Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11017 del 06/05/2010

Cassazione civile sez. I, 06/05/2010, (ud. 25/02/2010, dep. 06/05/2010), n.11017

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. RGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2780/2009 proposto da:

R.G. (c.f. (OMISSIS)), R.A. (c.f.

(OMISSIS)), RI.AL. (c.f. (OMISSIS)), nella

qualità di eredi di R.G.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA M. DIONIGI 57, presso l’avvocato CLAUDIA DE

CURTIS, rappresentati e difesi dagli avvocati STARACE Aldo, ROMANO

DOMENICO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

CONSORZIO ASI NAPOLI in persona del Commissario Straordinario pro

tempore (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA,

CORSO VITTORIO EMANUELE 18, presso lo STUDIO GREZ, rappresentato e

difeso dall’avvocato MAROTTA Alessandro giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

contro

R.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3775/2007 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 03/12/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

25/02/2010 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito per il resistente, l’Avvocato MAROTTA, che ha chiesto il

rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo

del ricorso e l’assorbimento degli altri.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 5 gennaio 2001, accogliendo le domande proposte da R.G.A. con due distinti atti di citazione notificati in date 8 gennaio 1973 (di risarcimento danni per occupazione illegittima, in forza di decreto in seguito annullato) e 18 aprile 1973 (a seguito del decreto di espropriazione 28 febbraio 1973, di risarcimento danni previa disapplicazione del decreto di espropriazione perchè illegittimo e impugnato in via amministrativa, o in subordine di determinazione dell’indennità di stima), il tribunale di Napoli condannò il Consorzio A.S.I. di Napoli al risarcimento dei danni, nonchè al pagamento di L. 1.912.464, da aggiornarsi all’attualità, a titolo d’indennità di occupazione per il periodo dalla data del decreto a quella dell’immissione in possesso.

Nel giudizio di appello, il consorzio censurò la condanna al risarcimento danni nonostante l’esistenza di un decreto di espropriazione non impugnato, deducendo che il primo giudice sì sarebbe dovuto limitare a liquidare l’indennità di espropriazione, e il risarcimento per la sola occupazione illegittima, come lo stesso attore aveva chiesto nelle difese finali;

censurò anche le valutazioni del consulente tecnico, la rivalutazione dell’importo liquidato, e la liquidazione di un’indennità per il periodo dal decreto di occupazione all’immissione in possesso.

Gli eredi dell’attore, nel frattempo deceduto, si costituirono precisando che ritenevano fossero loro dovuti il risarcimento del danno per l’occupazione temporanea illegittima dall’emissione del decreto di occupazione all’emissione del decreto di esproprio, e l’indennità di esproprio richiesta in via subordinata con la citazione 18 aprile 1973, alla quale il loro dante causa con la comparsa conclusionale del 4 febbraio 2000 aveva dichiarato di voler limitare la domanda, oltre agli interessi. Essi proposero a loro volta appello incidentale per ottenere la condanna del debitore al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 cpv. c.c., sull’indennità di esproprio.

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza 3 dicembre 2007, accolse l’appello principale e respinse quello incidentale. La corte osservò che:

– gli eredi R., costituendosi, avevano ribadito espressamente di abbandonare la domanda di risarcimento per la perdita della proprietà occupata, richiamando la conclusionale di primo grado in cui tale rinuncia era stata formulata;

– la stima dell’immobile espropriato doveva essere fatta a norma del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, commi 3 e 4, conv. in legge con L. n. 359 del 1992 (il cui comma 7 dispone che la disciplina in esso contenuta si applica nei procedimenti di determinazione dell’indennità ancora in corso);

– l’area espropriata era destinata dallo strumento urbanistico a verde agricolo, e non era edificabile ma doveva essere indennizzata con il criterio dei valori agricoli medi;

– si trattava peraltro di espropriazione parziale, per la quale doveva trovare applicazione il principio sancito dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, e la perdita di valore derivante dalla riduzione di superficie e dalla presenza di rilevati stradali era valutabile nel 5% del valore espropriativo pieno;

– il valore dei manufatti aziendali doveva essere calcolato non in relazione al costo di ricostruzione (secondo il criterio seguito dal consulente tecnico) ma al loro valore al momento dell’espropriazione, considerando che si trattava di opere di circa tredici anni prima, per in quali doveva stimarsi un degrado nella misura del 20%, e sulla base dei valori monetar non nel 1979, come aveva fatto il consulente, ma nel 1973;

– il pregiudizio all’azienda zootecnica era astrattamente valutabile della L. n. 865 del 1971, ex art. 15, ma non provato in concreto;

– la cessazione dell’attività zootecnica non era stata una conseguenza necessaria dell’espropriazione, ma il frutto di una scelta dell’espropriato, che avrebbe potuto ricollocare sull’appezzamento residuo stalle e depositi resistenti sull’area espropriata;

– l’indennità di espropriazione è debito di valuta, insuscettibile di rivalutazione monetaria, e – diversamente che per gli interessi – il maggior danno ex art. 1224 c.c., per l’indennità di espropriazione non era stato chiesto in primo grado, se non con la comparsa conclusionale del 4 febbraio 2000, e successivamente in appello, sicchè era inammissibile;

– il risarcimento del danno per la perdita del possesso conseguente all’occupazione illegittima non poteva decorrere da data anteriore all’immissione in possesso, e un risarcimento ulteriore sarebbe stato dovuto solo in caso di dimostrazione di un reale pregiudizio da parte del proprietario;

– a tal fine poteva utilizzarsi come base il valore agricolo di mercato del fondo già accertato, depurato dell’incremento di valore dalle aspettative edificatorie di fatto considerate dal ctu.

Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorrono i signori A.; Al. e R.G., eredi di R.G. A., con atto notificato il 19 gennaio 2009, articolato in quattro mezzi d’impugnazione, illustrati anche con memoria.

Il consorzio resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., per l’omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento danni, che sarebbe stata riproposta in via di appello incidentale condizionato.

Il mezzo è infondato. Dalla lettura degli atti del fascicolo di causa, alla quale questa corte di legittimità è abilitata dalla natura processuale del mezzo d’impugnazione, risulta che gli odierni ricorrenti, nel resistere all’appello proposto dal consorzio, che censurava la condanna subita in primo grado al risarcimento del danno nonostante l’esistenza di un decreto di espropriazione non impugnato, sostennero che era loro dovuta, a seguito del decreto prefettizio di espropriazione, la relativa indennità così come richiesta con l’atto di opposizione e di citazione, nonchè da ultimo con la comparsa conclusionale depositata in data 4 febbraio 2000, e aggiunsero che questa richiesta era formulata, in ogni caso, anche sotto la forma dell’appello incidentale condizionato, nell’ipotesi di accoglimento dell’appello principale in ordine alla insussistenza della illegittimità della procedura. E’ quanto poi si è puntualmente verificato. Accogliendo l’appello principale, ed escludendo quindi il risarcimento del danno relativo alla perdita della proprietà conseguita all’emissione del decreto di espropriazione, la corte territoriale ha provveduto a determinare l’indennità di espropriazione richiesta dagli eredi R.. Non vi è stata pertanto alcuna domanda sulla quale la corte d’appello abbia omesso di pronunciarsi, posto che in appello il risarcimento dei danni, lungi dall’essere oggetto di una domanda (che in realtà era stata già accolta dal primo giudice), era oggetto di motivo di gravame dell’appellante principale, accolto dalla corte medesima.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione della L. 22 ottobre 1971, n. 865, artt. 15 e 16, nonchè l’ultrapetizione (violazione dell’art. 112 c.p.c), con determinazione del valore della proprietà in misura inferiore a quella risultante dalla stima dell’Ufficio tecnico erariale.

Il motivo d’impugnazione, nel quale si mescolano e sovrappongono questioni di motivazione, errores in procedendo e violazione di norme di diritto sostanziale, è infondato in ogni sua parte.

Va innanzi tutto considerato che, applicandosi il D.P.R. 30 giugno 1967, n. 1523, ancora in vigore al tempo in cui il procedimento ablatorio ebbe inizio, la stima dell’immobile fu eseguita dall’U.T.E. (14 dicembre 1970) a norma della L. 18 aprile 1962, n. 167, art. 12, come modificato dalla L. 21 luglio 1965, n. 904, art. 1, e quindi con il criterio fissato dalla L. 15 gennaio 1885, n. 2892, art. 13. La citata L. n. 167 del 1962, art. 12 cit., fu però abrogato dalla L. n. 865 del 1971, art. 39, e non poteva trovare applicazione nella specie, essendo il decreto di esproprio posteriore all’entrata in vigore della citata L. n. 865 del 1971. Conseguentemente, l’importo offerto dall’espropriante fu accettato il 7 luglio 1992 solo a titolo di acconto, senza che vi fosse stata una stima operata in via amministrativa con caratteri di definitività, secondo il modulo di procedimento contemplato nella L. n. 865 del 1971, art. 16, e rispetto alla quale le parti (e quindi anche l’espropriante) avessero un onere d’impugnazione; bensì soltanto una stima provvisoria che, non essendo stata accettata dall’espropriato, aveva esaurito i suoi effetti. I valori indicati in quella stima, pertanto, non potevano costituire un limite, a favore dell’una o dell’altra parte, nel giudizio di accertamento dell’indennità dovuta, promosso dall’espropriato. Donde la conclusione che la loro riduzione da parte della corte territoriale non poteva costituire un’ultrapetizione rispetto alle richieste dell’appellante consorzio, sotto il profilo che questo non aveva proposto opposizione ad una stima determinata in via amministrativa; e tanto meno rispetto alla sentenza di primo grado (che s’era fondata sulle stime del consulente tecnico d’ufficio), posto che in riforma di quella sentenza era stato escluso il petitum (risarcimento del danno) accolto in primo grado, e sostituito da altro petitum (indennità di espropriazione) oggetto di domanda subordinata di accertamento.

Quanto poi alle doglianze concernenti il contestato degrado dei manufatti, e i lamentati pregiudizi subiti all’azienda zootecnica, anche per la cessazione dell’attività, in conseguenza dell’espropriazione parziale, va ricordato l’insegnamento di questa corte, secondo il quale, al fine della determinazione dell’indennità di espropriazione dei terreni agricoli, la L. n. 865 del 1971, art. 15 – che eccezionalmente induce a tener conto, nell’ambito dell’indennità unitariamente considerata, anche del pregiudizio subito dall’azienda nel suo insieme per effetto dello smembramento cagionato dall’espropriazione, quale norma speciale rispetto alla L. n. 2359 del 1865, art. 40 – non consente però di tener conto singolarmente di tutti beni concorrenti all’organizzazione dell’impresa agricola, intesa nel senso di cui all’art. 2555 cod. civ., e quindi di tutte le possibili conseguenze pregiudizievoli, ivi compreso il mancato guadagno, del ridimensionamento e/o della cessazione dell’attività imprenditoriale; ma comporta che l’indennizzo debba comprendere il ristoro del pregiudizio arrecato dall’espropriazione all’attività aziendale agricola su quel terreno esercitata. Anche in questo caso, di espropriazione parziale, l’indennità di espropriazione è unica, ed essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione, ed il termine di riferimento per la sua determinazione è rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato, e non anche dal reale pregiudizio che il proprietario od altro titolare di minore diritto di godimento risentono come effetto dal non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente attività (Cass. 21 maggio 2007 n. 11782). In altre parole, il criterio indennitario previsto per l’espropriazione parziale, in generale, dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, trova una speciale disciplina nella L. n. 865 del 1971, art. 15, nel senso che deve accertarsi il valore agricolo con riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo espropriato “anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola”, e perciò il valore di mercato del terreno utilizzato nell’azienda agricola, senza il limite posto dalle tabelle redatte annualmente dall’apposita commissione. Il pregiudizio indennizzabile, dunque, è pur sempre e solo quello all’azienda agricola per la riduzione dell’area utilizzabile, e non per gli altri componenti dell’impresa. Ne consegue che, estinto il diritto di proprietà, ove risulti impedito sul luogo l’ulteriore svolgimento dell’impresa che utilizzava gli immobili per fornire i propri servizi, l’indennità di espropriazione non si estende al valore dell’impresa (che può proseguire altrove, anche utilizzando l’indennità di espropriazione entrata nel suo patrimonio), nè all’azienda come complesso organizzato per lo svolgimento della relativa attività (si veda ancora Cass. n. 11782/2007 cit.).

E’ ancora da ricordare che, sebbene resti ferma, anche in tal caso, la regola che trattasi di un’indennità unica, rivolta a coprire ogni danno diretto ed indiretto conseguente all’esproprio, per cui al giudice è inibito, in presenza di un’unica vicenda espropriativa, liquidare distinte indennità, questa corte ha già altra volta affermato che l’operazione di calcolo differenziale indicata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, non è la sola legittima, potendosi raggiungere il medesimo risultato attraverso la somma del valore venale della parte espropriata e del minor valore della parte residua, oppure attraverso il computo delle singole perdite (Cass. n. 11782/2007).

E’ ciò che ha fatto la corte territoriale nel caso in esame, calcolando separatamente il valore dell’area espropriata, e la riduzione del valore dell’area residua, a cui ha aggiunto il valore dei manufatti aziendali. In particolare, il giudice di merito ha tenuto conto della riduzione di valore del fondo residuo, calcolata in percentuale, rispetto al suo valore tabellare, e quindi ha correttamente tenuto conto, a tutela dell’espropriato, del divario tra valori tabellari e valore di mercato. Tutte le altre censure attengono al merito e sono inammissibili nel presente giudizio di legittimità. Il mezzo è quindi da respingere.

Con il terzo motivo si denuncia la violazione degli artt. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e art. 1224 c.c.. Si deduce che per la Corte europea dei diritti dell’uomo interessi e rivalutazione spettano per il ritardo e sono accessori del credito principale e non domande autonome.

La doglianza è infondata. Le norme di diritto sostanziale, derivanti dall’adesione dell’Italia alla convenzione citata, infatti, debbono pur sempre essere fatte valere dalla parte nel rispetto del principio del contraddittorio, come è regolato dalla legge italiana; sicchè non è in base a quelle norme che può fondatamente censurarsi il giudizio della corte territoriale, circa l’inammissibilità di domande proposte dopo la chiusura del contraddittorio. Quanto alla prospettata accettazione del contraddittorio su una domanda proposta per la prima volta in comparsa conclusionale, è principio costantemente affermato, nella giurisprudenza di questa corte, che le comparse conclusionali hanno soltanto la funzione di illustrare le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fondano le domande e le eccezioni già proposte, e pertanto non possono contenere domande o eccezioni nuove che comportino un ampliamento del thema decidendum, nè l’accettazione del contraddittorio rispetto a domande nuove proposte dalla controparte, essendo detta accettazione attività consentita solo fino al momento della rimessione della causa al collegio per la discussione (ex multis, Cass. 14 marzo 2006 n. 5478;

28 luglio 2004 n. 14250; 7 aprile 2004 n. 6858; 29 luglio 2002 n. 11175; 1 febbraio 2000 n. 1074; gennaio 1998 n. 11).

Con il quarto motivo si deduce che il risarcimento del danno da occupazione illegittima dovrebbe decorrere dalla data del decreto, dal quale deriva l’indisponibilità del bene, e non da quella dell’immissione in possesso.

Anche questo mezzo è infondato. La regula iuris applicabile al caso è quella dettata da questa corte a sezioni unite: il periodo di occupazione legittima decorre dal momento della effettiva immissione in possesso del beneficiario dell’occupazione, e dalla stessa data decorre anche il diritto alla corrispondente indennità (il quale postula che il proprietario abbia effettivamente perduto la disponibilità del bene). L’indisponibilità giuridica derivante dalla mera pronuncia del decreto di occupazione può invece costituire presupposto per il riconoscimento di un indennizzo, in favore del proprietario dell’immobile, soltanto ove quest’ultimo fornisca la dimostrazione dell’esistenza di un reale pregiudizio (Cass. Sez. un. 7 agosto 2009 n. 18077). La pronuncia del giudice di merito, che si è attenuta a questo criterio, è immune da censure.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 25 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2010

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