Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10911 del 18/05/2011

Cassazione civile sez. II, 18/05/2011, (ud. 10/02/2011, dep. 18/05/2011), n.10911

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.R. (OMISSIS) nella qualità di unico erede di

Pa.Ro., a sua volta in proprio e nella qualità di erede di

P.M., rappresentato e difeso in forza di procura speciale a

margine del ricorso, dall’Avv.to CORSO Roberto M. del foro di Milano

e dall’avv.to Giuseppe Crimi del foro di Roma ed elettivamente

domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, piazza Mazzini, n.

8;

– ricorrente –

contro

P.S. (OMISSIS) in proprio e quale erede di

A.C., rappresentata e difesa dall’Avv.to Tatozzi

Camillo del foro di Chieti, in virtù di procura speciale apposta in

calce alla copia notificata del ricorso ed elettivamente domiciliata

presso lo studio dell’Avv.to Michele Sinibaldi in Roma, via

Ricciotti, n. 11;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di L’Aquila n. 190/2005

depositata il 17 marzo 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10

febbraio 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

uditi gli Avv.ti Giuseppe Crimi, di parte ricorrente, e Michele

Sinibaldi, di parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per

l’inammissibilità del ricorso ed in subordine per il suo rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 17.10.1992 PA.Ro. e P.M. evocavano, dinanzi al Tribunale di Chieti, S. P. e A.C. esponendo di avere donato ai convenuti, con atto pubblico del 1.10.1990, la nuda proprietà di appartamento sito in (OMISSIS), riservandosene l’usufrutto vitalizio. Aggiungevano che parte donataria si era obbligata a prestare cure ed assistenza in favore dei donanti, obbligo che era rimasto inadempiuto, avendo i donatari abbandonato gli attori immediatamente dopo l’atto. Pertanto, ricorrendone tutti i presupposti, chiedevano revocarsi la donazione per ingratitudine in ragione dell’ingiura grave verso i donanti, nonchè del grave pregiudizio al patrimonio di questi, indotti a cedere la nuda proprietà del loro unico bene.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti, i quali eccepivano preliminarmente la decadenza dei donanti dall’azione e nel merito la infondatezza, il Tribunale adito, all’esito dell’istruzione della causa, rigettava la domanda attorea.

In virtù di rituale appello interposto da PA.Ro., anche quale erede di P.M. (deceduta nelle more del giudizio), con il quale lamentava che il giudice di prime cure avesse escluso che l’inadempimento dei donatari dell’obbligo di assistere i donanti integrava gli estremi dell’ingiura grave ovvero del grave pregiudizio ai fini della revoca, la Corte di Appello di L’Aquila, nella resistenza degli appellati, respingeva l’appello.

A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che l’appellante aveva dedotto la revoca dell’atto di donazione per due ordini di motivi; per essersi i donatari resi responsabili di ingiura grave verso i donanti e per avere i donatari arrecato un grave pregiudizio al patrimonio dei donanti, indotti a cedere la nuda proprietà del loro unico bene in cambio concretamente di abbandono e disinteresse.

Ciò posto, la corte distrettuale concludeva nel senso che l’omessa assistenza di per sè non concretizzasse “ingiuria grave”, di cui all’art. 801 c.c., per legittimare la revocazione della donazione per ingratitudine, non integrando gli estremi di un comportamento che rechi un’offesa all’onore e al decoro del donante, “suscettibile di ledere gravemente il patrimonio morale della persona, si da rilevare un sentimento di avversione che manifesti tale ingratitudine verso colui che ha beneficato l’agente, che ripugna alla coscienza comune”.

Aggiungeva, quanto al grave pregiudizio al patrimonio dei donanti, che non vi era prova di un comportamento dei donatari che avesse “dolosamente arrecato grave pregiudizio al patrimonio di lui”, nè detto comportamento poteva desumersi a posteriori sulla base della omessa assistenza.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di L’Aquila ha proposto ricorso per cassazione P.R., nella qualità di unico erede di PA.Ro. (a sua volta costituito in proprio e quale erede di P.M.), che risulta articolato su un unico motivo, al quale ha resistito P.S., in proprio e quale erede di A.C., con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio deve rilevare preliminarmente che il ricorso in esame è stato proposto da P.R. nella asserita qualità di unico erede di PA.Ro., per cui si pone un problema di accertamento della relativa legitimatio ad causam. In proposito occorre osservare che dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità più recente si ritiene che le condizioni dell’azione – possibilità giuridica, interesse ad agire, legittimazione ad agire e contraddire – debbano essere accertate in relazione non alla loro sussistenza effettiva ma alla loro affermazione con l’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito d’una preliminare valutazione formale dell’ipotetica accoglibilità della domanda e, così configuratele, possa parlarsi di condizioni la cui sussistenza deve essere accertata con riferimento al momento della proposizione della domanda stessa; diversamente, l’accertamento non dell’ipotetica titolarità dell’azione ma dell’effettiva titolarità del rapporto controverso, così dal lato attivo come da quello passivo, attiene al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, quindi, la sua fondatezza. In tale sistematica, la legittimazione o titolarità dell’azione costituisce una condizione dell’azione stessa che si concretizza, dal lato attivo, nel diritto potestativo di ottenere dal giudice una decisione di merito e si risolve nel potere di promuovere il giudizio, inteso ad una sentenza, dichiarativa o costitutiva o di condanna, sul rapporto giuridico sostanziale dedotto ad oggetto di controversia, indipendentemente dalla sussistenza o meno dell’effettiva titolarità attiva del rapporto stesso in capo all’attore, dacchè si determina in base alla sola affermazione di questi della sua titolarità della posizione soggettiva attiva dedotta e per verificarne la sussistenza, devesi avere riguardo solo a quanto dallo stesso affermato, prescindendosi dalla veridicità o meno di tale affermazione. In altri termini, l’accertamento della legittimazione attiva deve rivolgersi alla coincidenza, dal lato attivo, tra il soggetto che propone la domanda ed il soggetto che nella domanda stessa è affermato titolare del diritto. Onde, ove di tale coincidenza risultasse il difetto, rimarrebbe ex actis accertato che, indipendentemente dalla rispondenza a vero dei fatti allegati, comunque l’ipotetico diritto azionato non apparterrebbe a colui che agisce e ciò non può che comportare una pronunzia d’inammissibilità dell’azione per difetto di titolarità attiva o passiva della stessa (e pluribus, da ultimo, Cass. 6-3-2008 n, 6132; Cass. 26.1.2006 n. 1507; Cass. 27.6.2005 n. 13738).

Pertanto, il soggetto che promuova l’azione (e, specularmente, che la contraddica) nell’asserita qualità d’erede d’altro soggetto indicato come originario titolare del diritto fatto valere deve allegare la propria legitimatio ad causam per essere subentrato nella medesima posizione del proprio autore e fornirne, quindi, tramite le opportune produzioni documentali, la necessaria dimostrazione, provando sia il decesso della parte originaria, sia l’asserita qualità di erede della stessa, costituenti i presupposti di legittimazione alla sua successione nel diritto dedotto in giudizio e pertanto alla proposizione dell’azione in proprio nome al posto del defunto titolare del diritto stesso; in difetto di siffatta prova, resta indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto ad agire, dimostrazione il cui onere incombe ex art. 2697 c.c. sulla parte che tale diritto eserciti.

Detta circostanza è rilevabile anche d’ufficio, in quanto attinente alla regolare costituzione del contraddittorio e, quindi, ad inderogabili disposizioni d’ordine pubblico processuale, per cui resta del tutto ininfluente che la questione sia stata o meno sollevata dalla controparte ed in quali termini (e pluribus, recentemente, Cass. 27.1.2011 n. 1943; Cass. 25.6.2010 n. 15352).

Ne consegue che incombe a chi ricorre per cassazione nell’asserita qualità di erede della persona che fece parte del precedente giudizio di merito, l’onere di dare la prova – per mezzo delle produzioni documentali consentite dall’art. 372 c.p.c., debitamente notificate alla controparte (il certificato di morte del loro dante causa, denuncia di successione, dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio ed altri documenti) – del decesso della parte originaria, nonchè della propria assenta qualità, e cioè dei presupposti che dovrebbero legittimare la successione nel processo e, quindi, la proposizione dell’impugnazione in proprio nome, con la conseguenza che in difetto di tale prova il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per mancanza di prova della legittimazione ad impugnare. Nella specie risulta che PA.Ro. ha prodotto esclusivamente copia della dichiarazione sostitutiva di atto notorio e pertanto difetta quantomeno la prova del decesso del suo dante causa (e ciò, per completezza di motivazione, a volere ritenere sufficiente per la dimostrazione dello status di erede la sola dichiarazione sostitutiva di atto notorio, che la giurisprudenza di legittimità ha utilmente valutato solo in ipotesi di erede legittimo).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile; le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2011

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