Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10989 del 09/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/06/2020, (ud. 05/12/2019, dep. 09/06/2020), n.10989

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6620/2017 proposto da:

P.W., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA P.S. MANCINI

2, presso lo studio dell’avvocato MICHELANGELO CAPUA, rappresentato

e difeso dall’avvocato RICCARDO GUERRA;

– ricorrente –

contro

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO GIAMMARIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 643/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 07/09/2016, R.G.N. 258/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/12/2019 dal Consigliere Dott. GUIDO RAIMONDI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato RICCARDO GUERRA;

udito l’Avvocato TIZIANO SERRONI per delega verbale avvocati ROBERTO

PESSI e FRANCESCO GIAMMARIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Adito da P.W., il Tribunale di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro, in parziale accoglimento del ricorso proposto contro la datrice di lavoro del ricorrente, la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. (BNL), con sentenza pubblicata il 6.2.2014, condannava quest’ultima al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da vessazioni sul luogo di lavoro (mobbing, respingendo le altre domande del lavoratore, dirette al riconoscimento di progressivi superiori inquadramenti e delle conseguenti differenze retributive.

2. Nei confronti della citata sentenza di prime cure il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte di appello di Firenze. La Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. si costituiva proponendo appello incidentale, con il quale chiedeva il rigetto integrale delle domande del lavoratore.

3. Con sentenza pubblicata il 7.9.2016, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di prime cure, dichiarava il diritto di P.W. all’inquadramento nella qualifica di vice capo-ufficio dal 1.5.1990 e alle conseguenti differenze retributive, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali dalla maturazione delle singole voci di credito al saldo, confermando nel resto la sentenza impugnata. Le spese processuali del grado venivano compensate per 2/3 mentre il residuo terzo era posto a carico della Banca Nazionale del Lavoro, e le spese della C.T.U. erano poste a carico di entrambe le parti nella misura del 50% ciascuna.

4. La Corte territoriale, dopo aver riconosciuto provato lo svolgimento di mansioni di vice-coordinatore degli operatori unici dal 1.2.1990, con conseguente diritto, ai sensi dell’art. 2103 c.c., al superiore inquadramento nella qualifica di vice capoufficio dal 1.5.1990, respingeva la domanda del lavoratore diretta a ottenere il riconoscimento del suo diritto alla promozione automatica al grado di capo-ufficio dopo cinque anni di inquadramento nella qualifica di vice capo ufficio, “ai sensi degli accordi 6.2.1992 e 30.9.1993”. Ciò per essere mancata la allegazione e la prova, il cui onere incombeva sul lavoratore, dello svolgimento da parte di quest’ultimo di attività di natura commerciale, che comportino la promozione presso la clientela di prodotti e servizi dell’Istituto di credito, attività richiesta dalla contrattazione collettiva per la promozione automatica domandata, ritenendo la tardività delle allegazioni e delle richieste istruttorie del lavoratore sul punto, nonchè la mancanza delle condizioni per l’esercizio di poteri istruttori officiosi. Analogamente veniva respinta la domanda del P. di riconoscimento del suo diritto alla promozione dal livello di operatore unico di sportello a quello di operatore unico consulente, per essere mancata la prova della sussistenza delle relative condizioni previste dalla contrattazione collettiva. Era poi ritenuta inammissibile, in quanto modificativa dei fatti posti originariamente a fondamento della domanda, l’allegazione del lavoratore secondo cui egli avrebbe acquisito il diritto al superiore inquadramento in forza della tempestiva accettazione della proposta, formulata nel 1998, di assumere la funzione di coordinatore degli operatori unici e di quella, formulata da un responsabile aziendale, di inquadramento nella qualifica di capo ufficio dal 1.2.2001 e di riconoscimento del livello retributivo di quadro direttivo. A seguito di chiarimenti forniti dal C.T.U. la Corte territoriale confermava la statuizione della sentenza di prime cure in ordine all’entità del danno conseguente alle vessazioni subite dal lavoratore sul luogo di lavoro (mobbing).

5. Avverso la detta sentenza della Corte di appello di Firenze P.W. propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi. La Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto “ex” artt. 115,116, 421 e 437 c.p.c., in ragione dell’omesso esercizio dei poteri istruttori di ufficio richiesti dalla parte ricorrente sia in primo grado che in appello, per aver erroneamente la Corte territoriale ritenuto la mancata allegazione da parte del lavoratore di aver svolto attività commerciali di vendita di prodotti o servizi bancari BNL secondo le previsioni contrattuali del 1992/1993 (Protocollo d’intesa del 6.2.1992 e successivo Accordo del 30.9.1993; c.d. operatore consulente), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3. Con il secondo motivo il P. deduce la nullità della sentenza per vizio di motivazione e per motivazione insufficiente e contraddittoria per aver erroneamente ritenuto la Corte territoriale la mancata allegazione del fatto costitutivo del diritto controverso in contrasto con il materiale probatorio acquisito (documenti e disposizioni testimoniali), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

4. Con il terzo motivo il lavoratore lamenta la nullità della sentenza impugnata per “vizio di motivazione. Motivazione insufficiente e contraddittoria” per avere la Corte territoriale pronunciato sul merito e non sul rito per difetto delle condizioni dell’azione – omesso interesse ad agire – per non aver ritenuto l’allegazione da parte del ricorrente del fatto costitutivo del diritto di credito vantato dal ricorrente circa il grado di Capo Ufficio in relazione ai protocolli e accordi aziendali, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

5. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della nullità della sentenza per omessa pronunzia sulla domanda di riconoscimento del grado di Capo Ufficio con decorrenza dal 1997, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

6. Con il quinto motivo P.W. lamenta la nullità della sentenza della Corte territoriale per vizio di motivazione, motivazione insufficiente e contraddittoria in relazione alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio di primo e secondo grado, contraddittorietà circa la ritenuta iniziale non esistenza di cause pregresse o contemporanee alla vicenda lavorativa con incidenza invalidante poi ammesse (“separazione/divorzio e telefonate AMITRANO”), contraddittorietà circa la percentuale di danno biologico attribuita nella C.T.U. e mancata presa in considerazione delle critiche mosse dal consulente di parte in appello, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

7. Con il sesto e ultimo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per vizio di motivazione, omessa personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale applicandosi solo il punto tabellare delle tabelle di Milano senza alcuna personalizzazione sia sul danno biologico permanente sia temporaneo, l’omessa motivazione sul danno esistenziale e la mancata applicazione delle nuove Tabelle di Milano del 2014, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

8. I due primi motivi sono da esaminare congiuntamente, perchè, come si legge nello stesso ricorso, sono diretti a censurare lo stesso capo della sentenza impugnata. Ciò sotto due profili. Da una parte, si critica la statuizione secondo la quale, a corredo della domanda volta al riconoscimento della promozione automatica a capo-ufficio, il ricorrente non avrebbe allegato di aver svolto nel periodo pertinente anche attività di natura commerciale, con promozione presso la clientela di prodotti e servizi dell’istituto di credito, condizione pacificamente prevista dalle norme collettive applicabili, per il riconoscimento della promozione automatica. D’altra parte, si censura il mancato uso, da parte della Corte territoriale (in verità il ricorrente coinvolge inammissibilmente nella censura anche la sentenza di primo grado) dei poteri istruttori officiosi di cui all’art. 437 c.p.c. (si invoca anche l’art. 421 c.p.c.).

9. Con il primo motivo, in particolare, si deduce violazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (artt. 115,116, 421 e 437 c.p.c.), mentre con il secondo si denuncia la nullità della sentenza per “difetto di motivazione”.

10. Fondamentalmente la censura riguarda l’interpretazione della domanda formulata dal ricorrente, e quindi la portata delle sue allegazioni. La doglianza sul mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi difetta di autonomia, perchè essa presuppone che l’allegazione litigiosa, la cui sussistenza è stata esclusa dalla Corte territoriale, fosse invece da ritenere presente.

11. In sostanza il ricorrente afferma che se, nel ricorso introduttivo, egli non ha precisato “in modo più nitido” di aver svolto mansioni commerciali e di promozione dei prodotti finanziari, ciò si deve al fatto che egli considerava la circostanza pacifica. Solo in giudizio la banca ha prodotto il documento, datato 30.5.2001, con cui l’istituto di credito comunicava al sindacato FIBA CISL che la mancata promozione del lavoratore si doveva alla circostanza del non avere egli espletato le mansioni di “operatore consulente”, cioè incaricato delle mansioni commerciali e di promozione dei prodotti finanziari.

12. Inoltre, il ricorrente fa valere di aver richiamato le previsioni degli accordi del 1992 e 1993 – che appunto facevano pacificamente riferimento all’espletamento di mansioni commerciali – per cui l’allegazione di aver diritto alla promozione automatica a capo ufficio doveva ritenersi implicita nel richiamo alle pertinenti disposizioni collettive.

13. Il lavoratore riporta un passo del ricorso introduttivo in primo grado nel quale ci si riferisce alla valutazione del dirigente M., responsabile dei servizi di sala e operatori: “il M., verificata la capacità operativa anche in termini quantitativi del lavoro svolto alla cassa dal P., constatava l’elevata competenza e preparazione nelle operazioni commerciali e di borsa, (in pratica il P. dalla cassa riusciva a consigliare innumerevoli clienti a sottoscrivere prodotti finanziari BNL, in particolare i fondi comuni, tanto che decideva di segnalarlo al nuovo direttore)”.

14. Il primo motivo non individua la violazione di norme di diritto. Nè il secondo motivo riesce a mettere in luce una motivazione della sentenza impugnata sul punto inferiore al “minimo costituzionale” (Cass., SU, n. 8503 del 2014).

15. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito (tra molte, Cass. n. 20957 del 2017). Certamente, in tema di domanda giudiziale, non è necessario che l’allegazione di un fatto costitutivo, come di altra circostanza rilevante ai fini del decidere, venga formulata nel contenuto narrativo del ricorso o della memoria di costituzione del convenuto, potendo essere individuata attraverso un esame complessivo dell’atto, senza che occorra l’uso di formule sacramentali o solenni, desumendola anche dalle deduzioni istruttorie e dalle produzioni documentali, ma si tratta pur sempre di una valutazione riservata al giudice del merito (tra molte, Cass. n. 17991 del 2018).

16. Sul punto vi è un accertamento del giudice di appello, accertamento che è sorretto da una motivazione che consente di individuare il percorso logico giuridico che sorregge la sentenza sul punto e che dunque sfugge alla censura di nullità sollevata con il secondo motivo.

17. Marginalmente può osservarsi da una parte che il riferimento alla produzione in giudizio degli accordi collettivi pertinenti non può certo valere a rimpiazzare una idonea allegazione dei fatti costitutivi posti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, e, d’altra parte, che il riferimento alla posizione del dirigente M. non mette in luce un elemento decisivo. Secondo questo teste il ricorrente dava consigli sui prodotti finanziari “dalla cassa”, il che non corrisponde interamente alle mansioni indicate dagli accordi aziendali del 1992 e del 1993. Il particolare percorso professionale individuato dall’accordo del 1992 prendeva in considerazione la possibile evoluzione dell’operatore unico di sportello verso la figura di “operatore consulente”, che veniva individuata come caratterizzata dallo “… svolgere anche attività di tipo commerciale, prospettando alla clientela prodotti e servizi… e curando gli adempimenti previsti per concludere le operazioni (corsivo aggiunto)”, mentre era pacificamente lo stesso M. a “chiudere” le operazioni delle quali si era occupato il P. secondo il ricorso.

18. Il terzo motivo è inammissibile, per difetto di interesse del ricorrente ad ottenere una pronuncia comunque di segno negativo, oltre che per la novità della questione.

19. Il quarto motivo è infondato. Secondo il ricorrente, una volta riconosciuta a lui la qualifica di vice-capufficio dal 1990, cosa che era stata negata dal giudice di primo grado, il quinquennio da prendere in considerazione sarebbe stato non il 19962001, bensì il 1992-1997.

20. In realtà, come condivisibilmente osserva la resistente, la Corte territoriale ha escluso in radice, con riferimento a tutto il periodo in questione, un “adeguato supporto allegatorio e probatorio (corsivo aggiunto)” alle pretese del ricorrente, per cui la censura sollevata non ha rilevanza.

21. Quanto alla valorizzazione della testimonianza del dirigente M.. Le parti rilevanti della testimonianza non vengono riprodotte nella disamina del quarto motivo, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione. In ogni caso, nell’estratto di questa testimonianza riportato (a pag. 19 del ric., nella disamina del terzo motivo) non ci sono riferimenti al periodo 1992-1997 Oggetto del quarto motivo. Si tratta comunque di circostanze non idonee a censurare la sentenza impugnata. Nel quadro di questo motivo il ricorrente continua a sostenere che in realtà era stato allegato da parte sua lo svolgimento di mansioni commerciali. Sotto questo profilo ovviamente la doglianza non ha autonomia, ed è assorbita in ragione del rigetto dei primi due motivi di ricorso.

22. Il quinto motivo è inammissibile. Se anche vi fosse nella CTU (ma non vi è alcun elemento per affermarlo) la contraddizione denunciata, per aver il consulente tenuto conto, nel ridurre l’entità dell’inabilità permanente dal 15% al 12%, di fattori secondari, non riconducibili alla responsabilità del datore di lavoro, fattori che avevano aggravato la condizione del ricorrente, essa non sarebbe rilevante nello stabilire che la motivazione della sentenza impugnata, basata sulle risultanze della stessa CTU, non raggiunga la soglia del c.d. “minimo costituzionale” (Cass. SU n. 8503 del 2014, cit.).

23. Infondato, infine, è anche il sesto motivo.

24. Quanto al precedente della stessa Corte di appello che avrebbe in un caso analogo proceduto a una liquidazione più generosa, condivisibilmente la resistente fa valere la sua irrilevanza in questo giudizio.

25. A proposito della c.d. “personalizzazione del danno”, la giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, ha chiarito (v., da ultimo, Cass. n. 14364 del 2019) che la personalizzazione è un’operazione” che consente al giudice di valorizzare il danno patito dalla vittima; il giudicante è tenuto a motivarla, facendo riferimento alle risultanze probatorie emerse nel corso del giudizio. In particolare, vanno evidenziate le circostanze di fatto, tipiche della fattispecie concreta, tali da superare le conseguenze ordinarie e da giustificare una liquidazione maggiorata, rispetto a quella forfettizzata in base ai criteri tabellari (Cass. n. 2193 del 2017). Il giudice deve individuare le conseguenze che qualunque vittima di lesioni analoghe subirebbe; e poi accertare eventuali conseguenze peculiari del caso specifico. Le prime vanno monetizzate con un parametro uniforme, le seconde con un criterio ad hoc scevro di automatismi (Cass. n. 16788 del 2015). Capovolgendo la prospettiva, si può affermare che non sia ammessa alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento, qualora le conseguenze sofferte siano quelle ordinarie secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. n. 7513 del 2018 (ord.)). La personalizzazione, infatti, non costituisce mai un automatismo, ma richiede l’individuazione di specifiche circostanze ulteriori rispetto a quelle ordinarie.

26. I valori tabellari sono destinati alla riparazione dei pregiudizi normalmente patiti da qualunque vittima di lesioni analoghe. Spetta al giudice far emergere, e valorizzare, le specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso concreto, che superino le conseguenze “comuni” già compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari. Il pregiudizio specifico si distingue da quello ordinario per “l’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore, o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sè tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un’ottica che, ovviamente, superi la dimensione “economicistica” dello scambio di prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità” (Cass. n. 21939 del 2017).

27. Ai fini della personalizzazione del danno morale non rileva la mera sofferenza derivante dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del danneggiato, ricollegabili ad esempio, al dolore di comune riferibilità e, quindi, non apprezzabile in una prospettiva di solidarietà relazionale; bensì rileva la lesione di interessi che assumano consistenza sul piano del disegno costituzionale della vita della persona. è necessario che il danno, di cui si chiede la personalizzazione, presenti dei profili di concreta riferibilità e inerenza all’esperienza personale, specifica e irripetibile. diversamente opinando, si realizzerebbe una duplicazione delle poste risarcitone, infatti, le conseguenze ordinarie che discendono da una lesione (di quella specifica entità e riferite a un soggetto di quella specifica età anagrafica) sono integralmente risarcite nella liquidazione del danno alla persona operata attraverso il meccanismo tabellare.

28. Quindi, secondo la giurisprudenza, il risarcimento forfettariamente individuato, in base ai meccanismi tabellari, può essere aumentato esclusivamente nel caso in cui il giudice ravvisi circostanze di fatto del tutto peculiari, idonee a superare le conseguenze ordinarie nella liquidazione, il giudicante è tenuto a considerare tutte le conseguenze patite dalla vittima, tanto nella sua sfera morale (ossia nel rapporto che il soggetto ha con sè stesso), quanto in quella dinamico-relazionale (che riguarda il rapporto del soggetto con la realtà esterna) e tale accertamento, unitario ed omnicomprensivo, deve avvenire in concreto (v. Cass. n. 20795 del 2018).

29. Sul punto la sentenza impugnata ha ritenuto adeguata la liquidazione del danno sulla base delle sole tabelle “milanesi”, che si fondano su di un concetto omnicomprensivo del danno biologico, inteso anche come danno estetico e danno alla vita di relazione, evocando “il carattere moderato del disturbo accertato”.

30. In questo modo, alla luce dei principi giurisprudenziali evocati, il giudice di appello ha dato sufficientemente conto del percorso logico giuridico seguito per giungere alla statuizione qui censurata, che è sorretta da una motivazione che certamente soddisfa il criterio del c.d. “minimo costituzionale”.

31. Per censurare efficacemente questa statuizione si sarebbe dovuta lamentare – e dimostrare – la mancata considerazione da parte della Corte territoriale di circostanze eccezionali (le “circostanze di fatto del tutto peculiari, idonee a superare le conseguenze ordinarie. nella liquidazione”), mentre il ricorso si limita a dolersi di una motivazione insufficiente.

32. In ordine alla censura relativa all’utilizzazione di tabelle non aggiornate, sono fondati i rilievi della banca resistente quanto all’inammissibilità di questo profilo del motivo per difetto di autosufficienza del ricorso. La sentenza impugnata evoca le tabelle “milanesi” senza indicare l’anno di riferimento, mentre il ricorrente non indica gli elementi dai quali si desumerebbe l’uso di tabelle obsolete, nè gli effetti che l’eventuale applicazione delle tabelle vigenti nel 2014 avrebbe avuto sulla liquidazione del danno.

33. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

34. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

35. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese al 15/0 e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2020

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