Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10992 del 19/05/2011

Cassazione civile sez. III, 19/05/2011, (ud. 20/01/2011, dep. 19/05/2011), n.10992

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.A., (OMISSIS), F.M.T.,

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, Via A. Casella

43, presso l’Avvocato NICOLETTA MERCATI rappresentato e difeso

dall’avvocato PESCE TULLIO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

SARA ASSICURAZIONI SPA, in persona del Suo Direttore Generale e

Legale Rappresentante Dott. S. Vitale, elettivamente domiciliata in

ROMA, P.ZZA MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell’avvocato

ALESSI GAETANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

BOGGIA ARALDO giusta mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.R., M.F., S.M.,

C.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 569/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

Sezione Seconda Civile, emessa il 17/05/2006, depositata il

24/05/2006; R.G.N. 1722/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2011 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato NICOLETTA MERCATI (per delega Avvocato TULLIO

PESCE);

udito l’Avvocatao GAETANO ALESSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO

F.M.T. e C.A. convennero in giudizio, dinanzi al tribunale di Genova, M.P. e la sua compagnia di assicurazioni Sara s.p.a., chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni conseguenti al sinistro stradale in conseguenza del quale aveva trovato la morte il proprio congiunto C.G.B..

Il giudice di primo grado respinse la domanda, ritenendo responsabile dell’accaduto la vittima dell’incidente, che, alla guida del suo motociclo, aveva oltrepassato, a velocità non moderata, un incrocio nonostante il semaforo segnasse luce rossa.

La corte di appello di Genova, investita del gravame proposto dalle attrici, lo rigettò, osservando, per quanto ancora di rilievo nel presente giudizio di legittimità:

1) che il procedimento penale instauratosi a carico del M. si era chiuso con l’archiviazione, essendo emersa in quella sede la colpa esclusiva del C.;

2) che il giudice civile adito in prime cure, acquisita la documentazione del processo penale ed escussi nuovamente i testi presenti al momento del fatto, aveva a sua volta ritenuto il C. unico responsabile dell’incidente, senza che alcuna colpa, nemmeno concorrente, potesse dirsi addebitabile al M. il quale, avviato il proprio veicolo al segnale verde del semaforo e percorsi pochi metri, vide sopraggiungere la moto e ne fu investito all’altezza dello spigolo anteriore destro della vettura, poichè la visuale del motociclista era ostruita dalla presenza di un autocarro che, vistolo sopraggiungere, aveva immediatamente arrestato la propria marcia;

3) che la condotta del M. si era uniformata alle normali regole della circolazione non meno che a quelle della normale prudenza, senza che potesse per altro verso muoverglisi il rimprovero di non aver adottato particolari precauzioni nell’attraversamento dell’incrocio, poichè l’evento (e cioè il sopraggiungere della motocicletta condotta dal C. in violazione del segnale rosso e a velocità non moderata) doveva ritenersi del tutto imprevedibile, sotto il profilo di una del tutto irrazionale condotta del terzo (oltre che posta in essere in violazione di norme);

4) che, pertanto, la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054 c.c. doveva ritenersi ampiamente superata, trattandosi di evento accaduto per colpa esclusiva del C. ed avendo viceversa il convenuto esaustivamente dimostrato di essersi uniformato alle norme della circolazione e a quelle della comune prudenza;

5) che l’eccezione di incapacità a testimoniare dei testi B. e V. – respinta in prime cure sul rilievo che entrambi avevano a loro volta ottenuto un risarcimento del danno, di modesto importo, onde la mancanza di un interesse attuale e concreto in capo ad essi tale da legittimarne la autonoma partecipazione al giudizio – non poteva che essere nuovamente rigettata, sì come riproposta negli esatti termini del primo giudizio, stante l’assoluta inconfigurabilità della predetta situazione di incompatibilità.

La sentenza della corte ligure è stata impugnata da F.M. T. e da C.A. con ricorso per cassazione sorretto da 12 motivi.

Resiste con controricorso la s.p.a. Sara Assicurazioni.

La difesa delle ricorrenti ha tempestivamente depositato memoria illustrativa.

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. in ordine alla capacità a testimoniare dei sigg.ri B. e V..

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 253 c.p.c. in relazione all’art. 244 c.p.c. in ordine alla deposizione del sig. B.. Entrambi i motivi sono inammissibili.

Sotto un duplice, concorrente profilo.

Da un canto, essi lamentano, dell’impugnata sentenza, un vizio di violazione di legge che, anzichè trovare il suo necessario momento di sintesi nella formulazione di un unico ed esaustivo quesito di diritto (imposto, ratione temporis, dal disposto dell’art. 366 bis c.p.c.), strutturato secondo i criteri più volte enunciati da questa corte (per tutte Cass. 3519/08; 24883/08), si risolve di converso nella apodittica enunciazione – sotto forma, peraltro, meramente assertiva e non anche interrogativa -di una complessa e disorganica congerie di principi del tutto astratti e perciò solo inidonei a consentire una valutazione che, pur nella imprescindibile dimensione nomofilattica riservata a questa corte, ne consenta poi di cogliere la rilevanza e il collegamento con il caso concreto;

Dall’altro, essi violano, nella sostanza pur se non nella forma, la regula iuris del pari affermata dalla prevalente giurisprudenza di questa corte, alla quale il collegio ritiene di dover prestare adesione, che esclude la legittimità di “quesiti” (pur non potendo, a rigore, esser definiti tali quelli contenuti rispettivamente ai ff.

11 e 12 del ricorso) a carattere multiplo, tali cioè da investire, come nella specie, diverse e differenziate questioni giuridiche sottoposte all’esame del giudice di legittimità.

Con il terzo motivo, si denuncia omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia costituito dalla denunciata inattendibilità del teste V..

Con il quarto motivo, si denuncia contraddittoria o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia costituito dalla interpretazione della deposizione del teste Fe..

Con il quinto motivo, si denuncia violazione contraddittoria o insufficiente motivazione in ordine alle deduzioni derivanti dalla posizione dei veicoli dopo l’urto, dall’assenza di frenate e dai danni riportati dai veicoli.

Con il sesto motivo, si denuncia omessa motivazione in ordine alla ridotta velocità del M.; violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 393 del 1959, art. 102.

Con il settimo motivo, si denuncia omessa motivazione in ordine alla idoneità del motocarro del Fe. a precludere la visuale destra del M..

Con l’ottavo motivo, si denuncia insufficiente motivazione in ordine alla posizione e quindi all’idoneità del motocarro del Fe.

a precludere la visuale destra del M..

Con il nono motivo, si denuncia contraddittoria motivazione in ordine alla idoneità del motocarro del Fe. a precludere la visuale destra del M..

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati attesane la intrinseca connessione, sono privi di pregio.

Le doglianze in ordine alla valutazione del contenuto delle deposizioni testimoniali e alla ricostruzione delle circostanze di fatto relative all’incidente, volte a lamentare un preteso difetto di motivazione della sentenza impugnata, sono (al di là della loro inammissibilità per omessa sintesi, al termine di ciascuno dei motivi, del fatto ritenuto controverso e decisivo per il giudizio) destinate ad infrangersi, nel loro complesso, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui quegli ha (del tutto legittimamente) ritenuto che la condotta del M. fosse del tutto esente da colpa, e la responsabilità dell’incidente da ascriversi tout court alla imprudente condotta del C., senza incorrere, nella ricostruzione fattuale, circostanziale e comportamentale dell’intera vicenda, in alcun errore logico – giuridico tale da imporre l’intervento correttivo di questo giudice di legittimità, che quella motivazione, di converso, interamente condivide.

Tutti i motivi, nel loro complesso, pur lamentando formalmente un (asseritamente) decisivo difetto di motivazione e (quanto al sesto, anche una presunta violazione di legge, che si dipana, peraltro, secondo l’iter della doglianza anch’essa di tipo strettamente motivazionale), si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, da un canto, per il non corretto riferimento, in parte qua, agli atti di causa la cui interpretazione egli assume errata (con conseguente violazione del noto principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non potendo dirsi soddisfatto tale requisito mercè una mera e pedissequa allegazione fotostatica di tutti gli atti del processo di merito, ma dovendo, di converso, trovare il relativo contenuto un efficace momento di sintesi nell’autonoma riproduzione delle sole parti indicate come rilevanti in seno a ciascun motivo di ricorso), dall’altro, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico/formale e della conformità a diritto (entrambe, nella specie, sicuramente predicabili con riguardo all’impugnata sentenza) – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove ed. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione testimoniale o procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Con il decimo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 393 del 1959, art. 102. La doglianza costituisce pedissequa ripetizione di quella svolta con il sesto motivo e, come già rilevato in precedenza, si risolve, pur sotto l’apparente veste del vizio di violazione di legge, in una censura di fatto alla sentenza della corte territoriale che ebbe correttamente a rilevare come, nel comportamento del M., attesa la repentinità dell’evento, non fossero rinvenibili elementi, neppur frammentari, di colpa per imprudenza o violazioni di norme, primarie o secondarie.

Con l’undicesimo motivo, si denuncia violazione dell’art. 2054 c.c., comma 1, e del D.P.R. n. 393 del 1959, art. 102 in relazione all’imprevedibilità delle altrui imprudenze e violazioni.

Con il dodicesimo motivo, si denuncia violazione dell’art. 2054 c.c., comma 1, e insufficiente motivazione riguardo alla dimostrazione del M. di aver fatto quanto possibile per evitare l’evento.

Entrambe censura risultano, al di là dei non marginali profili di ammissibilità in punto di formulazione dei rispettivi quesiti di diritto, del tutto infondate, avendo la corte di appello correttamente valutato, ed altrettanto correttamente escluso, che la condotta del M. potesse, nella specie, e con particolare riferimento alla repentinità e imprevedibilità dell’evento, connotarsi secondo un qualsivoglia profilo di colpa concorrente ex art. 2054 c.c..

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue – giusta il principio della soccombenza – come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 1500,00, di cui Euro 200,00 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2011

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