Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10996 del 19/05/2011

Cassazione civile sez. III, 19/05/2011, (ud. 02/03/2011, dep. 19/05/2011), n.10996

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

I.F. (OMISSIS), considerata domiciliata “ex

lege” in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato CALIPARI MARIA GRAZIA giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

A.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA TIBURTINA 650, presso lo studio dell’avvocato PASQUINO

SOFIA, rappresentata e difesa dall’avvocato MICCOLI MICHELE giusta

delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 167/2005 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, emessa il 7/7/2007, depositata il 22/09/2005, R.G.N.

140/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per inammissibilità – accoglimento

5^ motivo – rigetto altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 22/9/2005 la Corte d’Appello di Reggio Calabria respingeva il gravame interposto dalla sig. I.F. nei confronti della pronunzia Trib. Reggio Calabria 7/12/2004 di accoglimento della domanda nei suoi confronti proposta dalla sig. A.D. di cessazione del contratto di locazione avente ad oggetto magazzino sito nella locale via (OMISSIS), con conseguente condanna al relativo rilascio.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la I. propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.

Resiste con controricorso la A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1105, 1571 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto essersi nel caso validamente proposta azione di risoluzione del contratto di locazione de quo, pur essendo mero comproprietario per quota minoritaria dell’immobile, e in difetto di consenso degli altri coeredi, che, hanno viceversa formulato richiesta … di versamento dei canoni di locazione su apposito libretto, e manifestato la volontà di proseguire il rapporto di locazione, giusta lettere inviate dall’avv. Perfetti del 05.12.2003, del 16.01.2003, del 20.12.2003.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

Va anzitutto premesso che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare con riferimento a locazione concernente immobile oggetto come nella specie di comunione, l’eventuale pluralità di locatori integra una parte unica, al cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono alla disciplina della comunione; sugli immobili oggetto di comunione concorrono, quindi, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione, sicchè il singolo comproprietario può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l’immobile in comunione ed è altresì legittimato ad agire per il rilascio del detto immobile, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione per il quale deve presumersi sussistente il consenso già indicato, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri e, quindi, l’integrazione del contraddittorio (Cass., 18/07/2008, n. 19929;

Cass. 9/10/2003 n. 15057; Cass., 19/9/2001, n. 11806; Cass., 18/1/2002, n. 537. V. anche Cass., 22/6/2009, n. 14530).

Va altresì posto in rilievo che nella specie la locazione risulta essere stata dal singolo comproprietario stipulata per l’intero immobile de quo, e non già pro parte dimidia, sicchè non si pone nemmeno la questione in ordine alla necessità di verificare la sussistenza di eventuale volontà contraria della maggioranza dei comunisti (cfr. Cass., 13/1/2009, n. 480), laddove il consenso degli altri comproprietari si presume in mancanza di prova contraria (v.

Cass., 10/8/1999, n. 8550).

Atteso quanto sopra deve invero osservarsi che, giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dalla ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come la medesima faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., al contratto di locazione; agli atti di causa; all’essere stato l’immobile de quo acquistato dalla moglie di primo letto, Sig.ra A.G., congiuntamente al marito Sig. A.A.; alla successione della sig. G. A.; alle lettere inviate dall’avv. Perfetti del 05.12.2003, del 16.01.2003, del 20.12.2003; al libretto postale al portatore;

alla definizione, concordemente o giudiziariamente, delle quote di appartenenza ad ogni erede; alla manifestazione del non consenso degli altri coeredi Sigg.ri A.R., S., ed U.;

alla sentenza di primo grado; alla richiesta da parte degli altri coeredi di versamento dei canoni di locazione su apposito libretto;

alla espressa manifestazione d volontà a proseguire il rapporto di locazione), di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Emerge dunque a tale stregua come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierna ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso dal medesimo operata (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., essa in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr.

Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza del motivo consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.700,00, di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2011

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