Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 110 del 07/01/2020

Cassazione civile sez. I, 07/01/2020, (ud. 10/07/2019, dep. 07/01/2020), n.110

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giusepp – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24659/2018 proposto da:

O.E., domiciliata in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione, e rappresentata e

difesa dall’avvocato Ameriga Petrucci in forza di procura speciale

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di POTENZA, depositata il

19/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/07/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso del D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, O.E., cittadina nigeriana, ha adito il Tribunale di Potenza Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

La ricorrente aveva raccontato di essere nata in Edo State e di appartenere all’etnia (OMISSIS) e di essere cristiana, come la madre; che costei il (OMISSIS) aveva deciso di sposare un musulmano; che l’uomo, dopo due mesi di matrimonio, aveva costretto la madre e il fratello della richiedente a convertirsi alla religione musulmana; che lei si era rifiutata di farlo, incorrendo nelle violenze del patrigno; che costui la chiudeva nella stanza impedendole di uscire di casa, la picchiava e una volta l’aveva ferita a un occhio ((OMISSIS)); di essere riuscita a scappare il (OMISSIS) con l’aiuto della madre che le aveva donato dei soldi che aveva messo da parte; di temere per la propria vita in caso di ritorno in Nigeria.

Con decreto del 19/7/2018, il Tribunale di Potenza – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE ha rigettato il ricorso, ritenendo la non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso per cassazione O.E., con atto notificato il 10/8/2018, svolgendo tre motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 27/7/2018, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, svolto con riferimento alla richiesta dello status di rifugiato, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra e dell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,1416 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, artt. 10,32 e 2 Cost., nonchè vizio motivazione per la presenza di una motivazione solo apparente, viziata da affermazioni del tutto inconciliabili.

1.1. La ricorrente sottolinea che in nessun modo il Tribunale aveva esaminato la persecuzione religiosa subita ad opera del patrigno.

Il Tribunale aveva ritenuto non credibile la ricorrente, nonostante le prove fotografiche delle lesioni subite, la puntuale esibizione del proprio contatto nigeriano su facebook, e il pianto disperato della ricorrente di cui era stato dato a verbale.

Le contraddizioni segnalate non sussistevano, secondo la ricorrente: non vi era contrasto fra la dichiarazione relativa alla durata di due-tre mesi dei maltrattamenti e quella relativa alla reclusione in una stanza per un mese.

Era stato addebitato alla ricorrente di non essere entrata nei dettagli della violenza sessuale subita durante il trasferimento in Libia senza tener conto della sua comprensibile ritrosia.

Non vi era nessun contrasto fra i contatti con un amico del villaggio e la decisione di non rivolgersi alla polizia, come pure fra l’addotto timore per la propria vita e la paura delle persecuzioni del patrigno.

Sussisteva quindi una situazione persecutoria a carico della ricorrente, imprigionata e picchiata per non aver voluto convertirsi alla religione musulmana.

1.2. Il Tribunale ha ritenuto che il racconto della richiedente asilo fosse sostanzialmente inattendibile, generico e poco credibile, evidenziando una serie di incongruenze e contraddizioni.

Indubbiamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro allegativo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202).

Beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Sez. 1, 31/1/2019 n. 3016).

Infine questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549-01; Sez. 6-1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571-01).

1.3. Nella fattispecie il Tribunale non si è sottratto all’obbligo motivazionale, ponendo in evidenza alle pagine 3 e 4 dell’impugnato decreto le ragioni che lo inducevano a ritenere inattendibile il complessivo racconto della sig.ra O., in parte ricollegate ai rilievi mossi dalla Commissione e in parte basate su ulteriori argomentazioni sviluppare con riferimento all’audizione disposta in sede giurisdizionale.

Siffatta motivazione, censurata come meramente apparente dalla ricorrente, soddisfa però l’obbligo motivazionale.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. Un., 22/09/2014, n. 19881; Sez. un., 07/04/2014, n. 8053).

1.4. Nella specie la ricorrente lamenta omesso esame della prova fotografica della lesione all’occhio, del contatto facebook con l’amico del villaggio, del pianto ripetuto in sede di audizione, ma non dà affatto conto, come sarebbe stato necessario per soddisfare l’onere di specificità delle censure, della collocazione di tali prove negli atti processuali e del contenuto dei verbali di udienza asseritamente sottovalutati.

La ricorrente contesta poi solo alcune delle incongruenze evidenziate (ma non tutte, e in particolare non quelle rimarcate dalla Commissione territoriale in ordine ai mancati dettagli circa il contenuto concreto degli atti di conversione pretesi dal patrigno, alla mancata descrizione dei rituali imposti a madre e fratello, alla irrazionalità del comportamento della madre); in tal modo la ricorrente cerca di demandare a questa Corte di legittimità un accertamento e un giudizio di fatto che non le compete, eseguito con motivazione satisfattiva del c.d. “minimo costituzionale” da parte del Tribunale lucano.

1.5. In ogni caso la vicenda rappresentata dalla ricorrente non può integrare i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

Ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e), tale status compete al cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, prevede che ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, i responsabili della persecuzione o del danno grave debbano essere lo Stato o i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; è anche possibile che la minaccia possa provenire da soggetti non statuali, ma solo se le autorità o i soggetti che controllano il non possono o non vogliono fornire protezione.

Nella fattispecie la ricorrente non ha riferito di aver chiesto protezione alle autorità statuali contro le vessazioni del patrigno.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra e dell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,1416 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, artt. 10,32 e 2 Cost., nonchè vizio motivazione per la presenza di una motivazione solo apparente, viziata da affermazioni del tutto inconciliabili.

2.1. In nessun modo il Tribunale aveva valutato il timore della ricorrente di subire torture o trattamenti inumani e degradanti, essendosi limitato a valutare il rischio di violenza generalizzata di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), al cui riguardo aveva reso solo una motivazione apparente, in contrasto con le informazioni fornite da fonti qualificate e in violazione di legge.

2.2. La motivazione addotta in punto inattendibilità delle dichiarazioni della richiedente asilo e genericamente richiamata dal Tribunale sorregge anche il rifiuto di riconoscimento della protezione sussidiaria, che compete al cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno.

2.3. Quanto invece alla minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la ricorrente manifesta un dissenso nel merito della valutazione compiuta dal Tribunale circa le condizioni generali della Nigeria e in particolare degli Stati del Sud, fra cui l’Edo State, da cui proviene la ricorrente, sulla scorta di una accreditata fonte informativa (relazione della Commissione nazionale per il diritto di asilo del Ministero dell’Interno).

2.4. Fuor d’opera appare il richiamo della ricorrente al tema della settorialità dei fattori di rischio nel Paese di provenienza introducendo un non pertinente riferimento all’art. 8 della Direttiva 2004/83/CE poichè tale disposizione, non trasfusa nella disciplina nazionale, non consente di valutare la sicurezza di particolari aree del Paese.

La ricorrente sembra sostenere cioè che la valutazione di pericolosità non potrebbe essere neutralizzata sulla base della settorialità dell’approccio e dell’asserita presenza del rischio solo in certe zone del Paese.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, formatasi con riferimento all’assetto normativo anteriore alla modifica del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, apportata dal D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018, nel dare attuazione alla direttiva 2004/83/Ce con il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 25, il legislatore si era avvalso della facoltà, prevista dall’art. 8 di essa, di non escludere la protezione dello straniero, che ne abbia fatto domanda, per il solo fatto della ragionevole possibilità di trasferimento in altra parte del paese di origine, nella quale non abbia fondato motivo di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire gravi danni, non può essere rigettato la domanda di protezione per il solo fatto della ravvisata possibilità di trasferimento (Sez. 6, 16/02/2012, n. 2294; Sez. 6, 9/4/2014 n. 8399; Sez. 1, 27/10/2015 n. 21903).

Se è vero quindi che per la giurisprudenza della Corte la settorialità della situazione di rischio di danno grave nella regione o area di provenienza interna dello stato di origine del richiedente asilo di origine non precludeva l’accesso alla protezione per la sola possibilità di trasferirsi in altra area o regione del Paese, priva di rischi analoghi, non vale certamente il contrario: non era comunque possibile, cioè, ottenere accesso alla protezione se si proveniva da una regione o area interna del Paese di origine sicura, per il solo fatto che vi fossero nello stesso Paese anche altre aree o regioni invece insicure.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento alla protezione umanitaria, la ricorrente denuncia la mancata valutazione delle situazioni di vulnerabilità soggettiva e in particolare quelle connesse alle violenze subite durante il viaggio e in Libia.

Anche in questo caso la censura si basa su di una situazione di vulnerabilità soggettiva (violenze subite dal patrigno, violenza sessuale durante il viaggio verso l’Italia) al cui riguardo il Giudice del merito ha escluso con valutazione non sindacabile in questa sede perchè sufficientemente motivata, la credibilità del racconto della richiedente.

4. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come in dispositivo.

Poichè risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere stata ammessa al Patrocinio a spese dello Stato non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1- quater.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate nella somma di Euro 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2020

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