inapplicabile il regime di esenzione al 91%, sicchè la plusvalenza risultava a tutti gli effetti imponibile fiscalmente. Il riferimento fatto dall’Ufficio al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, con ripresa a tassazione dell’intero importo del costo di acquisto del diritto di usufrutto (Euro 1.137.500,00), che era servito solo a rafforzare la motivazione della ripresa fiscale (Euro 102.375,00), era dunque inutile e pleonastico. Quanto, poi, al mancato assoggettamento ad Irap delle plusvalenze da alienazioni di partecipazioni (con ripresa a tassazione della somma di Euro 1.710.793,35), il giudice di appello evidenziava che proprio l’oggetto sociale faceva ritenere che la cessione di partecipazioni costituisse attività ordinaria della società, sicchè l’operazione, lungi da potersi classificare come operazione straordinaria, e quindi esente dall’Irap, costituiva invece espressione della ordinaria attività della contribuente, ed era dunque assoggettabile ad Irap. Le questioni preliminari sollevate in primo grado dalla contribuente, che erano state assorbite da parte del giudice di prime cure, dovevano intendersi come abbandonate perchè non riproposte nel giudizio di appello da parte della contribuente.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società, depositando anche memoria scritta.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 86-87 Tuir”, in quanto il giudice di appello non avrebbe tenuto conto della complessiva dinamica dell’operazione finanziaria. La vendita al gruppo Stabila s.p.a di n. 15.000 azioni di Fornace di Dosson s.p.a, al prezzo complessivo di Euro 16.250.000,00 ha comportato una plusvalenza pari ad Euro 13.062.314,99, sicchè la contribuente ha dedotto dal prezzo di vendita il costo delle azioni possedute pari ad Euro 3.187.685,01, determinando la plusvalenza, quale frutto della semplice differenza tra i due valori suddetti. Nel costo delle azioni possedute è stato ricompreso anche il costo di acquisizione del diritto d’usufrutto sulla parte di azioni per le quali la società aveva solo la nuda proprietà. Successivamente, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, “ricorrendone i requisiti”, la società ha determinato la quota di plusvalenza esente, pari al 91%, assoggettando l’imposizione la quota residua, pari ad Euro 1.175.608,35, ossia il 9% della plusvalenza di Euro 13.062.314,99, somma su cui pagare le imposte (con esclusione del 91%). L’Agenzia delle entrate, però, ha determinato le plusvalenze sulla base del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, il quale prevede che “in deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89”. Non è stato considerato, quindi, ai fini della determinazione della plusvalenza, l’importo versato per l’acquisto dei diritti d’usufrutto, giungendo così alla determinazione di una maggiore plusvalenza imponibile. Tuttavia, secondo la ricorrente, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, attiene alle norme generali sui componenti del reddito di impresa, ma non è in alcun modo riferibile alla diversa ipotesi delle plusvalenze. In pratica, la fattispecie richiamata dalla norma suddetta è quella del soggetto contribuente che acquista un “diritto” (dividendo) e da questo tragga un “reddito”, che risulterà esente; mentre nel caso di specie la parte contribuente ha acquisito sì un diritto (quello di usufrutto), ma all’unico scopo di fonderlo con la nuda proprietà delle azioni già possedute, e ciò che è stato oggetto di ripresa non è un “reddito” (utile), ma la determinazione della “plusvalenza”. La plusvalenza, infatti, si computa come differenza tra il valore di vendita ed il costo del bene ceduto. La plusvalenza, quindi, è stata realizzata mediante la cessione a titolo oneroso di un bene (non di un diritto) ed è costituita dalla differenza fra il corrispettivo conseguito ed il costo del bene stesso sicchè è corretto l’inserimento tra i costi della immobilizzazione finanziaria relativa all’acquisto del diritto di usufrutto, necessario per consentire il pieno uso del bene. Sicchè il giudice di appello avrebbe dovuto tenere conto, ai fini della determinazione della plusvalenza, del costo di acquisto del diritto di usufrutto necessario, appunto, per poter cedere poi la piena proprietà della partecipazione.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 4, comma 5, e art. 19, nonchè dell’art. 87 Tuir, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice di appello erroneamente ha ritenuto che la cessione delle azioni di Fornace Dosson s.p.a. e di quelle di Elefant S.A. (cfr. secondo rilievo dell’avviso, non oggetto di impugnazione incidentale della Agenzia in sede di legittimità) costituisse una operazione ordinaria, quindi soggetto ad Irap, mentre si trattava di proventi straordinari, non assoggettabile all’Irap.

Per la ricorrente, la cessione di partecipazione era in realtà un’attività straordinaria. La società, dunque, sarebbe “industriale” sicchè la cessione di partecipazioni non poteva essere configurata come plusvalenza di “beni strumentali” che ordinariamente partecipano al processo produttivo. Le partecipazioni, infatti, non sono soggette ad ammortamento, nè sono beni strumentali. Inoltre, l’attività di cui all’oggetto sociale, ivi astrattamente prevista, non era quella concretamente esercitata nel periodo d’imposta considerato. Per la contribuente, poi, gli atti da cui derivano le plusvalenze sono cessioni di partecipazioni iscritte fra le “immobilizzazioni finanziarie”, ossia nella sezione BIII dello stato patrimoniale attivo di cui all’art. 2424 c.c. (“Immobilizzazioni finanziarie, con separata indicazione, per ciascuna voce dei crediti, degli importi esigibili entro l’esercizio successivo”). Pertanto, l’ufficio avrebbe dovuto contestare alla contribuente la presentazione stessa della dichiarazione, posto che nel quadro IQ la società aveva indicato un codice identificativo “1”, ed aveva compilato la sezione I, imprese industriali e commerciali, e non ad esempio la sezione II, banche e altri soggetti finanziari. Fino al 2007, infatti, le banche e gli altri enti e società finanziarie determinavano la base imponibile Irap quale differenza tra i componenti positivi del conto economico (interessi attivi e proventi assimilati, proventi da quote di partecipazioni a fondi comuni; commissioni attive; profitti da operazioni finanziarie; altri proventi di gestione) e componenti negativi. Tanto è vero che i verificatori hanno dichiarato imponibile Irap l’importo di Euro 1.710.793,35, corrispondente alla quota della plusvalenza già imponibile Ires ai sensi del disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86 (9% del totale), ma non hanno ritenuto di inserire tra i componenti negativi gli interessi finanziari e le spese bancarie sostenute nell’esercizio.

3.Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione degli artt. 100-323 c.p.c., e dell’art. 343 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il ricorso della contribuente è stato accolto dal giudice di prime cure nel merito, con assorbimento di tutte le questioni preliminari. A fronte dell’appello presentato dall’Agenzia delle entrate, la società ha presentato controdeduzioni 10 giorni prima dell’udienza, nelle quali ha espressamente riproposto tutte le questioni preliminari ritenute assorbite dal primo giudice. Il giudice di appello, però, ha ritenuto che le questioni preliminari sollevate in primo grado, in ordine alle quali la Commissione provinciale aveva affermato “superata ogni altra eccezione”, si intendevano abbandonate “perchè non riproposte in questo grado”. In realtà, secondo la ricorrente il tenore della comparsa di costruzione d’appello della società non poteva lasciare dubbio alcuno circa la volontà di questa di non far “cadere” i motivi preliminari del ricorso, già esposti dinanzi alla Commissione tributaria provinciale.

3.1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

3.2. Invero, la società ha depositato memoria scritta, con cui ha evidenziato di avere aderito alla “definizione agevolata” di cui al D.L. n. 148 del 2017, art. 1, convertito in L. n. 172 del 2017 (“rottamazione bis”), definendo i carichi affidati all’Agenzia delle entrate-Riscossione, afferenti l’anno 2006, ossia il carico iscritto a ruolo derivante dall’avviso di accertamento n. (OMISSIS), oggetto del ricorso per cassazione.

3.3. In particolare, la società ha prodotto: la comunicazione delle somme dovute come indicate dall’Agenzia delle entrate con comunicazione in data 14 giugno 2018 (debito da pagare Euro 130.945,31); la quietanza di pagamento della prima rata; la comunicazione da parte dell’Agenzia delle entrate del differimento automatico delle scadenze di pagamento delle somme ancora dovute a titolo di definizione agevolata, in data 7 giugno 2019, con indicazione delle 10 rate da pagare a decorrere dal 31 luglio 2019 sino al 30 novembre 2023, per l’importo complessivo di Euro 78.774,29.

3.4. La memoria, con l’allegata documentazione, risulta notificata da parte del difensore della società all’Agenzia delle entrate in data 19 gennaio 2021 a mezzo pec.

4. La società, con la memoria, ha chiesto espressamente di dichiararsi “la cessata materia del contendere a spese compensate”.

5. Deve, dunque, applicarsi il principio per cui, a norma dell’art. 390 c.p.c., u.c., l’atto di rinuncia al ricorso per cassazione deve essere notificato alle parti costituite o comunicato agli avvocati delle stesse, che vi appongono il visto; ne consegue che, in difetto di tali requisiti, l’atto di rinuncia non è idoneo a determinare l’estinzione del processo, ma, poichè è indicativo de venir meno dell’interesse al ricorso, ne determina comunque l’inammissibilità (Cass., sez. un., 18 febbraio 2010, n. 653).

Anche nel caso in esame, è la stessa società ricorrente a manifestare, con la richiesta di dichiarazione della cessazione della materia del contendere, il proprio sopravvenuto difetto di interesse al ricorso.

6. Le spese del giudizio vanno compensate interamente tra le parti, tenendo conto dell’adesione della società alla definizione agevolata.

7. Nell’ipotesi di causa di inammissibilità sopravvenuta alla proposizione del ricorso per cassazione non sussistono i presupposti per imporre al ricorrente il pagamento del cd. “doppio contributo unificato” – fattispecie in tema di rinuncia al ricorso da parte del contribuente per adesione alla definizione agevolata di cui al D.L. n. 193 del 2016, art. 6, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 225 del 2016 – (Cass., sez. 5, 7 dicembre 2018, n. 31732).

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2021

 

 

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