Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1103 del 18/01/2018


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Cassazione civile, sez. VI, 18/01/2018, (ud. 19/09/2017, dep.18/01/2018),  n. 1103

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

nel 2010 C.A. e T.S. convennero, dinanzi al Giudice di pace di Tivoli, Cu.An., la società Direct Line s.p.a. e il Comune di Guidonia Montecelio, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni patiti in conseguenza d’un sinistro stradale avvenuto il (OMISSIS), che coinvolse il mezzo condotto da T.S., e sul quale viaggiava c.a.;

secondo la prospettazione attorea, la responsabilità del sinistro andava ascritta tanto ad Cu.An. (ed al suo assicuratore della r.c.a., la Direct Line), per non avere rispettato l’obbligo di “Stop-dare la precedenza” dal quale era onerata; quanto all’amministrazione comunale, per avere rimosso dall’area del sinistro il segnale di “Stop” ivi “da sempre” esistente;

in corso di causa l’amministrazione comunale chiamò in giudizio il proprio assicuratore della responsabilità civile, ovvero la società Generali Business Solutions s.p.a., alla quale chiese di essere tenuto indenne in caso di accoglimento della domanda attorea; C.A. venne altresì autorizzata a chiamare in causa la società Allianz S.p.A., assicuratore della responsabilità civile di T.S.;

con sentenza 19.5.2011 n. 480 il Giudice di pace rigettò la domanda, ritenendo che la responsabilità del sinistro andasse ascritta a T.S., conducente del veicolo sul quale viaggiava C.A.;

la sentenza venne appellata dalle parti soccombenti;

il Tribunale di Tivoli, con sentenza 22 maggio 2015 n. 1181, accolse parzialmente il gravame, e condannò Cu.An. e la Direct Line in solido al risarcimento dei danni in favore di T.S.; condannò invece la società Allianz, assicuratore della r.c.a. di quest’ultimo, al risarcimento dei danni in favore di C.A.; il Tribunale invece escluse qualsiasi responsabilità dell’amministrazione comunale;

per quanto in questa sede ancora rileva, il Tribunale ritenne che l’assenza del segnale di stop “non rappresentò fattore causale” del sinistro, giacchè i conducenti devono comunque adottare la massima prudenza quando impegnano un crocevia, vi sia o non vi sia un segnale di “Stop”;

la sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da T.S. e C.A., con ricorso fondato su sei motivi ed illustrato da memoria;

ha resistito con controricorso il Comune di Guidonia Montecelio;

Considerato che:

col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c.; artt. 21,31 e 27 C.d.S.); sia da un vizio che essi definiscono di “erronea, contraddittoria e travisata” motivazione, e che prenderebbero sia previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5;

dall’illustrazione del motivo, la cui esposizione è talmente confusa da rasentare l’inammissibilità (risulta a questa Corte sconosciuto, in particolare, il vizio di “travisata motivazione”), solo con molto sforzo si possono desumere le seguenti censure:

(a) la motivazione della sentenza sarebbe “contraddittoria”, perchè il Tribunale da un lato ha riconosciuto che sul luogo del sinistro era stato rimosso il segnale di “Stop”, e dall’altro ha negato che tale mancanza avesse avuto rilievo causale nella genesi del sinistro;

(b) la motivazione della sentenza sarebbe “errata”, perchè il Tribunale ha escluso che il Comune di Guidonia avesse l’obbligo di segnalare… il mutamento della segnaletica;

(c) la sentenza avrebbe violato gli artt. 2043 e 2051 c.c., perchè la condotta omissiva del Comune fu certamente causa o concausa del sinistro, al contrario di quanto ritenuto dal Tribunale;

(d) la sentenza sarebbe infine “ingiusta” “nella parte ove riconosce gli interessi dalla data di deposito della sentenza, con ciò in aperta violazione di legge. Gli interessi dovranno necessariamente decorrere dalla data di accadimento del danno”;

tutte e quattro queste censure sono manifestamente inammissibili;

la prima censura è inammissibile perchè stabilire se una certa condotta sia stata o non sia stata causa di un danno è un tipico accertamento di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità;

la seconda censura è inammissibile perchè estranea alla ratio decidendi: il Tribunale, infatti, ha escluso la responsabilità del Comune per mancanza di nesso di causa tra l’omissione ascrittagli e il danno, sicchè era irrilevante stabilire se quell’omissione fu colposa o no;

la terza censura è inammissibile perchè censura un apprezzamento di fatto;

la quarta censura è inammissibile per totale mancanza di illustrazione;

varrà la pena ricordare alla difesa dei ricorrenti, a tal riguardo, che un ricorso per cassazione è un atto nel quale si chiede di articolare un ragionamento sillogistico così scandito:

(a) quale è stata la decisione di merito;

(b) quale sarebbe dovuta essere la decisione di merito;

(c) quale regola o principio sia stato violato, per effetto dello scarto tra decisione pronunciata e decisione attesa;

nel nostro caso, le poche righe trascritte poc’anzi non contengono alcuna corretta censura della decisione di merito;

sul piano dell’analisi del periodo, in buona sostanza, la censura si limita a dire che la Corte d’appello “avrebbe dovuto riconoscere gli interessi legali dalla data del sinistro”, e non lo fece;

la difesa dei ricorrenti non spiega tuttavia in cosa sia consistito l’errore, e quale sarebbe dovuta essere la diversa regola da applicare; non si fa carico, in particolare, di confutare la regola iuris applicata dal Tribunale, e consistita nel calcolare gli interessi compensativi fino alla decisione, e quelli moratori dalla decisione in poi; un ricorso così concepito dunque non può che dirsi inammissibile per totale aspecificità;

questa Corte, infatti, può conoscere solo degli errori correttamente censurati, e non può rilevarne d’ufficio, nè può pretendersi che essa intuisca quale tipo di censura abbia inteso proporre il ricorrente, quando questi esponga le sue doglianze con una tecnica scrittoria insufficiente; col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.); sia dal vizio di “omessa motivazione”;

deducono che il Tribunale avrebbe “omesso di valutare” alcune prove, ovvero una lettera ed una ordinanza del Comune di Guidonia, che avrebbero avuto contenuto confessorio;

il motivo è manifestamente inammissibile, perchè estraneo alla ratio decidendi: come già detto, infatti, il Tribunale ha escluso il nesso di causa tra la condotta del Comune e il danno, sicchè nulla rileva stabilire se vi sia stata o no una condotta colposa dell’amministrazione);

col terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 822,824 e 2051 c.c.); sia dal vizio di “omessa motivazione”;

nell’illustrazione del motivo i ricorrenti prospettano una censura così riassumibile: l’amministrazione comunale è “custode” dei beni comunali, ai sensi dell’art. 2051 c.c.; il custode ha l’obbligo di vigilare sui beni affidati alla sua custodia; nel caso di specie il danno era stato causato dalla cosa in custodia, a causa d’un difetto di vigilanza; ergo, il Comune doveva risponderne ai sensi dell’art. 2051 c.c.;

il motivo è infondato, perchè ignora la ratio decidendi sottesa dalla sentenza impugnata; questa, infatti, ha escluso che sia stata la mancanza del segnale di “Stop” a provocare lo scontro tra i due veicoli, e la mancanza di nesso causale tra la cosa ed il danno rende inapplicabile l’art. 20151 c.c.; è sufficiente leggere la motivazione ampia ed esaustiva enunciate ai righi 21-33 della pagina 3 della sentenza, il quarto motivo di ricorso concerne la posizione della sola c.a.; con tale motivo la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di “erronea, travisata e contraddittoria motivazione”;

deduce, al riguardo, la ricorrente che il Tribunale avrebbe scorrettamente determinato l’ammontare del suo credito risarcitorio; che l’errore sarebbe caduto sull’operazione di sottrazione, dal credito risarcitorio, dell’acconto pagato dall’assicuratore ante causam; il Tribunale, infatti, avrebbe decurtato dal credito risarcitorio anche l’importo pagato dall’assicuratore a titolo di spese legali stragiudiziali;

prima di esaminare tale motivo, deve rilevarsi come il suo contenuto non corrisponda alla sua intitolazione formale;

tuttavia ciò non basta per poter dichiarare inammissibile il motivo; infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, e questo sia sussumibile in uno qualsiasi degli altri vizi elencati dall’art. 360 c.p.c., n. 5, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013);

nel caso di specie l’illustrazione contenuta nelle pp. 16-17 del ricorso è sufficientemente chiara nell’illustrate la doglianza della ricorrente: questa lamenta in sostanza la sottostima del danno da essa patito, consistita nell’avere il Tribunale determinato il credito residuo dopo il pagamento degli acconti stragiudiziali, detraendo da esso le somme pagate dal debitore anche a titolo di rifusione delle spese legali stragiudiziali;

un errore di questo tipo è un errore logico-giuridico, e consiste nella violazione dell’art. 1223 c.c., nella parte in cui stabilisce che il risarcimento deve comprendere tutto il danno;

nè, ovviamente, può avere rilievo la circostanza che la ricorrente non abbia formalmente invocato la violazione dell’art. 1223 c.c.: infatti, in virtù del principio iura novit curia, l’erronea individuazione, da parte del ricorrente per cassazione, della norma che si assume violata, resta senza conseguenze quando dalla descrizione del vizio che si ascrive alla sentenza impugnata possa inequivocabilmente risalirsi alla norma stessa (così come stabilito da Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014);

la ricorrente, nel nostro caso, ha in sostanza prospettato un vero e proprio error in indicando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: sicchè, chiaro essendo il senso della censura, nulla rileva che essa, errando, l’abbia qualificata come denuncia di “omessa ed insufficiente motivazione”; nel merito, il motivo è fondato;

il Tribunale ha liquidato il danno patito da C.A. nella somma complessiva di Euro 5.428,43 in moneta del 2015, al netto degli interessi compensativi (così la sentenza impugnata, foglio 6);

ha poi accertato che C.A. aveva già ricevuto un pagamento parziale il 29.1.2008 dell’importo di Euro 2.950, che il Tribunale ha rivalutato al 2015;

ha, infine, detratto l’acconto rivalutato dal credito maggiorato degli interessi compensativi;

il Tribunale tuttavia sembra avere effettivamente trascurato che il pagamento ricevuto da c.a. nel 2008 comprendeva Euro 2.500 da imputare a risarcimento del danno, ed Euro 450 da imputare a rifusione delle spese legali stragiudiziali; pertanto il Tribunale, defalcando anche quest’ultimo importo dal credito risarcitorio per il danno alla persona ed al veicolo, ha finito per sottostimare tali voci di danno, in violazione del precetto di cui all’art. 1223 c.c.;

la fondatezza del quarto motivo di ricorso, tuttavia, non rende necessaria la cassazione con rinvio della sentenza impugnata; infatti, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, è possibile decidere la controversia, su questo punto, nel merito;

dovrà dunque riliquidarsi il credito risarcitorio di c.a. sui seguenti presupposti, ormai coperti da giudicato: (a) che nel 2015 c.a. vantava nei confronti di Allianz s.p.a. un credito di Euro 5.428,43; (b) che nel 2008 aveva ricevuto un pagamento in acconto di Euro 2.500; (c) che la mora nel pagamento dovesse stimarsi in via equitativa applicando un saggio di interessi compensativi pari a quello legale;

il credito risarcitorio residuo della ricorrente andrà dunque deteiminato, secondo la ormai costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) devalutando l’acconto ed il credito alla data dell’illecito;

(b) detraendo l’acconto dal credito;

(c) calcolando gli interessi compensativi individuando un saggio scelto in via equitativa, ed applicandolo prima sull’intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento fino alla liquidazione definitiva (così, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 9950 del 20/04/2017; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 6347 del 19/03/2014);

in applicazione di tali criteri, il credito residuo di c.a. al netto dell’acconto già percepito risulta di Euro 3.503,56, di cui 561,58 a titolo di interessi compensativi, calcolati con i criteri sopra indicati ed al saggio legale;

va da sè che, ove c.a. avesse incassato ulteriori pagamenti in esecuzione della sentenza d’appello, anche essi dovranno essere detratti dal credito risarcitorio con le modalità appena indicate;

col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la nullità della sentenza per un preteso contrasto tra la motivazione e il dispositivo;

sostiene che le controparti erano state condannate a rifonderle le spese di c.t.u. nella motivazione, ma non nel dispositivo;

il motivo è infondato, perchè il contenuto precettivo dei provvedimenti giurisdizionali va stabilito esaminandoli nel loro complesso, e nel caso di specie la condanna dei convenuti alla rifusione delle spese di consulenza era chiaramente contenuta nelle motivazione; la mancata ripetizione di essa nel dispositivo, pertanto, costituiva una mera omissione, da sanare se del caso con la procedura di cui all’art. 287 c.p.c.;

col sesto motivo la ricorrente lamenta di essere stata condannata alla rifusione delle spese di lite nei confronti del Comune; tale condanna sarebbe stata erronea, secondo la ricorrente, perchè la sua domanda nei confronti del Comune si sarebbe dovuta in realtà accogliere;

il motivo è manifestamente inammissibile, perchè non censura la condanna alle spese in sè, ma il presupposto di essa, ossia la soccombenza: presupposto che, per quanto detto, era invece effettivamente sussistente;

in considerazione del rilevante divario tra petitum e decisum, nonchè della oggettiva pochezza della maggior parte degli argomenti spesi dagli odierni ricorrenti, le spese tanto del giudizio d’appello, quanto del giudizio di legittimità, vanno compensate interamente tra tutte le parti; il rigetto integrale del ricorso proposto da T.S. costituisce invece presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico del suddetto T.S. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

(-) dichiara inammissibile il primo, il secondo ed il sesto motivo di ricorso;

(-) rigetta il terzo ed il quinto motivo di ricorso;

(-) accoglie il quarto motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna la Allianz s.p.a. al pagamento in favore di c.a. della somma di Euro 3.503,56, oltre interessi legali dalla data della presente decisione, e previa detrazione (da effettuarsi con i criteri indicati in motivazione) di quanto eventualmente già ricevuto dalla creditrice in esecuzione della sentenza di secondo grado;

(-) compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di appello e del presente giudizio di legittimità;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del solo T.S. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte di Cassazione, il 19 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2018

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