Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10992 del 09/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/06/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 09/06/2020), n.10992

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14530/2014 proposto da:

V.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI

39, presso lo studio dell’avvocato ADRIANO GIUFFRE’, rappresentata e

difesa dall’avvocato ANTONIO CARULLO;

– ricorrente –

contro

AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE DI FERRARA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

M. PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato PAOLA RAMADORI,

rappresentata e difesa dall’avvocato BENITO MAGAGNA;

– controricorrente –

e contro

AZIENDA OSPEDALIERO – UNIVERSITARIA DI FERRARA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI

13, presso lo studio degli avvocati MARCO e PAOLA RAMADORI,

rappresentata e difesa dall’avvocato MANUELA GIOVANNA UBERTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1287/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 06/12/2013 R.G.N. 1229/2011.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 1287, in data 6 dicembre 2013, la Corte d’appello di Bologna confermava la decisione del Tribunale di Ferrara n. 229/2011 nella parte in cui aveva respinto la domanda di V.B., assunta il 5/5/1980 come assistente medico ospedaliero a tempo pieno presso la seconda divisione di ortopedia dell’Arcispedale di (OMISSIS), quindi transitata presso la USL n. (OMISSIS), cui era poi subentrata l’Azienda USL di Ferrara, infine passata, nel 2001, all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Arcispedale (OMISSIS), intesa ad ottenere l’accertamento di una serie di atti e comportamenti dequalificanti e demansionanti posti in essere ai suoi danni dai datori di lavoro succedutisi nel tempo sin dagli anni 1994 e 1995 e culminati con la definitiva risoluzione del rapporto di lavoro nel 2011 per essere stata la ricorrente dichiarata “assolutamente e permanentemente inabile a qualsiasi lavoro proficuo”, inabilità che la V. imputava alle condotte mobbizzanti subite;

2. il Tribunale, con una prima sentenza non definitiva (n. 261/2005), qualificata la responsabilità fatta valere in giudizio quale responsabilità contrattuale, aveva affermato la propria giurisdizione e limitato la legittimazione passiva dell’AUSL convenuta ai soli fatti successivi al 1994;

3. con successiva sentenza sempre non definitiva (n. 13/2007) il Tribunale aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Gestione liquidatoria e della Regione Emilia Romagna (chiamate in causa);

4. infine, con sentenza definitiva (n. 229/2011) il Tribunale aveva respinto la domanda della V. nei confronti delle convenute Aziende sanitarie;

5. la decisione era confermata dalla Corte d’appello di Bologna (che la riformava solo in punto di regolamentazione delle spese processuali);

riteneva la Corte territoriale, per quanto ancora rileva nel presente giudizio, che correttamente il Tribunale avesse qualificato la domanda della V. come intesa ad ottenere una condanna per mobbing, termine utilizzato dalla stessa ricorrente per indicare riassuntivamente la continua e reiterata operazione ex adverso posta in essere in suo pregiudizio;

escludeva che il Tribunale, nell’impianto argomentativo della decisione di prime cure, avesse riconosciuto una dequalificazione della V. evidenziando che la stessa era stata menzionata in via di ipotesi;

riteneva che in sede di gravame l’appellante avesse offerto una nozione vaga della lamentata dequalificazione, dai contorni abbastanza incerti, non riconducibile ad un demansionamento atteso che in alcun modo risultava ovvero era dedotto che la predetta fosse stata assegnata a compiti estranei alla professionalità medica, alla specializzazione ortopedica e alla corrispondente qualifica posseduta, discutendosi piuttosto della maggiore o minore pregnanza delle attività mediche svolte presso i reparti di ortopedia ovvero presso strutture ambulatoriali o centri specializzati, sempre e comunque nel settore della specialità ortopedica;

quanto ai trasferimenti della V., evidenziava che si era trattato di scelte adottate nell’ambito dei poteri gestori riconosciuti dalle fonti di normazione all’epoca vigenti, che non erano state opposte dalla ricorrente argomentazioni inerenti ad effetti dequalificanti delle sue diverse utilizzazioni, che in ogni caso erano stati adottati accorgimenti quando erano state riscontrate criticità dell’assegnazione a determinati servizi (come ad esempio a seguito della accertata inutilità dell’ambulatorio di ortopedia pediatrica nel giro di alcuni mesi dall’inizio della sua attività);

nel complesso riteneva che non potesse ravvisarsi nella condotta datoriale, ricostruita attraverso i plurimi passaggi che avevano interessato il rapporto di lavoro in questione, il perseguimento consapevole dello svilimento professionale della ricorrente;

5. avverso tale sentenza di appello V.B. ha proposto ricorso affidato a due motivi;

6. hanno resistito con distinti controricorsi l’Azienda Ospedaliero Universitaria di (OMISSIS) e la l’Azienda USL di Ferrara;

7. la ricorrente e l’Azienda USL di Ferrara hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia omesso esame della fattispecie sottoposta a giudizio – violazione e falsa applicazione degli artt. 342 c.p.c. e segg.;

censura la sentenza impugnata per non aver preso in esame le domande proposte dalla ricorrente e dunque per omessa pronuncia su fatti decisivi della controversia;

sostiene che oggetto della domanda fosse l’accertamento del pregiudizio subito dalla ricorrente per effetto degli atti illegittimi posti in essere da entrambe le amministrazioni convenute;

rileva che in sede di atto di appello aveva a lungo argomentato sulla dequalificazione come conseguenza degli atti amministrativi delle Aziende convenute sanzionati anche dal giudice amministrativo;

sostiene che la Corte territoriale non avrebbe emesso alcun giudizio sulle domande della ricorrente e sulla responsabilità risarcitoria che graverebbe sulle Amministrazioni per il solo fatto che gli atti emanati erano stati annullati per ordine del Consiglio di Stato;

2. il motivo non è fondato;

2.1. sussistono innanzitutto profili di inammissibilità;

non è trascritto il ricorso di primo grado nè il contenuto degli atti richiamati (provvedimenti asseritamente annullati e relative decisioni del giudice amministrativo) in dispregio delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’eventuale estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità;

la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, ove vengano in rilievo atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di carenze motivazionali, ex art. 360 c.p.c., n. 5, o anche di un “error in procedendo”, è necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indicata l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità, senza che possa attribuirsi rilievo al fatto che nell’indice si indicano come allegati i fascicoli di parte di primo e secondo grado (Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726);

la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. 4 luglio 2014, n. 15367; Cass. 4 ottobre 2010, n. 21226; Cass. 19 marzo 2007, n. 6361);

nè è sufficiente che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, indicando la sede nella quale l’atto processuale è reperibile, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28 settembre 2016, n. 19048);

2.2. poi il motivo neppure chiarisce se oggetto della doglianza sia l’omesso esame di una domanda ovvero l’interpretazione che ne ha dato il giudice del merito (come è noto, nel primo caso, si verte in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura processuale, per la soluzione del quale la S.C. ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti – alle condizioni sopra ricordate – onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta; nel secondo caso, invece, poichè l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata: v. Cass. 21 dicembre 2017, n. 30684), realizzandosi par tale via una carenza di specificità delle censure;

si ricorda che il principi di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (v. ex multis Cass. 7 novembre 2013, n. 25044; Cass. 16 marzo 2012, n. 4233);

2.3. peraltro, nella specie, la valutazione dell’assenza dei presupposti per il riconoscimento dei lamentati danni è stata effettuata dalla Corte territoriale in termini ampi e comprensivi di tutti i profili di dequalificazione e demansionamento denunciati (ritenuti, invero, dai giudici di appello piuttosto vaghi non essendo stato in alcun modo dedotto dalla V. di essere stata assegnata a compiti estranei alla professionalità medica, alla specializzazione ortopedica ed alla corrispondente qualifica posseduta e discutendosi piuttosto, in termini assolutamente astratti, e fatta eccezione per la temporalmente limitata e presto rimediata destinazione all’ambulatorio di ortopedia pediatrica, della maggiore o minore pregnanza delle attività mediche svolte presso reparti o strutture diverse ma pur sempre nell’ambito della specialità ortopedica – v. pag. 5 della sentenza -) e sulla base di tutte le risultanze di causa, dando conto dei provvedimenti del giudice amministrativo anche favorevoli alla V. (v. pag. 8 e 9 della sentenza impugnata) e ritenendo che “le alterne vicende del contenzioso innescato avanzi al Giudice amministrativo” non avessero attinenza “con la salvaguardia della professionalità da parte delle Aziende sanitarie dello ius variandi quanto ai servizi di tempo in tempo assegnati alla V.” (v. pag. 8 cit.);

2.4. del resto, come può esservi condotta demansionante e mortificante anche in presenza di atti di per sè legittimi, simmetricamente, non ogni dequalificazione così come non ogni altro atto illegittimo può essere automaticamente connotato di vessatorietà (in tali termini era stata, invero, la prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio, per quanto si evince dalle conclusioni riportate a pag. 2 del ricorso per cassazione “accertare e dichiarare che, come causa immediata degli atti illegittimi posti in essere da entrambe le Amministrazioni convenute e comunque per il loro comportamento nel corso del periodo lavorativo… la ricorrente aveva subito pregiudizi… perchè era stata dichiarata inabile definitivamente al lavoro per aver subito ingiustificati trasferimenti, sistematica dequalificazione generale, impoverimento professionale, trattamento complessivamente vessatorio e non rispetto dei diritti e della dignità morale…”): affinchè ciò avvenga, è necessario che quell’atto emerga come l’espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno persecutorio;

in definitiva la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi non consente di per sè di affermare, laddove il lavoratore stesso non alleghi ulteriori e concreti elementi, l’esistenza effettiva di un comportamento complessivamente vessatorio in danno del dipendente;

non ci si può limitare a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma occorre evidenziare, a fronte, come nella specie, di una prospettazione in termini di trattamento complessivamente vessatorio, concreti elementi a sostegno della dedotta sussistenza di un disegno preordinato alla prevaricazione;

nella specie è stata esclusa proprio la sussistenza di tale disegno unificante;

3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia falsa o errata applicazione del T.U. n. 165 del 2001, art. 5, artt. 2043, 2103 e 2087 c.c., motivazione assente insufficiente e contraddittoria;

sostiene che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla risarcibilità ex se del danno per annullamento di atto illegittimo conseguente e revoca imposta dalla pronuncia del Consiglio di Stato che ha dichiarato addirittura in sede cautelare l’illegittimità dei provvedimenti amministrativi ed ha costretto l’Amministrazione ad annullarli;

la Corte territoriale avrebbe limitato il suo esame al solo aspetto della dequalificazione ma non avrebbe preso in esame la ragione prima di detta dequalificazione e cioè l’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa e le sue conseguenze sul piano del risarcimento del danno;

4. il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato;

4.1. sono prospettate sia violazioni di norme di diritto sia vizio motivazionale, senza che sia adeguatamente specificato quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile a vizi di così diversa natura lamentati, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);

infatti il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348), sicchè il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti; nei motivi in esame mal si comprende in quali sensi convivano i differenti vizi denunciati, articolati in una intricata commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, argomentazioni giuridiche, frammenti di sentenza impugnata, rendendo i motivi medesimi inammissibili per difetto di sufficiente specificità;

4.2. poi non sono stati riprodotti, quanto meno nel contenuto utile a reggere le censure, gli atti (provvedimenti datoriali adottati e relative pronunce dei giudici amministrativi) sui quali la doglianza è fondata;

gli atti in questione non sono stati allegati al ricorso per cassazione nè degli stessi è indicata l’allocazione nei fascicoli di parte o d’ufficio;

anche con riferimento a tale motivo di ricorso, dunque, non sono stati forniti a questa Corte tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne;

4.3. in ogni caso, come già sopra evidenziato, la Corte ha esaminato i provvedimenti intervenuti nei contenziosi avviati dalla V. in sede amministrativa (peraltro, per quanto si evince dal contenuto dei controricorsi e dalla stessa memoria della V., la valutazione di illegittimità di tali atti sarebbe stata circoscritta alla fase cautelare e provvisoria del TAR e del Consiglio di Stato ma non sarebbe stata confermata nella successiva fase di merito);

4.4. senza dire che un pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo ancorchè potenzialmente lesivo, e così non può derivare ex se quale conseguenza automatica dalle pronunce favorevoli del giudice amministrativo, come pretenderebbe la ricorrente, ma occorre specie laddove, come nella specie, gli atti asseritamente illegittimi siano stati ritenuti connotati da vessatorietà e mortificazione, non solo la deduzione e la prova di tale connotazione ma anche quella dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali, inducendo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della personalità nel mondo esterno ma altresì quella del collegamento causale con l’inadempimento datoriale(Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 30 settembre 2009, n. 20980; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327; Cass. 25 ottobre 2019, n. 27384)

le indicate situazioni costituenti il presupposto per l’esistenza di un pregiudizio sono state, nel complesso, escluse dalla Corte territoriale la quale ha evidenziato che “anche se dovesse ritenersi la repentinità del cambio di funzioni sulla base della diversità di quelle prima (asseritamente “dequalificanti”) e poi assegnate alla V., difetterebbe la persecutorietà, pretestuosità e gratuità del fatto, necessaria ai fini della rilevanza giuridica nell’ottica della responsabilità risarcitoria evocata” – v. pag. 5 della sentenza, ove è espressamente ripresa e condivisa la motivazione sul punto del giudice di prime cure – ed altresì espressamente ritenuto insussistente un impoverimento professionale della V. nei vari spostamenti che avevano caratterizzato la sua vicenda lavorativa – v. pagò 9 -;

4.5. a fronte di detta motivazione, del tutto logica e comprensibile, la ricorrente contrappone una diversa lettura delle risultanze di causa e sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in indicando, un riesame dei fatti, inammissibile in questa sede specie considerati i ristretti limiti ora imposti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risultante in seguito alla modifica apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, così come rigorosamente interpretato da Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 secondo cui non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sè, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie);

5. da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato;

6. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

7. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, ricorrono le condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida, per ciascuna di esse, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo prescritto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2020

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