Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10929 del 05/05/2017


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Cassazione civile, sez. III, 05/05/2017, (ud. 09/03/2017, dep.05/05/2017),  n. 10929

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6088/2015 proposto da:

T.V., F.M., P.V., L.R.,

elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso lo studio

dell’avvocato FRANCO TOFFOLETTO, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati FEDERICA PATERNO’, ANNA GRAZIA SOMMARUGA,

ELIO CHERUBINI giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.E., GRUPPO EDITORIALE L’ESPRESSO SPA, M.E.,

elettivamente domiciliati in ROMA, P.ZA DEI CAPRETTARI 70, presso lo

studio dell’avvocato VIRGINIA RIPA DI MEANA, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MAURIZIO MARTINETTI giusta procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso il provvedimento n. 3214/2014 della CORTE D’APPELLO di

MILANO, depositata il 25/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/03/2017 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

Con sentenza n. 4228/2010 il Tribunale di Milano accoglieva la domanda di condanna al risarcimento dei danni subiti da un articolo che sarebbe stato diffamatorio proposta da quattro ufficiali della Guardia di Finanza, cioè F.M., L.R., P.V. e T.V., nei confronti dell’autore dell’articolo – propriamente un editoriale – S.E., del direttore responsabile del quotidiano La Repubblica che l’aveva pubblicato il 3 giugno 2007, M.E., e della casa editrice Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A..

Avendo proposto appello i due giornalisti e l’editrice, la Corte d’appello di Milano, con sentenza dell’8 aprile-25 agosto 2014, lo ha accolto, rigettando ogni domanda risarcitoria sulla base del ritenuto esercizio legittimo del diritto di critica.

Hanno presentato ricorso F.M., L.R., P.V. e T.V. sulla base di cinque motivi, sviluppati anche in memoria, da cui si difendono con un unico controricorso il Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., M.E. ed S.E..

Considerato che:

1. Le censure del ricorso possono essere ripartite, per assimilabilità del contenuto, in due blocchi: anzitutto, il primo e il secondo motivo, e poi le ultime tre doglianze.

1.1 Il primo motivo, allora, denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p., commi 1 e 3, artt. 3 e 21 Cost., art. 51 c.p., in relazione all’asseritamente erroneo riconoscimento del diritto di critica all’estensore dell’articolo.

Osservano i ricorrenti che la critica può esplicarsi solo come personale interpretazione di fatti veri, onde il giornalista deve verificare la veridicità dei fatti su cui intende esercitare il relativo diritto. Sarebbero pertanto diffamatorie le notizie corrispondenti al vero solo fino a un certo punto, e che poi diventino una distorsione e una falsa rappresentazione della realtà fattuale. Presupposto del legittimo esercizio del diritto di critica sono infatti i requisiti di verità oggettiva, di interesse pubblico e di continenza espressiva. Questi principi di diritto non sarebbero stati seguiti dalla corte territoriale, che al contrario avrebbe violato le norme fondanti il diritto di critica, cioè l’articolo 595 c.p. in relazione all’art. 21 Cost., e art. 51 c.p..

Quale ulteriore argomento, si rileva che in un passo della motivazione il giudice d’appello qualifica “espediente” la ricostruzione dei fatti operata nell’editoriale (“espediente di fondare su basi fattuali”): invece, secondo i ricorrenti, non sono ammessi nell’esercizio del diritto di critica “espedienti” diretti a confondere fatti e opinioni. Da un altro passo motivazionale – per cui sarebbe legittimo che S.E. “operando una sorta di sovrapposizione tra fatti e la loro interpretazione” abbia rappresentato nell’articolo la sua opinione sulla vicenda dell’avvicendamento di coloro che occupavano i posti apicali nella Guardia di Finanza in tutta Italia ad eccezione dei ricorrenti, ovvero di quelli che li occupavano a Milano – si deduce che per la corte territoriale sarebbe legittimo esercitare il diritto di critica sovrapponendo fatti e opinioni, il che sarebbe invece erroneo. In realtà, nell’articolo le “palesi illazioni di S.” sarebbero divenute per la corte “dati fattuali”, mentre non emerge la prova della loro veridicità nè nell’articolo nè negli atti di causa, con riferimento al trafugamento delle intercettazioni del caso (OMISSIS). Le affermazioni dell’articolo sarebbero basate “unicamente sulla personale invenzione di fatti” del giornalista, al quale, benchè autorevole, non può consentirsi di inventarli, poichè ciò violerebbe l’art. 3 Cost.. Si elencano quindi passi dell’articolo per negarne poi la veridicità.

Il secondo motivo, sempre ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p., commi 1 e 3, artt. 3 e 21 Cost., art. 51 c.p., L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 2, comma 1, quando alla ritenuta sussistenza del diritto di critica in presenza del requisito di “verosimiglianza” in luogo di quello della “verità oggettiva” delle notizie.

Il motivo trascrive passi della motivazione della sentenza impugnata, e in particolare si rifà alla pagina 12, laddove viene rilevato che l’articolo espone “elementi di valutazione non solo fondati su basi di verità, o quantomeno di evidente veridicità”: ciò costituirebbe errore di diritto, perchè così il giudice d’appello riterrebbe sufficiente per esercitare il diritto di critica che la notizia fosse connotata solo da “sostanziale veridicità”, la quale coinciderebbe con la verosimiglianza, mentre il giornalista dovrebbe accertare proprio la verità dei fatti. Di qui la violazione anche della L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 2, comma 1, per cui è obbligo inderogabile del giornalista “il rispetto della verità sostanziale dei fatti”: e sarebbe pertanto insufficiente una “mezza verità”, aquivalendo la verità incompleta ad una notizia falsa.

1.2 I primi due motivi, allora, meritano vaglio congiunto, in quanto entrambi censurano l’impugnata sentenza per pretesa violazione dei principi di diritto in ordine all’esercizio del diritto di critica, precisamente rispetto al requisito della veridicità dei fatti che ne sono oggetto. Peraltro, a ben guardare, la corte territoriale non mette affatto in discussione che il diritto di critica debba essere esercitato, come insegna consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. sez. 3, 4 settembre 2012 n. 14822, Cass. sez. 3, 4 ottobre 2011 n. 20285, Cass. sez. 3, 16 maggio 2008 n. 12420, Cass. sez. 3, 19 gennaio 2007 n. 1205 e Cass. sez. 1, 18 ottobre 1984 n. 5259), sul suddetto presupposto della veridicità per valere da scriminante rispetto alla diffamazione. Nè, tantomeno, la corte territoriale sminuisce il contenuto di tale requisito, appagandosi di “mezze verità” o di verosimiglianza. I motivi giungono a sostenere questo in quanto effettuano artificiose estrapolazioni dal tessuto complessivo della motivazione, laddove questa, ovviamente, deve essere intesa in modo contestualizzante, così da poter realmente esternare quale sia stato l’iter del ragionamento del giudice.

La corte, invero, oltre a valutare la vicenda sul piano fattuale, si sofferma sulla sua qualificazione in punto di diritto, esattamente invocando quali fonti del diritto di critica i noti principi costituzionali e sovranazionali relativi alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost., e art. 10 CEDU), e correttamente puntualizzando che il suo esercizio non può “risultare avulso da ogni riferimento alla realtà sostanziale”, vale a dire non può “tradursi in mere astrazioni diffamatorie o in pure invenzioni congetturali”, pur elaborando gli accadimenti in un’ottica per sua natura non sempre rigorosamente obiettiva e imparziale (motivazione della sentenza impugnata, pagina 9). E pertanto valuta, poi, la corte il contenuto dell’editoriale di S.E. alla luce di quelle che definisce “vicende note da tempo” quando egli lo scrisse, per giungere in sostanza a concludere che il giornalista espose la sua opinione elaborando sì in una propria impostazione, ma non falsificando, tali vicende.

1.3 Le estrapolazioni decontestualizzanti, come già si è detto, non sono idonee per comprendere la posizione assunta della corte territoriale e per dimostrarne l’incompatibilità con i principi di diritto di cui sopra. Ma vi è di più.

Un riferimento alla “verosimiglianza dei fatti posti alla base della ricostruzione critica offerta da S.” si rinviene soltanto nella parte motivazionale dedicata a esporre lo svolgimento del processo (in particolare, a pagina 6), e quindi non è attribuibile al giudice d’appello. Il motivo tenta poi di trasformare – e già di per sè l’argomento consiste in una forzatura – in “verosimiglianza” l’espressione “evidente veridicità” artificiosamente estratta da un periodo della motivazione a pagina 12 che, letto nella sua completezza, conduce ad escludere che la corte abbia assunto una posizione “lassista”, tale da inficiare proprio il requisito della veridicità nell’esercizio del diritto di critica (questo, infatti, è il completo periodo: “I passaggi di cui gli appellanti si dolgono, quali il fatto che implicitamente li si accusi di aver chiuso gli occhi su gravi irregolarità verificatesi nel sistema delle intercettazioni telefoniche e di non aver quindi impedito che quei documenti fossero trafugati e consegnati ai giornali, in alcuni casi senza che la magistratura inquirente ne avesse preso visione, si pongono in particolare quali elementi di valutazione non solo fondati su basi di verità, o quantomeno di evidente veridicità, ma indubbiamente richiamati dall’editorialista per offrire al lettore una propria chiave interpretativa dell’atteggiamento assunto dal Viceministro nella disputa che lo vedeva contrapposto al comandante generale della G.d.F., con una chiara presa di posizione di S. a favore del primo, malgrado la vicenda avesse avuto in definitiva un esito favorevole per gli odierni appellati, rimasti tutti al proprio posto”).

Artificiosamente decontestualizzante e comunque privo di consistenza è pure l’argomento relativo all’utilizzo di “espedienti” da parte dell’editorialista riconosciutogli dal giudice d’appello con la frase “espediente di fondare su basi fattuali” (in modo così tronco la trascrive il motivo), argomento che, come già si è visto, esprime l’inammissibilità di espedienti diretti a confondere fatti e opinioni, e richiama come sponda un’ulteriore frase presente nella motivazione relativa all’operato dello S. (“operando una sorta di sovrapposizione tra fatti e la loro interpretazione”).

In realtà, queste due frasi, estrapolate dalla pagina 9 della motivazione, sono da ricondurre alla descrizione della modalità con cui il giornalista ha strutturato il proprio editoriale (pagine 8-10, soprattutto), ovvero mediante un riepilogo in stile narrativo dei fatti dal suo punto di vista. Ciò, tuttavia, non equivale a infrangere il requisito della veridicità, nè tantomeno comporta inevitabilmente una confusione tra fatti e opinioni. Invero la differenza tra questi ultimi, nel caso di specie, non poteva non essere agevolmente percepita dal lettore, perchè si trattava di un editoriale relativo a eventi già ben noti (non a caso la corte tra l’altro rileva che l’editoriale in questione si iscriveva “nell’ampia gamma di pubblicazioni apparse sulla stampa a partire dal maggio 2007 relativamente al c.d. caso Visco-Speciale”: motivazione, pagina 8). E’ d’altronde notorio che un giornalista, per attirare e soprattutto trattenere l’attenzione dei lettori, anche in un editoriale non può non avvalersi di strumenti lato sensu retorici, idonei a conferire una certa originalità e un’adeguata vivacità al suo contenuto: strumenti tra i quali è ovvio annoverare, alla luce del notorio, il metodo del racconto, atto ad alleggerire la reale natura di riflessione di un siffatto tipo di articolo. La separazione a compartimenti stagni tra fatti e opinioni, secondo i ricorrenti, è l’unico metodo di trattarli idoneo a qualificare legittimo l’esercizio del diritto di critica sotto il profilo della veridicità dei fatti; ma in realtà è apodittico sostenere che un editoriale non conformato ad una così rigida ripartizione del contenuto che deve esprimere sia sempre idoneo a confondere – o addirittura ingannare – i lettori, perchè, a ben guardare, il vero discrimen rispetto alla scorrettezza è la pregressa conoscenza dei fatti da parte dei lettori, nel caso di specie come si è visto accertata dal giudice d’appello con esito positivo: la quale pregressa conoscenza, quando i fatti sono stati diffusi già da più giorni dai media, si deve presumere che sussista, e logicamente impedisce a un normale lettore di fraintendere, in rapporto all’aspetto fattuale, il significato di quel che nell’editoriale è scritto.

Sotto tutti i profili, quindi, il primo e il secondo motivo non risultano fondati.

2.1 Passando dunque al secondo gruppo di doglianze, si dà atto che il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto discusso e decisivo, cioè che sia la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, sia la Procura Generale presso la Corte d’appello di Milano, sia il Presidente della Corte d’appello di Milano si erano “espressi a favore dei quattro odierni ricorrenti al fine di evitarne il trasferimento”: sarebbero, questi, fatti addotti dai ricorrenti fin dal primo grado ed emergenti sia da un articolo del (OMISSIS) del (OMISSIS), sia da un articolo del (OMISSIS) del (OMISSIS), entrambi prodotti con l’atto di citazione; e si tratterebbe fatti decisivi perchè, “se adeguatamente valutati” dalla corte territoriale, avrebbero escluso la riconducibilità ai ricorrenti della fuga di notizie sulle intercettazioni relative all’Unipol. Qui il motivo non solo cita passi dei suddetti articoli, ma addirittura inserisce questi ultimi integralmente in fotocopia, trascrivendo poi frasi al riguardo presenti negli atti difensivi dei precedenti gradi.

Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto discusso e decisivo, cioè della conclusione con archiviazione dell’indagine disciplinare aperta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale nei confronti dei ricorrenti e dell’accertamento di inesistenza di irregolarità. Ciò risulterebbe da un articolo, anch’esso allegato alla citazione, pubblicato il (OMISSIS) da (OMISSIS) di cui si riporta uno stralcio, articolo che poi si inserisce totalmente in fotocopia nel motivo, anche qui successivamente trascrivendo le frasi attinenti rinvenibili negli atti difensivi dei precedenti gradi.

Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto discusso e decisivo, cioè l’affidamento al Gruppo della Guardia di Finanza comandato dal P. dell’indagine sulla fuga di notizie in ordine all’intercettazione telefonica (OMISSIS), inserendo in fotocopie (alcune illeggibili) il doc. C prodotto dalla stessa controparte in primo grado, e riportandosi poi, come nei motivi precedenti, a frasi attinenti rinvenibili negli atti difensivi dei gradi di merito, altresì affermando che la fiducia della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano manifestava nei confronti del P. la “prova, ancora una volta” che egli nulla avrebbe avuto a che fare con la fuga di notizie.

E’ evidente che tutte e tre queste censure non identificano realmente vizi motivazionali ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poichè quelli che definiscono, oltre a controversi, fatti decisivi (la posizione assunta dalle Procure di Milano e dal Presidente della corte territoriale, l’archiviazione dell’indagine disciplinare, l’affidamento delle indagini sulla fuga di notizie al gruppo comandato dal P.) non assurgono, chiaramente, ad una decisività tale che la loro non espressa menzione venga a destrutturare l’accertamento fattuale del giudice d’appello, bensì semplicemente prospettano una valutazione alternativa dei fatti. Consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna del resto che il giudice di merito non è tenuto a dare espressamente conto nella motivazione di tutte le risultanze probatorie (v. p. es. Cass. sez. 1, 23 maggio 2014 n. 11511, Cass. sez. 2, ord. 12 aprile 2011 n. 8294, Cass. sez. 3, 28 ottobre 2009 n.22801, Cass. sez. L, 15 luglio 2009 n. 16499, Cass. sez. L, 7 gennaio 2009 n. 42, Cass. sez. 3, 16 gennaio 2007 n. 828, Cass. sez. 3, 24 maggio 2006 n. 12362, Cass. sez. L, 1 settembre 2003 n. 12747 e Cass. sez. 3, 11 agosto 2000 n. 10719; sull’obbligo, al contrario, di considerare espressamente invece l’elemento probatorio decisivo, cioè oggettivamente idoneo a scardinare il complessivo apparato motivazionale e dunque lesivo della ratio decidendi cfr. Cass. sez. L, 14 novembre 2013 n. 25608 – che significativamente evidenzia come l’idoneità dell’elemento decisivo a mutare la soluzione adottata deve fondarsi su un giudizio di certezza e non di mera probabilità -, S.U. 25 ottobre 2013 n. 24148, Cass. sez. L, 14 febbraio 2013 n. 3688 e Cass. sez. L, 18 marzo 2011 n. 6288). A ben guardare, allora, mediante questi motivi – e come ad abundantiam confermano gli inserimenti delle integrali fotocopie degli articoli di giornale, diretti a fornire al giudice di legittimità una cognizione diretta di una certa parte del compendio probatorio, e i frequenti richiami agli atti difensivi dei gradi precedenti in punto di merito -, viene perseguita una revisione, da parte del giudice di legittimità, proprio dell’accertamento fattuale operato dal giudice d’appello, travalicando i confini della cognizione suscitata con il ricorso per cassazione per ottenere invece un terzo grado di merito. Il terzo, il quarto e il quinto motivo risultano pertanto inammissibili.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna – in solido per il comune interesse processuale – dei ricorrenti alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna solidalmente i ricorrenti a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 5600, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2017

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