Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11030 del 10/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 10/06/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 10/06/2020), n.11030

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25537-2017 proposto da:

C.M., in proprio e n. q. di erede della sig.ra F.T.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE

34, presso lo studio dell’avvocato ANTONIA FORNARO, rappresentata e

difesa dall’avvocato FRANCESCO ALOISI;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA

PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MANUELA MASSA, NICOLA VALENTE;

– controricorrente –

e contro

C.R., CI.RO., C.C., nella qualità di eredi della

sig.ra F.T.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 665/2016 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 24/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 03/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA

MARCHESE.

Fatto

RILEVATO

CHE:

la Corte di appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 665 del 2016, rigettava l’appello proposto dagli eredi di F.T. avverso la sentenza del Tribunale di Palmi (n. 240 del 2013) che, a sua volta, aveva respinto la domanda di riconoscimento del diritto della dante causa all’indennità di accompagnamento;

la Corte territoriale, pur premettendo che sulla base delle censure formulate dalla parte appellante si era resa necessaria la rinnovazione delle operazioni peritali, disattendeva, poi, le conclusioni cui era pervenuto il CTU nominato, per condividere quelle rese dall’ausiliario del primo giudice;

quest’ultimo – e non il primo (id est: il consulente della Corte di merito) – aveva sottolineato l’assenza di documentazione sanitaria in relazione all’arco temporale compreso tra due ricoveri, l’uno con dimissione il 5.1.2000 e l’altro del marzo 2008, sicchè, per circa otto anni, non era possibile evidenziare l’assetto emodinamico di compenso o meno mantenuto dalla condizione di cardiopatia aritmica ipertensiva, sofferta dalla perizianda; per il periodo successivo “solo quello (id est: il consulente tecnico) nominato in primo grado valutava in modo completo l’esame obiettivo della paziente, sotto ogni profilo, e nel suo evolversi” mentre il CTU della Corte “basandosi esclusivamente sulle condizioni cliniche della Furfaro, quali emerse durante il ricovero nel settembre (id est: settembre del 2009)” formulava diagnosi di un grave quadro patologico, fondante, dalla data della domanda amministrativa (10 novembre 2009), il riconoscimento delle condizioni sanitarie per l’indennità di accompagnamento;

la Corte di appello non condivideva tale valutazione, in quanto “la diagnosi di gravi patologie, sia pure a carattere cronico e a decorso evolutivo-degenerativo, non (era) da sola sufficiente a dimostrare l’assoluta impossibilità (…) di attendere autonomamente al compimento degli atti del vivere quotidiano e/o di deambulare senza assistenza, dal momento che lo sviluppo di una malattia, nel tempo, e la sua incidenza sulla integrità psico-fisica dell’individuo hanno andamento non univoco ma variabile a seconda del soggetto interessato, per cui è necessario verificare l’atteggiarsi in concreto delle singole patologie riscontrate”;

per la Corte di merito, solo per un “ultimissimo periodo” la dante causa era ” assolutamente inidonea a compiere in modo autonomo gli atti del vivere quotidiano” ma durante detto arco temporale era stata “per lo più ricoverata in una struttura ospedaliera”;

avverso la decisione, proponeva ricorso per cassazione C.M., nella qualità di erede di F.T., affidato a tre motivi; resisteva, con controricorso, l’INPS;

questa Corte, con ordinanza del 10.4.2019, disponeva l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 377 c.p.c., u.c., nei confronti dei coeredi C.R., Ci.Ro. e C.C., non intervenuti;

la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., n. 5- è dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di appello disatteso le conclusioni del CTU (nominato in secondo grado) senza tuttavia procedere ad un attento esame delle circostanze concrete e fondamentali della controversia, relative all’epoca in cui la dante causa si sarebbe trovata nelle condizioni sanitarie per beneficiare dell’indennità di accompagnamento;

con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 196 c.p.c.;

parte ricorrente, sulla premessa che l’accertamento della sussistenza dei requisiti di legge per la determinazione dell’indennità di accompagnamento deve svolgersi necessariamente tramite la nomina di un consulente tecnico, censura la decisione della Corte di appello che si sarebbe limitata, sulla scorta dell’elaborato peritale del giudizio di primo grado (dapprima disatteso tanto da aver accolto la richiesta di nuova consulenza tecnica), ad esprimere valutazioni di merito delle condizioni psico-fisiche della dante causa, senza considerare che la seconda consulenza (id est: quella disposta in secondo grado) rappresentava una “consulenza percipiente” intangibile e vincolante ai fini di prova;

i due motivi vanno congiuntamente esaminati in quanto entrambi, nel complesso, investono la statuizione con cui la Corte di appello si è discostata dalle conclusioni del consulente nominato in secondo grado per fare proprie, invece, quelle rassegnate dall’ausiliario del Tribunale;

in via generale, come più volte enunciato da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 27247 del 2008; Cass., n. 26499 del 2009; Cass., n. 7622 del 2010), rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico d’ufficio sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o in toto, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice. L’esercizio di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti del vizio di motivazione, tempo per tempo vigente;

in particolare, quanto alla scelta di decidere in base agli esiti di una prima C.T.U. piuttosto che sulla base di quelli di una seconda relazione peritale, si tratta di opzione legittima, ben potendo il giudice di secondo grado, malgrado abbia disposto la rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado, accogliere, in sede di decisione, le conclusioni di quest’ultima, anzichè della seconda consulenza (Cass. n. 3240 del 1998; Cass. n. 5515 del 1999; Cass. n. 4652 del 2001; Cass. n. 20125 del 2015); a tale riguardo (prima della riforma del 2012 che ha riguardato l’art. 360 c.p.c., n. 5), questa Corte richiedeva uno specifico onere motivazionale del giudice con l’enunciazione delle ” ragioni, che lo induc(essero) ad accettare la prima consulenza, e (a) contestare le contrastanti ragioni della seconda consulenza” (Cass., sez. un., n. 2383 del 1992), con il relativo controllo in sede di Legittimità;

dopo la novella, (v., in motivazione, Cass. n. 1294 del 2017) l’obbligo motivazionale, con il conseguente sindacato del giudice di Legittimità, è limitato al rispetto del “minimo costituzionale” della motivazione;

nel caso in esame, non è dubitabile che questo minimo sia stato garantito; la Corte di merito ha spiegato, ampiamente ed in modo esauriente, perchè abbia assunto una posizione nettamente divergente rispetto a quella del suo ausiliario tecnico;

nè i motivi indicano, nei termini rigorosi richiesti dal vigente testo del predetto art. 360 c.p.c., n.5, il “fatto storico”, non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo, secondo gli enunciati di Cass., sez.un., nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici);

essi, dunque, come sviluppati, sono inammissibili;

resta assorbito il terzo motivo, concernente la statuizione di compensazione delle spese di lite, sul presupposto dell’accoglimento dei precedenti motivi;

conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile, con le spese liquidate, secondo soccombenza, come da dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020

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