Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11053 del 27/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/04/2021, (ud. 29/01/2021, dep. 27/04/2021), n.11053

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6703/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

Fedrigoni s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

incorporante la Cartiere Miliani Fabriano s.p.a., rappresentata e

difesa, giusta procura in calce al controricorso, dall’Avv. Daniele

Raffaelli, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv.

Adriana Romoli, in Roma, via Ildebrando Goiran n. 23;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale delle

Marche, n. 1/3/2013, depositata il 22 gennaio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 gennaio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale delle Marche accoglieva l’appello proposto dalla società Cartiere Miliani Fabriano s.p.a. (ora incorporata nella Fedrigoni s.p.a.) avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Ancona (n. 220/3/07), che aveva rigettato i ricorsi presentati dalla società contro l’avviso di accertamento, per l’anno 2000, ai fini Irpeg ed Irap. In particolare, per quel che ancora qui rileva, la Commissione regionale riteneva illegittima la ripresa a tassazione con riferimento alla mancata imputazione del “valore normale” dei fitti attivi dell’immobile di (OMISSIS). L’Agenzia delle entrate, infatti, aveva ritenuto che vi fosse una eccessiva differenza tra l’importo dei canoni di leasing pagati dalla società contribuente e l’importo dei canoni di locazione dell’immobile a terzi, di molto inferiore ai primi. Il giudice di appello, invece, ha rilevato che le perdite di esercizio relative agli anni precedenti non consentivano la configurazione di un eventuale risparmio di imposta in favore della contribuente, essendo invece probabile che “siffatti rapporti tra le due società abbiano cagionato un maggiore prelievo in capo alla Siate s.r.l.”, società controllata dalla contribuente e conduttrice dell’immobile.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resiste con controricorso la contribuente che deposita memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, comma 3, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la contribuente, società cartiere Fabriano Miliani s.p.a (ora Fedrigoni s.p.a.), ha corrisposto alla Locat s.p.a di Milano un canone di leasing mensile pari a Lire 22.928.000, per l’anno 2002, con un costo annuo di Lire 260.319.792. La contribuente ha, poi, contabilizzato canoni attivi di locazione non finanziaria, incassati nell’anno 2000 dalla società controllata Siate s.r.l. per l’uso del medesimo stabilimento, per la somma annua di Lire 62.178.900. Pertanto, secondo la ricorrente del tutto legittimamente l’Ufficio finanziario ha rideterminato il corrispettivo della locazione, in base al criterio del valore normale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Invero, per la giurisprudenza di legittimità, nella valutazione ai fini fiscali delle manovre sul trasferimento dei prezzi tra società facenti parte di uno stesso gruppo ed aventi tutte sedi in Italia (“transfer pricing” domestico), va applicato il principio, avente valore generale e dunque non circoscritto ai soli rapporti internazionali di controllo, stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, che non ha portata contabile e che impone il riferimento al valore normale di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente. Si tratterebbe, dunque, di una clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria. Inoltre, secondo la Commissione regionale l’abnorme discordanza tra i due valori dei costi, mal si concilia con una scelta “economica”, da parte dell’imprenditore, essendo i fitti attivi richiesti alla società controllata palesemente inadeguati rispetto ai costi sostenuti, con conseguente indebito trasferimento di quote di utili dalla contribuente alla propria controllata Siate s.r.l.. Per la ricorrente, poi, vi sarebbe stato un erroneo richiamo alla libertà di iniziativa economica privata ed alla mera probabilità di assenza di intenti elusivi, addossando per di più erroneamente all’ufficio l’onere della prova dell’elusione.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Anzitutto, si rileva che si verte in una ipotesi di transfer price interno, cui non è applicabile la disciplina della transfer price internazionale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7. Pertanto, è erroneo il rimando compiuto dalla Agenzia ricorrente alla disciplina del transfer pricing internazionale, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110 (all’epoca dei fatti il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5), che richiamava il medesimo D.P.R., art. 9, in tema di “valore normale”.

1.3. Invero, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7 (prima D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5) dispone che “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società, che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione di applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito”. L’art. 110, comma 2, prevede che “per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi…si applicano…le disposizioni dell’art. 9”.

Il medesimo D.P.R., art. 9, quindi, dispone che “per valore normale…si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti…Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”.

1.4. Per questa Corte inizialmente i due ambiti, interno ed internazionale, erano del tutto impermeabili tra loro. Si è affermato, dunque, che il criterio del “valore normale”, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, comma 3 (nel testo anteriore alla riforma del 2004), non è utilizzabile per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo tutte aventi sede in Italia: sia perchè quel criterio è dettato dalla legge solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera, sia perchè il suddetto criterio, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli “sconti d’uso”, presuppone che la cessione sia avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2012, n. 23551).

1.5. Successivamente si è, invece, ritenuto che le disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, si applicassero anche al transfer price interno; sicchè nella valutazione a fini fiscali delle manovre sul trasferimento dei prezzi tra società facenti parte di uno stesso gruppo ed aventi tutte sede in Italia (“transfer pricing” domestico), va applicato il principio, avente valore generale e dunque non circoscritto ai soli rapporti internazionali di controllo, stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, che non ha mera portata contabile e che impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente; si tratta, invero, di clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente conseguire vantaggi fiscali – come lo spostamento dell’imponibile presso le imprese associate che, nel territorio, godano di esenzioni o minor tassazione – mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (Cass., sez. 5, 24 luglio 2013, n. 17955, in una fattispecie di ricarico minimo, al 4% invece che al 10,09%, non altrimenti giustificato, nelle cessioni dalla controllante alla controllata, che godeva di agevolazioni per il territorio del Mezzogiorno; Cass., sez. 5, 13 giugno 2014, n. 13475, con indeducibilità di costi superiori a quelli di mercato per prezzi pagati ad una controllata, così trasferendo ad essa reddito imponibile). Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, è stato, quindi, inteso come “clausola anitelusiva” che trova radici nel diritto unionale e nel principio dell’abuso del diritto. Vale, comunque, il principio per cui, in presenza di un comportamento antieconomico è legittimo l’accertamento del fisco ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, occorrendo anche valutare la sussistenza di “valide ragioni economiche”, funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza, in relazione al profilo della elusione.

1.6. Il D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 2, ha, quindi, dettato una norma di interpretazione autentica, in base alla quale “la disposizione di cui al T.U.I.R., art. 110, comma 7, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato”.

1.7.Per questa Corte, dunque, le transazioni tra società infragruppo residenti nel territorio nazionale effettuate ad un prezzo diverso dal “valore normale” indicato dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, non sono indice, di per sè, di una condotta elusiva, rappresentando l’eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato solo un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della valutazione d elusività dell’operazione, senza che possa applicarsi, in via analogica, la disciplina del “transfer pricing” internazionale recata dal citato D.P.R., art. 110, comma 7, (nel testo vigente “ratione temporis”), ostandovi il disposto – di interpretazione autentica – di cui al D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 2, donde l’estraneità all’ordinamento tributario della nozione di “transfer pricing” domestico (Cass., sez. 5, 25 giugno 2019, n. 16948; con prezzo praticato al di sotto di quello applicato ai terzi, con operazione antieconomica, produttiva di una perdita commerciale).

Si è sottolineato in questa decisione (Cass., sez. 5, 16948/2019) che si è ormai esclusa la natura antielusiva del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7 (Cass., sez. 5, 29 gennaio 2019, n. 2387; Cass., sez. 5, 16 gennaio 2019, n. 898), in quanto finalizzata ad evitare lo spostamento di imponibile fiscale da una società ad un’altra del medesimo gruppo, sita in un Paese a fiscalità più favorevole. l’Amministrazione finanziaria ha, dunque, l’onere di provare l’esistenza di transazioni economiche, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, ma non anche quello di dimostrare la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, perchè la normativa di riferimento non è una disciplina antielusiva in senso proprio, mentre spetta al contribuente provare che la transazione è avvenuta in conformità ai valori di mercato normali (Cass., sez. 5, 16 gennaio 2019, n. 898; Cass., sez. 5, 15 aprile 2016, n. 7493; Cass., sez. 5, 30 giugno 2016, n. 13387; Cass., sez. 5, 15 novembre 2017, n. 27018; Cass., sez. 5, 14 novembre 2018, n. 29306; Cass., sez. 5, 24 luglio 2015, n. 15642).

Occorre soffermarsi, quindi, in via esclusiva sul principio di libera concorrenza, sicchè la valutazione del valore normale attiene alla “sostanza economica” dell’operazione che va posta a confronto con analoghe operazioni stipulate in condizioni di libero mercato tra soggetti “indipendenti”.

Si è però valorizzata, in tema di trasfer price interno (Cass., sez. 5, 16948/2019), la valutazione sulla “antieconomicità” della condotta, in presenza della quale l’Amministrazione finanziaria può procedere ad accertamento analitico-induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d; ciò in base al principio per cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti. In tal caso, lo scostamento dal “valore normale” può assumere rilievo quale parametro meramente indiziario. Pertanto, l’operazione che si pone al di fuori dei prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare, in assenza di elementi contrari, l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.

1.8. Va, poi, evidenziato che la nozione di controllo societario non è quella di cui all’art. 2359 c.c., ma consiste nella capacità di una società di influenzare le strategie commerciali di un’altra, specie nel caso in cui le due società, entrambe a ristretta base partecipativa, siano composte dagli stessi soci (in tal senso anche circolare del Ministero delle finanze 22 settembre 1980, n. 32 per cui “il controllo deve essere esteso ad ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale desumibile dalle singole circostanze, quali, in particolare: a)vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall’altra impresa….d)membri comuni del consiglio di amministrazione; e)relazioni di famiglia tra le parti”; cfr. anche circolare 12 dicembre 1981, n. 42 del Ministero delle Finanze che fa riferimento alla “influenza di una impresa delle decisioni imprenditoriali dell’altra che va ben oltre i vincoli contrattuali od azionari sconfinando in considerazioni di fatto di carattere meramente economico…”, quindi al “potenziale o attuale potere di una parte di incidere sull’altrui volontà non in base al meccanismo del mercato ma in dipendenza degli interessi di una sola delle parti contrattuali”).

Per questa Corte, infatti, il controllo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, alla luce delle specifiche finalità antielusive della disciplina fiscale del “transfer pricing”, non coincide con quello di cui all’art. 2359 c.c., che, difatti, non è espressamente richiamato, ma si estende ad ogni ipotesi d’influenza economica potenziale o attuale desumibile da singole circostanze, tra cui, ad esempio, la vendita esclusiva, da parte di un’impresa, dei prodotti dell’altra o l’impossibilità di funzionamento di un’impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell’altra (Cass., sez. 5, 22 aprile 2016, n. 8130).

1.9. Deve anche evidenziarsi che nell’ordinamento tributario trova riconoscimento l’interesse del gruppo. Se è vero, infatti, che la disciplina del gruppo si rinviene soltanto nel consolidato fiscale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 117 e ss., tuttavia il diritto tributario è di “secondo grado”, anche per il principio di derivazione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83, sicchè deve essere utilizzato, ai fini della valutazione dell’interesse unitario del gruppo, per ogni operazione, il disposto dell’art. 2697 c.c.. La valutazione dell’interesse del gruppo non può prescindere, dunque, dalla salvaguardia della redditività e del valore delle singole società che ne fanno parte. L’interesse delle singole società del gruppo può, dunque, essere legittimamente sacrificato per perseguire l’interesse superiore del gruppo, ma con l’attribuzione alle controllate dei vantaggi compensativi, ai sensi dell’art. 2497 c.c., e dell’art. 2634 c.c., comma 3. Nel caso in cui l’atto sia in via immediata pregiudizievole alla singola società del gruppo, spetta a chi invoca l’interesse di gruppo a giustificazione della condotta di tale società, dimostrare che tale pregiudizio è compensato dall’interesse unitario del gruppo (Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538). Al fine di verificare se un’operazione abbia comportato o meno per la società che l’ha posta in essere un ingiustificato depauperamento occorre tener conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato ed indiretto.

1.10. Pertanto, si è affermato (Cass., sez. 5, 25 giugno 2019, n. 16948) che, in relazione alle operazioni imprenditoriali di maggiore complessità o inserite in una strategia più generale, è ben possibile che, proprio nella logica del gruppo, siano compiuti da parte delle società dello stesso atti non onerosi, a beneficio delle consorelle o della controllante; sicchè, la contestazione della Agenzia delle entrate non può tradursi in una mera “non condivisibilità della scelta”, perchè apparentemente lontana dai canoni di mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione, sulla base di elementi oggettivi, era inattendibile. Pertanto, si è aggiunto che “non è del tutto privo di rilievo il contesto di gruppo in cui l’operazione si inserisce, e ciò anche al di là della possibilità di fruire del consolidato fiscale”. In tal caso, si è confermata la pronuncia del giudice di merito che, con apprezzamento di fatto, ha escluso che una cessione di azienda avesse carattere antieconomico, in quanto l’operazione contestata si collocava “all’interno di una strategia economica diretta a raggiungere un risultato nell’interesse di tutte le società del gruppo”. Nè tale conclusione era scalfita dalla censura della Agenza delle entrate che aveva ravvisato la diseconomia della condotta nella sola divergenza dal valore normale della transazione, in quanto, proprio in linea con la configurazione di un interesse di gruppo, tale contestazione seppure giustificata, non poteva superare la valutazione del giudice di appello.

1.11. La Commissione regionale, con valutazione di fatto condivisibile, seppure sintetica, ha ritenuto insussistenti gli elementi indiziari di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d. In particolare, il giudice di appello ha rilevato che la sussistenza di perdite della società contribuente per gli anni precedenti consentiva alla stessa il loro riporto negli anni successivi, in misura tale che l’operazione contestata non avrebbe comportato alcun “risparmio di imposta” (” nel caso in questione, considerando le perdite di esercizio che hanno caratterizzato negli ultimi anni le Cartiere Miliani Fabriano s.p.a. non si vede da dove provenga l’eventuale risparmio di imposta”).

Con altra valutazione, frutto anch’essa di congrui apprezzamenti di fatto, il giudice di appello ha evidenziato che, trattandosi di un medesimo gruppo (transfer price interno), il costo dei canoni di locazione non finanziaria era stato determinato proprio dal rapporto di controllo tra le due compagini societarie (” quando è invece probabile che siffatti rapporti tra le due società abbiano cagionato un maggiore prelievo in capo alla Siate s.r.l.”). Si è in presenza, dunque, di una congrua valutazione di merito, compiuta dal giudice di appello, con cui si è ritenuto sussistente un interesse del gruppo, che trascende quello delle singole società, improntato a scelte strategiche nell’ottica complessiva del gruppo, tale da giustificare il prezzo pattuito per il canone di locazione.

2. Le valutazioni di merito compiute dalla Commissione regionale sono state contestate dalla Agenzia delle entrate solo sotto il profilo della violazione di legge, ed in particolare del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, e dell’art. 2697 c.c..

2.1. Come si è visto, però, il richiamo al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, è erroneo, seguendo l’indirizzo giurisprudenziale dominante di questa Corte, sopra richiamato e, soprattutto, lo ius superveniens intervenuto con il D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 2, con efficacia retroattiva, trattandosi di interpretazione autentica del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110.

2.2. Nè miglior fortuna merita il richiamo all’art. 2697 c.c., in assenza di elementi indiziari di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d.

Infatti, i costi relativi ai canoni di leasing pagati dalla contribuente alla società concedente non costituiscono dati omogenei rispetto ai canoni di locazione dell’immobile versati alla contribuente dall’affittuaria del medesimo immobile.

3. L’Agenzia delle entrate quindi, non ha neppure proposto censure alla motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella stesura vigente dopo le modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012. La sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 22 gennaio 2012, sicchè era possibile la censura della motivazione per l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti, ma non più per insufficiente, contraddittoria od omessa motivazione.

Peraltro, va sottolineato che entrambe le argomentazioni del giudice di appello sono condivisibili ed esaurienti: sia, in relazione alla insussistenza di un possibile risparmio di imposta, sia, in aggiunta, in ordine alla sussistenza di un concreto interesse di gruppo.

4. Inoltre, vi è effettivamente una differenza sostanziale tra i costi di leasing e quelli di locazione di immobile, anche per la materia fiscale, che non consente una sovrapposizione degli stessi senza considerare la diversa funzione che può assumere il contratto di leasing rispetto a quello di locazione. Di recente questa Corte ha fatto riferimento alla natura “sostanziale” del contratto di leasing (quale contratto di finanziamento), tanto che vengono prospettate due diverse modalità di appostazione dei costi dei canoni e del cespite oggetto del contratto.

4.1. Invero, per questa Corte (Cass., sez. 5, 26 maggio 2003, n. 8292, che richiama il principio contabile IAS 17, con contabilizzazione della operazione di leasing secondo i propri aspetti “sostanziali”; cfr. anche Cass., sez. 5, 29 novembre 2017, n. 28575, seppure in relazione alla società concedente beni in leasing, s.p.a., per l’anno 2004, ma tenendo presente la nuova L. n. 124 del 2017), pur in assenza di una espressa normativa che vi faccia riferimento, il ricorso sempre più diffuso al principio contabile n. 17 IAS, comporta la tendenza a contabilizzare l’operazione secondo i propri “aspetti sostanziali”, ove le norme, pur prevedendo un particolare sistema di tenuta dei costi, non vietino l’indicazione dei loro effetti economici. Per quanto attiene ai beni concessi in leasing finanziario, gli Ias indicano che, mentre la disciplina giuridica stabilisce che il locatario può non acquisire la proprietà del bene, la “realtà sostanziale” e “finanziaria” è tale che il locatario acquista i benefici economici derivanti dall’uso del bene per la maggior parte della sua vita utile in cambio dell’impegno a pagare un corrispettivo che è vicino al valore del bene ed ha i relativi costi finanziari. Pertanto, aggiunge la Corte, se tali operazioni non si riflettono nello stato patrimoniale della locataria, le risorse economiche e il livello degli impegni dell’impresa sono sottostimati, distorcendo così gli indici finanziari. Proprio per tale ragione, allora, i principi contabili internazionali considerano appropriata la rilevazione del bene nello stato patrimoniale del locatario, sia come attività, sia come impegno a pagare canoni futuri. All’inizio del leasing le attività e le passività per i canoni futuri devono essere rilevate con gli stessi valori. Pertanto, è conseguenza naturale dell’adozione di tale criterio (finanziario, contrapposto a quello legale) il diritto della locataria alla deduzione delle quote di ammortamento. Il criterio finanziario mira ad ottenere una rappresentazione più fedele della capacità economica e dello stato dell’impresa.

Si è, quindi, chiarito (Cass., n. 28575/2017) che l’evoluzione legislativa ha di fatto “normativizzato” il metodo finanziario, peraltro espressamente previsto dal principio contabile internazionale IAS 17, per la rilevazione contabile del contratto di leasing finanziario. Si aggiunge, quindi, che la differenza con il metodo “patrimoniale” è che, in quest’ultimo, l’operazione di leasing è considerata alla stregua di una locazione di beni, nella quale i canoni corrisposti dal locatario sono imputati al conto economico, mentre con il metodo “finanziario” l’operazione è considerata come un finanziamento per l’acquisto di un bene strumentale (Cass., sez. 5, n. 28575/2017 cit.).

4.2. Per questa Corte (Cass., sez. 1, 10 luglio 2019, n. 18543), sia pure in ambito fallimentare, si è inizialmente ritenuto, al fine di decidere se l’art. 72 quater L. Fall., relativo alla disciplina dei contratti pendenti in materia di leasing, fosse applicabile ai contratti di leasing già risolti al momento della dichiarazione di fallimento, che la novella di cui alla L. n. 124 del 2017, può essere utilizzata anche per le fattispecie anteriori, “ai fini della interpretazione sistematica, pure in assenza di una diretta applicabilità della stessa”, quindi prospettandosi una applicazione analogica, in assenza di una disciplina legislativa che regoli contratti di leasing pregressi.

Si è così ritenuto che l’art. 72 quater L. Fall., seppur dettato in relazione all’ipotesi in cui lo scioglimento del contratto di leasing deriva da una scelta del curatore e non dall’inadempimento dell’utilizzatore, è del tutto coerente con la fisionomia unitaria del leasing finanziario di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, dovendo ritenersi definitivamente superata la distinzione, di matrice giurisprudenziale, tra leasing di godimento e leasing traslativo (Cass., sez. 1, 30 settembre 2019, n. 24438).

4.3. Questa Corte, a sezioni unite, ha chiarito che la disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, non ha carattere retroattivo (Cass. sez. un., 28 gennaio 2021, n. 2061). Pertanto, l’applicazione della nuova legge è consentita, nei confronti di contratto di leasing finanziario concluso prima della sua entrata in vigore (e che sia sussumibile nella fattispecie delineata dal comma 136 dell’art. 1, della L. n. 124 del 2017), allorchè, ancora in corso di rapporto, non si siano ancora verificati i presupposti (legali o convenzionali) della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore; ossia non si sia verificato, prima dell’entrata in vigore di detta legge, il fatto generatore degli effetti giuridici derivanti dall’applicazione del diritto previgente. In motivazione, la Corte precisa che deve attribuirsi significato rilievo, come rimarcato dalla dottrina, alla “causa di finanziamento” che sostanzia (effettivamente, anche se non in modo del tutto assorbente) l’operazione commerciale di leasing.

4.4. In altro precedente, in realtà, si è ritenuto che la nuova normativa del 2005 (D.Lgs. n. 38 del 2005) non potesse avere efficacia retroattiva, in quanto i principi di contabilità internazionale di cui allo IAS 17, essendo stati recepiti nel nostro ordinamento solo con il D.Lgs. n. 38 del 2005, restando pertanto anche l’auspicio di applicazione anticipata espresso nella premessa del suddetto testo di origine comunitaria, necessariamente condizionato al suo formale recepimento nei nostro ordinamento (Cass., sez. 5, 16 settembre 2011, n. 18932).

4.5. La L. n. 224 del 2017, art. 1, prevede: “(comma, 136). Per locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui al testo unico, art. 106, di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo. (Comma 137). Costituisce grave inadempimento dell’utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria. (comma 138). In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonchè le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente. (comma 139). Ai fini di cui al comma 138, il concedente procede alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati. Quando non è possibile far riferimento ai predetti valori, procede alla vendita sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti di comune accordo nei venti giorni successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo nel predetto termine, da un perito indipendente scelto dal concedente in una rosa di almeno tre operatori esperti, previamente comunicati all’utilizzatore, che può esprimere la sua preferenza vincolante ai fini della nomina entro dieci giorni dal ricevimento della predetta comunicazione. Il perito è indipendente quando non è legato al concedente da rapporti di natura personale o di lavoro tali da compromettere l’indipendenza di giudizio. Nella procedura di vendita o ricollocazione il concedente si attiene a criteri di celerità, trasparenza e pubblicità, adottando modalità tali da consentire l’individuazione del migliore offerente possibile, con obbligo di informazione dell’utilizzatore”. 4.6.Per questa Corte (Cass., n. 28575 del 2017), quindi, in base al tenore della nuova norma, il contratto di locazione finanziaria è un vero e proprio contratto di “finanziamento”, in quanto la società di leasing acquista, in luogo del locatario, un bene che poi gli concede in godimento, inquadrabile quindi nella più ampia categoria delle operazioni di credito ed equiparabile ad un mutuo.

Si fa riferimento in motivazione anche alla risoluzione n. 69/E del 10 maggio 2004 della Agenzia delle entrate in base alla quale ” a seguito delle modifiche apportate all’art. 102, comma 7, appena richiamato, dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 103, lett. c, il bene concesso in leasing, seppur iscritto nell’attivo dello stato patrimoniale della società concedente (la quale risulta aver nella titolarità giuridica), è considerato alla stregua di capitale dato in prestito. Le relative quote di ammortamento sono infatti determinate, in ciascun esercizio, sulla base di un apposito piano, concordato dalle parti, in cui viene individuata la quota del capitale incorporata nei canoni periodici. Per la società di leasing, dunque, il processo di ammortamento segue criteri indipendenti dalla materialità e deperibilità dei beni concessi in locazione finanziaria risultando collegato, piuttosto, all’esborso finanziario sopportato e al credito vantato nei confronti dell’utilizzatore (quantificato nei canoni che quest’ultimo deve corrispondere, in forza del contratto stipulato, per ottenere il bene in godimento)”. Fermo restando, comunque, che “la deducibilità dei canoni pagati dal conduttore resta subordinata alla circostanza che lo stesso bene sia effettivamente suscettibile di un processo di ammortamento, al pari di un acquisto in proprietà”.

4.7. Le sezioni unite di questa Corte (Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, n. 2061) hanno evidenziato che nello stesso diritto vivente si coglie la natura dell’istituto, con una declinazione della causa in concreto e, quindi, dell’interesse del concedente di ottenere, nel caso di risoluzione contrattuale per inadempimento dell’utilizzatore, l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell’operazione. Viene, dunque, di nuovo richiamata la causa di finanziamento.

5. Nè l’Agenzia delle entrate ha fornito la prova, sia pure indiziaria, della sussistenza di una operazione elusiva o, comunque, “inattendibile”, per le ragioni sopra indicate.

Pertanto, non v’è stata violazione neppure dell’art. 2697 c.c., in ordine alle regole di ripartizione dell’onere della prova.

6. Le spese del giudizio di legittimità vanno interamente compensate tra le parti stante la novità e la complessità delle questioni trattate, oltre che per lo ius superveniens di cui al D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma, 2, essendo stato predisposto il ricorso per cassazione nel 2014.

7. Non opera a carico dell’Agenzia ricorrente il raddoppio del contributo unificato (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550; Cass., n. 889 del 2017).

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2021

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