Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10998 del 09/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/06/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 09/06/2020), n.10998

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10598/2014 proposto da:

G.U., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato difeso

dall’avvocato NICOLA VENEZIANO;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI CATANZARO, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ALBERTO LITTA MODIGLIANI N. 18, presso lo studio dell’avvocato ALDO

ALOI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 386/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 27/03/2013 R.G.N. 304/2010.

Fatto

RILEVATO

che:

G.U. ha agito davanti al Tribunale di Lamezia Terme nei confronti dell’Azienda Provinciale di Catanzaro esponendo che, operando egli come coadiutore amministrativo presso il servizio veterinario di Lamezia, dall’agosto 2003 all’aprile 2007 gli era stata poi attribuita la mansione aggiuntiva di accalappiacani, che aveva comportato una continua reperibilità, di cui chiedeva la remunerazione in misura di Euro 31.703,40, o in subordine a titolo di straordinario svolto in eccesso rispetto a quanto retribuito, tenuto anche conto dello svolgimento del servizio nei giorni festivi e prefestivi, in orario notturno e durante le ferie, senza poter godere, per la medesima ragione, del riposo settimanale, con danno, di cui rivendicava il risarcimento, alla propria integrità psico-fisica;

la domanda veniva rigettata in primo grado, mentre la Corte d’Appello, riformando parzialmente la pronuncia del Tribunale, l’accoglieva in misura minima;

la Corte riteneva che dalla documentazione prodotta non si evincesse tanto che il G. dovesse essere costantemente reperibile, quanto piuttosto che vi fosse personale reperibile il quale, in caso di necessità di intervento, avrebbe dovuto avvisarlo;

la Corte, richiamando i documenti C1 e C2, valorizzava poi il fatto che due dirigenti avessero segnalato al Direttore Generale ed al Direttore Sanitario che in caso di assenza del G. non era possibile evadere le richieste di intervento, dal che desumeva che il ricorrente intervenisse solo quando era in servizio, conclusione che – proseguiva ancora la Corte – non era smentita neppure dalle non inequivoche risultanze testimoniali;

quindi la Corte, prendendo atto che, a fronte di molte schede di intervento per accalappiamento cani prodotte, solo in 18 casi si trattava di interventi eseguiti al di fuori del normale orario di servizio, concludeva nel senso che solo in quelle giornate potesse dirsi provata la prestazione di disponibilità, per la quale veniva riconosciuto l’importo di Euro 371,70 oltre accessori;

infine, la Corte territoriale, quanto alla pretesa subordinata di remunerazione a titolo di straordinario, riteneva mancasse la prova di lavorazioni ulteriori rispetto a quelle a tale titolo remunerate dall’Azienda; il G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, resistiti da controricorso dell’Azienda;

entrambe le parti hanno infine depositato memorie illustrative.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della normativa inerente la pronta disponibilità di cui al contratto collettivo aziendale ai sensi dell’art. 5 del CCNL Sanita 1994-1997 (art. 44 punto 6) e dell’art. 7 del CCNL 20.9.2001, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; il ricorrente rimarca come la reperibilità consista nell’obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato e sostiene che la Corte territoriale, pur ammettendo, affermando e riconoscendo che il G. aveva svolto attività lavorativa in reperibilità, con anche parecchi interventi, aveva errato nel quantificare il dovuto, confondendo il lavoro straordinario, attraverso cui dovevano essere pagati gli interventi svolti in reperibilità, con la reperibilità in senso stretto, la quale doveva essere remunerata, per i tempi di attesa o di disponibilità, secondo le previsioni contrattuali;

il motivo è inammissibile, in quanto esso non coglie la ratio decidendi; la Corte territoriale non ha infatti confuso tra reperibilità ed interventi in reperibilità, ma ha ritenuto, più radicalmente, che non vi fosse prova, anche per i dubbi in essa indotti dagli elementi documentali sopra citati, del fatto che il G. avesse prestato la propria reperibilità, se non nelle giornate per le quali risultava docunnentalmente dimostrato che il G. aveva svolto interventi fuori dall’orario di servizio;

neppure vi è stata alcuna confusione tra la reperibilità e lo straordinario, avendo la Corte di merito ben distinto le due ipotesi disattendendo, con la motivazione di cui si è detto, la prima e poi rigettando esplicitamente e con autonomo passaggio, per difetto di prova, la seconda; con il secondo motivo il G. denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

in realtà, nel corpo del motivo, egli poi afferma che la motivazione addotta dalla Corte sarebbe insufficiente ed illogica, perchè le prove documentali e testimoniali, queste ultime anche erroneamente interpretate dai giudici di appello, avrebbero fornito dimostrazione della prestata reperibilità, senza contare che il Tribunale aveva ritenuto la causa sufficientemente istruita, omettendo di ascoltare gli ulteriori testimoni indicati, sicchè nel complesso non era stato osservato il potere-dovere del giudice del lavoro di provvedere agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione;

il motivo è inammissibile, in quanto esso non si confronta con il tenore dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella versione vigente ed applicabile al caso di specie, che limita la critica al rilievo dell’omesso esame di un fatto decisivo, non esplicitamente enucleato nella sua specifica individualità all’interno del motivo in esame;

viceversa, il ricorrente pretende una rilettura dell’istruttoria e propugna una diversa ricostruzione dei fatti di causa, muovendo, sostanzialmente, una complessiva critica rispetto al valore ed al significato attribuiti dalla Corte territoriale agli elementi dalla medesima valutati, così risolvendosi, il motivo, in un’inammissibile istanza di revisione degli apprezzamenti e del convincimento maturati nel giudizio di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (tra le molte, Cass. 2 dicembre 2019, n. 31400; Cass. 7 agosto 2019, n. 21163, fino a Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148);

ciò senza contare che l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo vigente e qui applicabile, non permette di riferire il vizio di omesso esame di un fatto decisivo alla (diversa ed in sè sola non rilevante) questione consistente nel non avere in ipotesi la Corte di merito dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 29 ottobre 2018, n. 2745, nonchè, per l’irrilevante dei profili di “sufficienza” della motivazione, Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053);

parimenti del tutto estranea alla fattispecie denunciata di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è la questione in ordine al fatto che il Tribunale non avesse ascoltato tutti i testimoni indicati sui capitoli di prova ammessi;

peraltro, il ricorrente neppure trascrive il tenore di quei capitoli, sicchè l’argomento resta del tutto generico e in contrasto con le rigorose regole di specificità di cui all’art. 366 c.p.c. (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3 e 4 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente negli atti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti;

l’inammissibilità del ricorso comporta la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2020

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