Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11033 del 06/05/2010

Cassazione civile sez. I, 06/05/2010, (ud. 20/01/2010, dep. 06/05/2010), n.11033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

G.D.J., nella qualità di erede di S.A.

G., elettivamente domiciliata in Roma, via Crescenzio 20, presso

l’avv. Tralicci Gina, che la rappresenta e difende giusta procura in

atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Perugia in data 31 maggio

2007, n. 255/07 E.R., nella causa iscritta al n. 343/2006 R.G.;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20 gennaio 2010 dal relatore, cons. SCHIRO’ Stefano;

alla presenza del Pubblico ministero, in persona del sostituto

procuratore generale, dott. APICE Umberto, che nulla ha osservato.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE:

A) rilevato che è stata depositata in cancelleria relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti, con la quale – premesso che Con decreto del 31 maggio 2007 la Corte d’appello di Perugia ha rigettato la domanda di S.A.G., diretta ad ottenere la condanna del Ministero della giustizia al pagamento di una somma di danaro a titolo di equa riparazione del danno subito per la non ragionevole durata di un processo previdenziale iniziato nel mese di dicembre 1996 con il deposito del ricorso introduttivo innanzi alla Pretura di Roma e conclusosi con sentenza della Corte di Cassazione depositata in data 15 novembre 2005.

La Corte d’appello ha escluso che la durata del processo presupposto potesse ritenersi irragionevole. Il processo di riferimento doveva infatti ritenersi di complessità superiore (sia pure di poco) alla media, sicchè la durata fisiologica doveva determinarsi in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo ed in un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. La Corte territoriale ha inoltre detratto dalla durata complessiva il tempo impiegato dalla parte per proporre appello e ricorso per Cassazione (quasi un anno in un caso e nell’altro), considerato l’oggetto della controversia e la serialità delle questioni trattate.

La Corte d’appello ha compensato per la metà le spese di lite, ponendo la restante parte a carico della parte soccombente. Ha proposto ricorso per cassazione S.A.G., sulla base di due motivi.

Ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia – si è altresì osservato che I due motivi – con i quali ci si duole che la Corte di merito abbia escluso la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo presupposto – sono manifestamente fondati. La Corte d’appello si è infatti allontanata dagli standard elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in punto di determinazione della durata ragionevole del processo (inferiore, per i tre gradi di giudizio, ai sei anni e sei mesi indicati nel decreto impugnato), nè ha tenuto conto della indicazione, proveniente da quella Corte, a decidere sollecitamente le cause previdenziali. In tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il giudizio di irragionevolezza della durata del processo espresso nel decreto della corte territoriale richiede il sostegno di una adeguata motivazione ove le conclusioni raggiunte si discostino, come nella specie, dalle linee fondamentali della giurisprudenza europea in ordine allo standard medio di durata ragionevole del processo, che costituiscono la guida per il giudice nazionale.

In conclusione, ove si condividano i testè formulati rilievi, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, ricorrendo i requisiti di cui all’art. 375 c.p.c.;

B) osservato che non sono state depositate conclusioni scritte o memorie ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. e che, a seguito della discussione sul ricorso tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso le considerazioni esposte nella relazione, rilevando peraltro che, diversamente da quanto esposto nella richiamata relazione, il decreto impugnato è stato pronunciato nei confronti di G.D.J., nella qualità di erede di S.A. G., e che anche il ricorso per Cassazione è stato proposto da G.D.J., nella sua menzionata qualità di erede;

considerato inoltre che – avendo la ricorrente, con la sostanza delle sue argomentazioni, contestato complessivamente il calcolo compiuto dalla Corte d’appello in ordine ai sottoperiodi da considerare ai fini della ragionevole durata del procedimento (e quindi anche, implicitamente, l’intero scomputo operato da giudice del merito del lasso di tempo intercorrente tra la pronuncia di primo e di secondo grado e, rispettivamente, la proposizione dell’appello e del ricorso per cassazione) – le argomentazioni svolte nella relazione depositata ex art. 380 bis c.p.c. e in precedenza richiamate devono essere oggetto di ulteriori precisazioni;

B1) osservato, in particolare, che la questione relativa alla possibilità di dedurre dalla durata complessiva del processo l’intero lasso di tempo come sopra intercorso, oppure alla necessità di calcolare l’intero periodo come parte della durata del procedimento non addebitarle alla parte in quanto esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge, e quindi non soggetta a sindacato e a eventuale censura, è già stata posta all’attenzione della Corte che ha reso pronunce non sempre coincidenti, stabilendo che “il giudice dell’equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89 – chiamato ad accertare se vi sia stata o meno violazione del termine di durata ragionevole di un processo civile articolatosi su più gradi – può detrarre, dalla complessiva sua durata, in considerazione dell’impegno limitato della controversia, una parte considerevole del tempo trascorso per la proposizione dell’impugnazione, e ciò sebbene la legge processuale consenta alle parti di poter fruire pienamente dei termini stabiliti per proporre le impugnazioni di legge” (Cass. 2005/14477), ma anche che “… non può detrarsi dalla durata complessiva del processo il periodo trascorso prima dell’esercizio, da parte del soccombente, della facoltà di impugnazione, poichè l’utilizzazione del termine al riguardo accordato dalla legge rientra nella fisiologia del processo, e, dunque, non autorizza in sè un prolungamento della scadenza ragionevole, sempre che non risulti riconducibile ad un intento dilatorio od a negligente inerzia” (Cass. 2005/5991);

B2) considerato che appare al collegio preferibile aderire al principio di cui alla prima delle due citate pronunce, in quanto maggiormente rispettoso della ratio sottesa alla disciplina dell’equo indennizzo; infatti la Convenzione europea per i diritti dell’Uomo impone agli Stati membri di predisporre strumenti per la tutela giudiziale dei diritti che, sia per la normativa procedimentale che li disciplina che per l’organizzazione di uomini e mezzi predisposta per la loro attuazione, garantisca ai soggetti che li utilizzano un risultato, e quindi una risposta alla loro domanda giudiziale, in tempi ragionevoli;

che nell’ambito della valutazione in concreto della durata del processo non può tuttavia prescindersi da un obbligo di collaborazione di chi utilizza lo strumento processuale, soprattutto laddove il giudice non dispone di strumenti per contenere i tempi del procedimento, in quanto, in subiecta materia, si verte in tema di risarcimento del danno e quindi da un lato è necessaria, per la sua risarcibilità, la configurabilità di una colpa in capo al presunto danneggiante, ma dall’altro si richiede da parte del preteso danneggiato, ex artt. 1175, 1375 c.c. e ex art. 1227 c.c., comma 2, di adoperarsi al fine di non aggravare la posizione del debitore;

che di conseguenza, quand’anche potesse addebitarsi allo Stato la predisposizione di uno strumento processuale che può rivelarsi inidoneo, tenuto conto del lungo periodo concesso per l’impugnazione in mancanza di notifica, a garantire una ragionevole durata complessiva (e in materia non a caso è intervenuto di recente il legislatore dimezzando il termine di cui all’art. 327 c.p.c.), deve comunque tenersi conto del comportamento della parte, al fine di valutare se la medesima abbia contribuito a mantenere il processo entro limiti temporali ragionevoli o ne abbia senza necessità provocato l’allungamento;

che non è in discussione, infatti, il diritto della parte di utilizzare integralmente il termine a lei concesso per esercitare il diritto di impugnazione, ma il diverso diritto della stessa parte ad ottenere il risarcimento del danno da irragionevole durata del processo anche per il periodo eccedente quello strettamente necessario, posto che, in tal caso, il danno che ne deriva sarebbe la conseguenza di una scelta legittima ma non necessaria;

B3) osservato che, sotto questo profilo, la Corte, dopo aver statuito che “la parte vittoriosa che non eserciti una facoltà, quale quella della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, lasciando decorrere tutto il termine lungo per la proposizione della impugnazione non può pretendere che l’intero termine decorso venga addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo il lasso temporale trascorso per detta scelta processuale essere riferito alla stessa parte”, ha già altresì stabilito il principio secondo cui non può essere addebitato alle parti l’intero periodo utilizzato per la proposizione dell’impugnazione ma spetta “al giudice dell’equa riparazione verificare di volta in volta, tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in concreto stato il comportamento della parte che chiede l’equa riparazione tra un grado e l’altro, e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il lasso di tempo non riconducibile, secondo il suo prudente apprezzamento, all’esercizio del diritto di difesa ” (Cass. 2007/5212);

B4) ritenuto tuttavia la Corte debba ulteriormente precisare e definire il tempo strettamente necessario all’esercizio del diritto, non apparendo l’opzione consistente nella rimessione della valutazione al giudice del merito l’unica possibile, nè quella maggiormente rispondente alle esigenze di tendenziale certezza sull’applicazione della norma cui l’interpretazione della stessa deve ambire, e che, dovendo dunque ricercarsi un parametro certo ed affidabile, è indubitabile che a tali requisiti corrisponda quello fornito dallo stesso legislatore che, nell’ipotesi di notificazione della sentenza, ha previsto termini perentori per la sua impugnazione, con ciò chiaramente ed incontestabilmente valutando che questi siano congrui anche a fronte della particolare complessità della controversia, l’alternativa essendo l’inconciliabilità dei termini fissati con il dettato dell’art. 24 Cost.;

che di conseguenza il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di impugnazione è quello fissato per la stessa nelle singole ipotesi, decorrente dal momento in cui, attraverso la comunicazione del biglietto di cancelleria, la parte viene a conoscenza del deposito della decisione: se infatti tale adempimento non è idoneo a far decorrere il termine breve per impugnare e quindi a ridurre necessariamente il termine per l’esercizio del diritto, tuttavia incontestabilmente lo rende possibile, facendo così insorgere l’onere della parte che dalla pendenza del processo potrebbe subire un danno di non aggravarlo con una condotta dilatoria anche se, sotto altro aspetto, legittima;

B5) ritenuto pertanto che l’impugnato decreto deve essere cassato e la causa rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla stessa Corte d’appello in diversa composizione che, quanto all’aspetto da ultimo trattato, si atterrà al seguente principio di diritto: “Poichè non può essere addebitato all’amministrazione della giustizia il segmento temporale del processo, utilizzato dalla parte per l’esercizio di un diritto, eccedente quello strettamente necessario, non deve essere computato nella durata complessiva del procedimento il tempo intercorrente tra la pronuncia impugnata e la proposizione dell’impugnazione per la parte eccedente quella corrispondente al tempo trascorso fino alla comunicazione dell’avvenuto deposito della decisione maggiorato di quello corrispondente al termine previsto per lo specifico mezzo di

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Perugia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2010

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