Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10906 del 08/06/2020

Cassazione civile sez. I, 08/06/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 08/06/2020), n.10906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12324/2019 proposto da:

O.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Lucia Paolinelli, come

da procura speciale in calce al ricorso per cassazione, con la

stessa elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell’Avv.

Enrica Inghilleri;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di ANCONA n. 2105/2018,

pubblicata in data 8 ottobre 2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/02/2020 dal Consigliere CARADONNA Lunella.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. O.P., nato in (OMISSIS), ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Ancona, che, al pari della Commissione territoriale competente, aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o umanitaria.

2. Il richiedente ha dichiarato di essere stato avvicinato da membri del culto Eiye per un reclutamento forzato ed essendosi rifiutato di essere stato minacciato dai membri del culto e più volte arrestato dalla Polizia in quanto sospettato di appartenere al gruppo; che aveva speso tutti i suoi risparmi per essere rilasciato dalla Polizia e che, temendo di essere ucciso dalla banda degli Eiye era fuggito il 28 gennaio 2015 ed era arrivato in Italia il 5 giugno 2016.

3. La Corte di appello di Ancona ha ritenuto insussistenti i presupposti necessari per il riconoscimento di ciascuna delle forme di protezione invocate, sulla base delle dichiarazioni del richiedente giudicate non credibili, della mancanza di un effettivo rischio nell’ipotesi di rientro nel Paese d’origine alla luce della concreta situazione socio-politica del suo Paese di provenienza e dell’assenza di lesioni di diritti umani.

4. O.P. ricorre in cassazione con tre motivi.

5. L’Amministrazione intimata ha presentato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va rilevata la tardività della documentazione prodotta dalla parte ricorrente, atteso che nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di atti e documenti che non siano stati prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero concernano nullità inficianti direttamente la decisione impugnata, nel qual caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., rimanendo inammissibile la loro produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 c.p.c. (Cass., 12 novembre 2018, n. 28999).

2. Con il primo motivo O.P. lamenta la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 1 (A) della Convenzione di Ginevra; dell’art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e art. 11.

Ad avviso del ricorrente la Corte di appello ha motivato in modo tautologico ed apparente sulla non credibilità del racconto e ha omesso la disamina della storia personale del richiedente, ovvero la sua contestualizzazione nel paese di origine e non ha applicato nello sviluppo argomentativo della decisione impugnata i parametri normativi di credibilità del racconto del richiedente previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte distrettuale, condividendo le motivazioni del primo Giudice, ha ritenuto il racconto del richiedente generico, confuso, sfornito di prova e le risposte date evasive non avendo saputo riferire alcune circostanze specificamente indicate a pag. 3 della sentenza impugnata.

Inoltre, ad avviso della Corte territoriale il pregiudizio dedotto dal ricorrente non era in alcun modo ricollegabile a persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, attuata o tollerata dallo Stato.

Tanto premesso, questa Corte, in materia di protezione internazionale, ha affermato che “il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, verifica sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21142).

2.2 Nel caso di specie la decisione censurata ha valutato, seppure in modo sintetico, ma non apodittico, le dichiarazioni rese dal ricorrente, rilevando la sussistenza di contraddizioni nel racconto e giungendo ad una valutazione complessiva di non credibilità, fondata su un controllo di logicità del racconto del richiedente.

Peraltro la valutazione compiuta dal giudice del merito al riguardo non è sindacabile in sede di legittimità sul piano della violazione di legge, ma solo nei limiti del sindacato motivazionale consentito dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati.

Il motivo, sotto lo specifico profilo esaminato, è quindi infondato perchè la motivazione esiste ed è basata su risultanze di causa specificamente richiamate e valutate dal collegio giudicante e quindi sorretta da un contenuto non inferiore al “minimo costituzionale”, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte, così da sottrarsi al sindacato di legittimità della stessa e alla conseguente valutazione di “anomalia motivazionale” delineata, per quanto detto, come violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053).

2.3 Per quel che concerne la protezione sussidiaria erra, poi, l’istante a dolersi della mancata spendita, da parte dei giudici del merito, dei doveri di cooperazione istruttoria contemplati in tema di protezione internazionale.

La Corte di appello, oltre a dare atto che, in base a quanto emergeva dalle fonti internazionali, specificamente richiamate (pagine 3 e 4) che in Nigeria non vi era una situazione di violenza indiscriminata nella zona di provenienza dell’appellante, ha pure precisato che le confraternite sono organizzazioni criminali complesse con molteplici attività e con legami di vario genere che possono affrancarsi al potere politico ed economico non diversamente dalle varie mafie italiane, che sono contrastate dalle autorità nigeriane, seppure con molta difficoltà.

I giudici di secondo grado hanno precisato pure che, in relazione ad eventuali violenze di tipo privato come quella dedotta, non risultava che il richiedente non fosse in condizioni di avvalersi della protezione del suo paese non avendo denunciato i fatti e non evidenziandosi una collusione o tolleranza nei confronti di dette associazioni criminali da parte delle autorità di sicurezza del Paese, con la conseguenza che non appariva esistente il pericolo che il ricorrente nel Paese d’origine potesse essere esposto al rischio effettivo di subire un danno grave come specificato nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

Deve peraltro sottolinearsi che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui all’art. 14, lett. c) citato, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, sicchè non può essere rivalutato in questa sede, con l’impugnazione proposta, il giudizio espresso dalla Corte di appello sulla scorta delle informazioni da essa acquisite (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass. 21 novembre 2018, n. 30105).

3. Con il secondo motivo O.P. lamenta la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della legge nazionale e sovranazionale inerente il permesso di soggiorno per motivi umanitari, in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, commi 6 e 19, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32; dell’art. 3 CEDU e art. 10 Cost.; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) b) e c). Vulnerabilità de richiedente (pericolo di sradicamento). Necessità di salvaguardare l’alto grado di integrazione sul territorio.

Ad avviso del ricorrente anche sotto il profilo della protezione umanitaria la Corte distrettuale doveva verificare la situazione di grave instabilità politica e sociale presente in Nigeria, anche acquisendo informazioni attendibili sulla situazione del paese di provenienza del ricorrente.

3.1 Il motivo è fondato.

La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass., 9 ottobre 2017, n. 23604).

Inoltre, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, ma è necessario che l’accertamento sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti. (Cass., 12 novembre 2018, n. 28990).

E ciò secondo l’orientamento di questa Corte secondo cui il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass., 23 febbraio 2018, n. 4455;Cass. 15 maggio 2019, n. 13079;Cass., Sez. U., 1:3 novembre 2019, n. 29459).

La Corte territoriale al riguardo è incorsa in motivazione apparente per ciò che concerne l’integrazione lavorativa e sociale, non confrontandosi con le allegazioni e i documenti prodotti del richiedente, e non pertinente laddove afferma che l’inattendibilità del ricorrente esclude l’esistenza di una condizione di vulnerabilità in caso di rientro nel paese di origine.

La motivazione è, infatti, fondata su una mera formula di stile, riferibile a qualunque controversia, disancorata dalla fattispecie concreta e sprovvista di riferimenti specifici, del tutto inidonea dunque a rivelare la “ratio decidendi” e ad evidenziare gli elementi che giustifichino il convincimento del giudice e ne rendano dunque possibile il controllo di legittimità (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

3. Il terzo motivo, con il quale O.P. lamenta la violazione di legge, artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione alla condanna sulle spese di lite, rimane assorbito.

4. In conclusione la decisione impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Ancona in diversa composizione per il riesame e la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo e, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Ancona, anche per le spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2020

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