Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11034 del 27/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/04/2021, (ud. 13/10/2020, dep. 27/04/2021), n.11034

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28004/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale 2c) dello Stato, con

domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– ricorrente –

contro

Avv. V.B., rappresentata da sè stessa, elettivamente

domiciliata presso il proprio studio, in Matera, via Passi, n. 63,

domicilio in Roma, p.zza Cavour, presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Basilicata n. 197/01/14, depositata il 3 aprile 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 ottobre

2020 dal Cons. Salvatore Leuzzi.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

Con riferimento all’anno d’imposta 2005, la contribuente, esercente l’attività di avvocato, veniva raggiunto da avviso di accertamento, con il quale in esito ad indagini bancarie il reddito professionale del predetto veniva rideterminato in Euro 73.850, ad onta di quello dichiarato di Euro 23.739.

Veniva successivamente emessa pedissequa cartella di pagamento.

Sia l’avviso che la cartella venivano impugnati dalla contribuente. La CTP di Materia riuniva i ricorsi e li accoglieva.

La CTR rigettava l’appello erariale.

L’Agenzia delle entrate affida il proprio ricorso per cassazione a quattro motivi.

Il contribuente resiste con controricorso e deposita memoria.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo di ricorso si contesta la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, nonchè D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, per avere la CTR trascurato di considerare che le movimentazioni bancarie sul conto intestato alla contribuente e la correlata operatività della presunzione di riconducibilità delle somme a compensi non dichiarati dalla contribuente medesima, avrebbero imposto quest’ultima di dimostrare l’estraneità degli importi al proprio reddito.

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 2697 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, ascrivendo alla CTR d’aver fatto malgoverno del riparto degli oneri probatori, valorizzando incongruamente dichiarazioni di autocertificazione di atto notorio.

Con il terzo motivo si censura la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, e al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, ancora una volta insistendo sul malgoverno da parte della CTR dei principi sull’onere della prova e sul relativo riparto.

Con il quarto motivo di ricorso si contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, per avere la CTR valorizzato autodichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà e imputato e trascurato di considerare le eccezioni sollevate dall’Agenzia in ordine alle operazioni bancarie controverse.

Vanno preliminarmente respinte le eccezioni formulate dalla contribuente nel proprio controricorso.

La prima eccezione lamenta l’inammissibilità del ricorso per omessa notificazione ad Agenzia riscossione Potenza Equitalia Sud.

In realtà, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito da tempo che “In tema di contenzioso tributario, a seguito dell’istituzione dell’Agenzia delle entrate, divenuta operativa dal 1 gennaio 2001, si è verificata una successione a titolo particolare della stessa nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, per effetto della quale deve ritenersi che la legittimazione “ad causam” e “ad processum” nei procedimenti introdotti successivamente alla predetta data spetti esclusivamente all’Agenzia; tale legittimazione costituisce infatti il riflesso, sul piano processuale, della separazione tra la titolarità dell’obbligazione tributaria, tuttora riservata allo Stato, e l’esercizio dei poteri statali in materia d’imposizione fiscale, il cui trasferimento all’Agenzia, previsto dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57 esula dallo schema del rapporto organico, non essendo l’Agenzia un organo dello Stato, sia pure dotato di personalità giuridica, ma un distinto soggetto di diritto. Ai sensi del D.Lgs. n. 300, art. 72 l’Agenzia ha facoltà di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, il quale, in assenza di una specifica disposizione normativa, dev’essere richiesto in riferimento ai singoli procedimenti – anche se non è necessaria una specifica procura -, non essendo a tal fine sufficiente l’eventuale conclusione di convenzioni a contenuto generale tra l’Agenzia e l’Avvocatura. L’assunzione in via esclusiva da parte dell’Agenzia della gestione del contenzioso nelle fasi di merito, già attribuita dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 ed 11 agli uffici periferici del Dipartimento delle entrate, comporta inoltre che, nei procedimenti introdotti anteriormente al 1 gennaio 2001, nei quali l’ufficio non abbia richiesto il patrocinio dell’Avvocatura, spetta all’Agenzia l’esercizio di tutti i poteri processuali, ivi compresi quelli di disposizione del diritto controverso e del rapporto processuale, con la conseguenza che la proposizione dell’appello da parte della sola Agenzia, senza esplicita menzione dell’ufficio periferico che era parte originaria, si traduce nell’estromissione di quest’ultimo. Per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11 la nuova realtà ordinamentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, consente invece di ritenere che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, e quella del ricorso possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato” (Cass. n. 3116 del 2006)

La seconda eccezione imputa al ricorso un deficit di autosufficienza che, invero, non si riscontra.

In effetti, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso. Nella specie, tuttavia, il ricorrente ha specificato il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, segnatamente lamentando la lacunosità delle giustificazioni addotte dal contribuente, l’inidoneità della documentazione offerta a supporto delle stesse, la mancanza di analiticità nella trama argomentativa della decisione d’appello.

La terza eccezione contesta la violazione del principio della c.d. “doppia conforme”.

In realtà, la disposizione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., in base alla quale non sono impugnabili, per omesso esame di fatti storici, le sentenze di secondo grado che confermano la decisione di primo grado (c.d. “doppia conforme”) presuppone che nei due gradi di merito le “questioni di fatto” siano state decise in base alle “stesse ragioni” (cfr. art. 348 ter cit., comma 4). Nel caso che occupa, l’Agenzia ha dedotto articolate censure in punto di violazione di legge, non un vizio di motivazione.

La quarta eccezione adombra l’illegittimità dell’avviso per mancanza di autorizzazione all’espletamento dell’indagine bancaria.

Essa non coglie nel segno, dovendosi riaffermare il principio già espresso da questa Corte (Cass. n. 4987 del 2003; Cass. n. 4001 del 2009; Cass. n. 13353 del 2018) secondo il quale “In tema di IVA, (ma lo stesso è a dirsi in tema di imposte dirette) la mancanza della autorizzazione dell’ispettore compartimentale (o, per la guardia di finanza, del comandante di zona) prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 7 (nonchè, per le imposte dirette, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7), ai fini della richiesta di acquisizione, dagli istituti di credito, di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente, non preclude l’utilizzabilità dei dati acquisiti, atteso che la detta autorizzazione attiene ai rapporti interni e che in materia tributaria non vige il principio (presente nel codice di procedura penale) della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita, salvi i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico”, precisandosi in Cass. n. 16874 del 2009 che l’illegittimità può essere dichiarata “soltanto nel caso in cui dette movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza dell’autorizzazione, e sempre che tale mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente”, nella specie semplicemente dedotto; a ciò aggiungasi che, secondo altro principio del pari affermato da questa Corte, “In materia tributaria, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento comporta, di per sè, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi (in cui non rientra quello in esame) in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio” (Cass. n. 27149 del 2011).

Palesemente infondata pure l’asserita temerarietà del giudizio, imperniata sulla dedotta incostituzionalità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32. In realtà, in tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti. Non v’è alcuna incostituzionalità nel senso imperscrutabilmente adombrato dalla controricorrente.

Le quattro censure sono suscettibili di trattazione unitaria, per intima connessione.

Le prime tre sono fondate e vanno accolte nei termini che seguono, mentre.

A fronte di esse la quarta censura va, per converso, preliminarmente disattesa, avendo la CTR apprezzato discrezionalmente l’elemento probatorio giustificativo rappresentato dalla documentazione di liquidazione delle polizze (OMISSIS), escludendo in ragione di essa incassi non dichiarati e ascrivendo alla stessa una portata giustificativa dell’operazione di afflusso sul conto corrente bancario ad appannaggio della controricorrente. Ciò detto, è ius receptum (Cass. n. 10480 del 2018) che: “In tema di accertamenti bancari, poichè il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione”.

In dettaglio – secondo questa giurisprudenza di legittimità – in materia di accertamenti bancari, fa capo al contribuente che vuole superare la presunzione legale posta dalle predette disposizioni a favore dell’erario che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici -, l’onere di fornire non una prova generica, ma una prova analitica (sul punto, v. Cass. n. 26111 del 2015 e la copiosa giurisprudenza ivi richiamata) idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010; Cass. n. 22179 del 2008; Cass. n. 26018 del 2014).

Questa Corte ha, dunque, ritenuto che debbano essere indicati e dimostrati dal contribuente sia la provenienza che la destinazione esatta dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi (cfr. Cass. n. 26692 del 2005; Cass. n. 20199 del 2010; Cass. n. 26173 del 2011; con riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte sui redditi v. Cass. n. 15217 del 2012; Cass. n. 1418 del 2013; Cass. n. 6595 del 2013; Cass. n. 20668 del 2014).

A fronte di un’imprescindibile analiticità d’approccio nella deduzione del mezzo di prova da parte del contribuente deve corrispondere una speculare indispensabile analiticità di riscontro da parte del giudice, il quale, da un lato, è tenuto ad operare una verifica rigorosa dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, e, dall’altro, è vincolato all’incombenza di dare espressamente conto in sentenza delle risultanze di quella verifica.

In questa cornice autocertificazioni e dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, secondo la giurisprudenza di legittimità, condivisa da questo Collegio, non hanno valore di prova nel sistema dell’accertamento giudiziario delle vicende fiscali: “L’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà che, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di efficacia in sede giurisdizionale, trova, con specifico riguardo al contenzioso tributario, ostacolo invalicabile nella previsione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, giacchè finirebbe per introdurre nel processo tributario – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo” (Cass. n. 6755 del 2007; Cass. n. 703 del 2007; Cass. n. 16348 del 2008; Cass. n. 6755 del 2010; Cass. n. 1663 del 2013; Cass. n. 32568 del 2019).

Nella fattispecie concreta, il giudice d’appello non ha fatto corretta applicazione di questi canoni giuridici in quanto, in primo luogo, ha valorizzato in modo dirimente il contenuto di mere dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, in secondo luogo, ha parallelamente omesso di compiere un’accurata e puntuale verifica della idoneità dimostrativa degli elementi offerti dalla contribuente a giustificazione dell’irrilevanza fiscale di ciascuna movimentazione. Sotto tale ultimo profilo, la CTR, dopo essersi soffermata soltanto sul versamento asseritamente correlato al riscatto di polizze vita presso la Compagnia (OMISSIS) Adriatico – che ha ritenuto sulla base del proprio libero convincimento suscettibile di provare per il relativo importo l’assenza di ricavi non dichiarati ed imponibili -, si è discostata dai suddetti criteri in tema di riparto dell’onere della prova approssimativamente ascrivendo gli altri prelevamenti a imprecisate “spese strettamente legate al consumo personale/professionale e della famiglia”, all’indefinito “acquisto di “materiale per l’ufficio professionale”, alle spese fiscali di una indeterminata causa civile iscritta a ruolo, a vaghe “spese di famiglia”. I primi tre motivi di ricorso vanno, in definitiva accolti; il quarto motivo va rigettato. Dall’accoglimento delle prime tre censure discende la cassazione della sentenza d’appello e la rimessione della causa per un nuovo esame alla CTR della Basilicata, in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata; rinvia per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del giudizio alla CTR territorialmente competente, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2021

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