Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10919 del 08/06/2020

Cassazione civile sez. I, 08/06/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 08/06/2020), n.10919

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22579/2018 proposto da:

C.B., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Enrico Villanova, in forza di procura speciale

allegata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositato il

05/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/02/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, C.B., cittadino del Gambia, ha adito il Tribunale di Venezia – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva riferito di essere nato a (OMISSIS); di aver conosciuto nel (OMISSIS) un falegname inglese, E.S., che veniva ogni anno in vacanza in Gambia; che costui inizialmente dimorava in albergo ma poi venne ospitato dal ricorrente, in una stanza appositamente costruita presso la sua casa; che nel 2013 E. gli aveva detto di essere omosessuale; che durante le sere in cui era in vacanza l’inglese andava a (OMISSIS), e poi tornava in compagnia di due o tre ragazzi, che portava con sè presso la stanza costruita presso la casa del ricorrente; che in conseguenza di un litigio scoppiato fra E. e i suoi amici omosessuali, questi divulgarono la notizia della sua omosessualità ed intervenne la polizia, che voleva arrestarlo per aver ospitato un omosessuale; che, temendo il carcere, era fuggito dal Gambia.

Con decreto del 5/6/2018 il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso C.B., con atto notificato il 4/7/2018, svolgendo due questioni preliminari di legittimità costituzionale e deducendo un motivo di ricorso afferente la domanda di protezione umanitaria.

2.1. Con la prima questione il ricorrente deduce l’illegittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, per violazione dell’art. 77 Cost., ed assume che il decreto legge, pur convertito, era sprovvisto dei requisiti di necessità ed urgenza visto che conteneva numerosissime disposizioni (gli artt. 3, 4, art. 6, comma 1, lett. d), f), g), art. 7, lett. a), b), d) ed e), art. 8, comma 1, lett. a) e b), artt. 9 e 10) che prevedevano un’applicazione posticipata, riferita cioè alle domande presentate dopo il 180 giorno dall’entrata in vigore del decreto, circostanza questa che valeva a contraddire i presupposti della decretazione di urgenza.

2.2. Con la seconda questione il ricorrente deduce l’illegittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, art. 6, per contrasto con gli artt. 3,10 Cost., art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., art. 113 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., nonchè con gli artt. 6 e 13 CEDU, nonchè art. 47 Carta Diritti UE, assumendo che il rito camerale introdotto pregiudicasse i diritti di difesa e la regola del giusto processo, in quanto la struttura del rito non assicurava adeguatamente il contraddittorio fra le parti.

2.3. Inoltre, con unico motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e lamenta che il Tribunale aveva erroneamente fondato il diniego del provvedimento di protezione umanitaria su una valutazione negativa della sua “credibilità” (e, conseguentemente, aveva affermato la mancanza di una particolare condizione di vulnerabilità), ritenendo che questo fosse un indice di riferimento “esclusivo” per la concessione del permesso per motivi umanitari.

Al contrario, il permesso di soggiorno per motivi umanitari prevede il rilievo preminente dell’integrazione e di un esame comparativo, in relazione alla condizione del migrante, fra la situazione del paese di provenienza e quello del paese di accoglienza.

Il ricorrente si duole che il Tribunale abbia erroneamente sovrapposto due valutazioni, inconferenti fra loro e sostiene che era stata del tutto omessa la valutazione prognostica delle conseguenze di un eventuale rientro in patria, nonchè la rilevanza del percorso di integrazione intrapreso, la valutazione (sempre prognostica) delle conseguenze di una condizione di irregolarità cui egli sarebbe costretto in mancanza di un permesso di soggiorno.

2.4. L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 18/8/2018, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto del ricorso.

La Corte con ordinanza interlocutoria n. 29921 del 18/11/2019 ha rinviato a nuovo ruolo, in attesa della decisione delle Sezioni Unite sulla questione rimessale con le ordinanze interlocutorie n. 11749, 11750 e 11751 del 2019 circa la conferma del principio di diritto espresso dalla sentenza del 23/2/2018 n. 4455.

Dopo la pronuncia delle sentenze n. 294659 e 29460 del 13/11/2019 delle Sezioni Unite, è stata rifissata l’adunanza del 28/2/2020 per l’esame del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La prima questione di illegittimità costituzionale è stata proposta dal ricorrente con riferimento al D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, per violazione dell’art. 77 Cost., ed assume che il decreto legge, pur convertito, era sprovvisto dei requisiti di necessità ed urgenza visto che conteneva numerosissime disposizioni destinate a un’applicazione posticipata, riferita cioè alle domande presentate dopo il 180 giorno dall’entrata in vigore del decreto, circostanza questa che valeva a contraddire i presupposti della decretazione di urgenza.

1.1. La questione incidentale di legittimità costituzionale proposta non appare rilevante ai sensi della L. Cost. n. 53 del 1987, art. 23, comma 2, che ne ammette la proposizione “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione”.

Tale nozione richiede, per un verso, che la rilevanza inerisca al giudizio a quo e, per altro verso, che un’eventuale sentenza di accoglimento sia in grado di spiegare un’influenza concreta sul processo principale; sono pertanto irrilevanti, tra l’altro, questioni le quali non sortirebbero alcun effetto in detto giudizio (Corte Cost. n. 113/1980; n. 301/1974) o non risponderebbero in nessun modo alla domanda di tutela rivolta al rimettente (Corte Cost. n. 202/1991; n. 211/1984; n. 15/2014; n. 337/2011; n. 71/2009). Sussiste dunque la rilevanza di una questione il cui eventuale accoglimento produrrebbe un concreto effetto nel giudizio a quo, satisfattivo della pretesa dedotta dalle parti private (Corte Cost. n. 151/2009), ovvero dispiegherebbe effetti concreti sul processo principale (Corte Cost. n. 337/2008; n. 303/2007; n. 50/2007).

Nel caso in esame, i dubbi di costituzionalità sollevati non hanno in effetti nulla a che vedere con la decisione adottata dal giudice di merito, che ha trovato fondamento non già nella disciplina processuale introdotta nel 2017 (D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, recante: “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonchè per il contrasto dell’immigrazione illegale”), bensì sull’atteggiarsi dei criteri concernenti la valutazione di affidabilità del dichiarante alla luce del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5.

L’accoglimento delle sollevate questioni di costituzionalità non produrrebbe, di per sè un concreto effetto nel giudizio a quo, satisfattivo della pretesa disattesa dal Tribunale.

1.2. In secondo luogo, questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, conv. con modifiche in L. n. 46 del 2017, per difetto dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza poichè la disposizione transitoria – che differisce di 180 giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito – è connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (Sez. 1, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521-01; conforme Sez. 1, n. 28119 del 05/11/2018, Rv. 651799-02).

2. Con la seconda questione il ricorrente deduce l’illegittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, art. 6, per contrasto con gli artt. 3,10 Cost., art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., art. 113 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., nonchè con gli artt. 6 e 13 CEDU, nonchè art. 47 Carta Diritti UE, e sostiene che il rito camerate introdotto pregiudica i diritti di difesa e la regola del giusto processo, in quanto la struttura del rito non assicurava adeguatamente il contraddittorio fra le parti.

2.1. Anche a questo proposito deve evidenziarsi, da un lato, la palese irrilevanza della questione proposta e, dall’altro, la sua manifesta infondatezza, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Sez. 1, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521-02); per altro verso, è stata esclusa la lesione del diritto di difesa per effetto della soppressione del diritto di proporre appello, dal momento che il principio del doppio grado di giudizio di merito non è costituzionalmente tutelato (Sez. 1, n. 16458 del 19/06/2019, Rv. 654637-01; Sez. 1, n. 9658 del 5/4/2019).

3. Con l’unico motivo, dedicato al rifiuto della protezione umanitaria, il ricorrente sostiene che il Tribunale aveva erroneamente fondato il diniego su una valutazione negativa della sua “credibilità” (e, conseguentemente, aveva affermato la mancanza di una particolare condizione di vulnerabilità), ritenendo che questo fosse un indice di riferimento “esclusivo” per la concessione del permesso per motivi umanitari, omettendo di procedere alla valutazione del rischio di rimpatrio alla luce della debita valutazione comparativa dei fattori di vulnerabilità soggettiva e del grado di integrazione socio lavorativa in Italia del richiedente asilo.

3.1. Secondo la sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che ha avallato l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684-01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto D.L..

Inoltre la stessa sentenza n. 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito ha aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01, ha affermato il principio secondo cui l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez. 1, 23/02/2018, n. 4455).

3.3. Il Tribunale, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non ha affatto rifiutato di scrutinare la condizione di vulnerabilità soggettiva del ricorrente solo perchè ha ritenuto, con statuizione in questa sede non censurata, non credibile il suo racconto circa la vicenda personale e i rischi che ne sarebbero scaturiti, per aver locato una propria stanza ad un inglese nella consapevolezza del suo utilizzo per incontri di natura omosessuale.

Piuttosto il Tribunale ha osservato che la valutazione di non credibilità non consentiva di apprezzare una condizione di vulnerabilità collegata alla particolare situazione in cui il richiedente asilo si sarebbe venuto a trovare, ma non ha affatto omesso di valutare in linea oggettiva e a prescindere dalla vicenda personale, il rischio di rimpatrio nel contesto gambiano, al proposito apprezzando la positiva evoluzione del livello di tutela dei diritti umani dopo la destituzione del dittatore J. e la salita al potere del Presidente B..

3.4. In proposito questa Corte ha avuto modo di affermare che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitari deve essere frutto di valutazione autonoma in relazione ad una condizione di vulnerabilità in capo al richiedente, assumendo al riguardo rilievo, in assenza di prove del racconto dell’interessato ed in difetto di sollecitazioni ad acquisizioni documentali, quantomeno la credibilità soggettiva del medesimo (Sez. 1, n. 11267 del 24/04/2019, Rv. 653478-01; nella specie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva negato la protezione umanitaria in capo al ricorrente che, oltre a non fornire la prova circa la sussistenza di una condizione di vulnerabilità, aveva reso un racconto non credibile circa la propria vicenda personale).

In altra occasione è stato chiarito che il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di vulnerabilità, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti. (Sez. 1, n. 10922 del 18/04/2019, Rv. 653474-01).

La debita ricomposizione delle indicazioni provenienti dalle citate pronunce, anche alla luce del recente intervento delle Sezioni Unite, porta a ritenere che la valutazione dei presupposti per il riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, come si è detto in regime transitorio, deve essere condotta in modo autonomo rispetto alla valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (status di rifugiato e protezione sussidiaria), rispetto alla quale declina una tutela di origine nazionale, integrativa e residuale.

Tuttavia se il fattore di vulnerabilità rappresentato dal ricorrente trae alimento dal racconto circa la vicenda personale è inevitabile che il giudizio di non credibilità formulato quanto alle protezioni maggiori infici e travolga anche la richiesta di tutela umanitaria collegata al rischio connesso alla stessa vicenda.

Diversamente occorre ragionare quanto la vulnerabilità e il rischio di lesione dei diritti umani fondamentali derivante dalla reimmissione nel contesto di origine sia prospettato con riferimento alle condizioni generali del Paese da cui il richiedente asilo comunque proviene ovvero da altre situazioni personali del tutto indipendenti dalla credibilità del racconto (quali ad esempio le sue attuali condizioni psicofisiche).

3.5. Il ricorso in esame non prospetta alcuna specifica situazione di vulnerabilità oggettiva o di vulnerabilità soggettiva indipendente dalla credibilità del racconto circa la vicenda personale. Le ulteriori considerazioni circa il rischio connesso alla mancata esecuzione del rimpatrio dopo il diniego della protezione internazionale e del permesso per motivi umanitari, hanno carattere metagiuridico e provano comunque troppo perchè imporrebbero, sempre e comunque, il rilascio del permesso dopo il rigetto della protezione internazionale.

4. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate nella somma di 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2020

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