Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10905 del 18/04/2019

Cassazione civile sez. trib., 18/04/2019, (ud. 26/03/2019, dep. 18/04/2019), n.10905

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20089/2012 R.G. proposto da:

G.A., rappresentato e difeso, anche disgiuntamente,

dall’Avv. Giulio Gaeta e dall’Avv. Carlo Gaeta, con domicilio eletto

in Roma, Via G. Palumbo n. 26, presso la societù E.P. s.p.a.,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso la stessa, domiciliata, in Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania, n. 48/1/2012, depositata il 1 febbraio 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 marzo 2019

dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento in data 20-10-2009 nei confronti di G.A., esercente attività di bar e caffè, per l’anno 2006, a seguito di accesso del 24-4-2009, utilizzando gli studi di settore, sia disconoscendo costi indeducibili e non inerenti (rispettivamente per Euro 28.548,00 ed Euro 706,76, oltre a Euro 4.068,00 relativi a quote di ammortamenti ritenuti non deducibili), sia accertando maggiori ricavi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, con riferimento alla vendita di caffè, per Euro 74.128,95, di prodotti di pasticceria per Euro 82.733,20, e per vendite di bibite, gelati e caramelle per Euro 37.562,08, per complessivi Euro 194.424,23, a fronte di ricavi dichiarati pari ad Euro 101.202,00.

2. La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso, con sentenza che veniva confermata dalla Commissione tributaria regionale, la quale evidenziava che era decorso il termine di sessanta giorni dall’accesso del 24-4-2006, essendo stato emesso l’avviso di accertamento il 20-10-2009, che i 15 kg di caffè in giacenza, e non più esistenti tra le rimanenze, al momento dell’accesso, erano stati venduti nel 2006, che le percentuali di ricarico applicate dall’Agenzia (300% per i prodotti di pasticceria e 100% per gli altri prodotti) erano inferiori a quelle degli studi di settore (rispettivamente 600-700% e 200%), che il contribuente non aveva offerto alcuna prova contraria.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.

4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, (per carenza di motivazione in ordine alla percentuale applicata)”, in quanto l’atto impositivo risulta privo di motivazione, mentre la Commissione regionale si è limitata ad una “tautologica affermazione” in ordine alle percentuali di ricarico applicate dall’Ufficio.

1.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, per questa Corte, nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento (nella specie, risultante “per relationem” ad un processo verbale di constatazione) è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento (Cass., 9536/2013; Cass., 28 giugno 2017, n. 16147). Nella specie, il ricorrente non ha riportato e trascritto il contenuto dell’avviso di accertamento, non consentendo a questa Corte di verificare se la Commissione regionale lo abbia compiutamente esaminato.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 10 e 12, ed L. n. 4 del 1929, art. 24”, in quanto l’avviso di accertamento non è stato preceduto dalla redazione di un processo verbale di constatazione, nè da atti endoprocedimentali tesi all’instaurazione di un contraddittorio preventivo, ma solo dal processo verbale di accesso, nel quale non era formulato alcun rilievo.

2.1. Tale motivo è infondato.

Invero, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, “dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.

Pertanto, una volta effettuato l’accesso presso i locali dell’impresa, l’unico limite imposto alla Agenzia delle entrate è quello di attendere il decorso del termine di sessanta giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, prima di emanare l’avviso di accertamento.

Infatti, per giurisprudenza di legittimità consolidata, confortata anche da una decisione delle sezioni unite, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio (Cass. Civ., Sez. Un., 29 luglio 2013, n. 18184).

Non vi è, dunque, l’obbligo per l’Agenzia delle entrate di redigere un vero e proprio processo verbale di constatazione, con indicazione delle violazioni riscontrate, e di invitare formalmente la parte al contraddittorio endoprocedimentale.

Una volta consegnato il verbale di chiusura delle operazioni di controllo, sottoscritto, tra l’altro dal contribuente, questi ha a disposizione il termine di giorni sessanta per comunicare osservazioni o richieste.

Infatti, per questa Corte il termine dilatorio di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo – in applicazione di tale principio la S.C. ha escluso la nullità dell’avviso di accertamento notificato nel rispetto del termine “de quo” con riferimento ad un verbale di accesso, nonostante l’assenza di un successivo processo verbale di constatazione – (Cass., 2 luglio 2014, n. 15010).

La L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, infatti, si riferisce, in generale, ai verbali di chiusura delle operazioni di accesso, ispezione o verificati nei locali dell’impresa, con la finalità di ampliare e potenziare il diritto al contraddittorio nella fase d’indagine. Non ha, dunque, rilievo la denominazione formale dei verbali redatti dai verificatori, sicchè il termine dilatorio di sessanta giorni deve essere rispettato anche qualora il verbale, non denominato formalmente come “processo verbale di constatazione”, sia un verbale solo meramente descrittivo delle operazioni di verifica.

Ciò, peraltro, indipendentemente dalla circostanza che l’operazione abbia o meno comportato constatazione di violazioni fiscali (Cass., 4565/2019).

Nel caso in esame, il verbale di chiusura delle operazioni è stato redatto il 24-4-2009, mentre l’avviso di accertamento è stato emesso il 20-10-2009, quindi dopo il decorso del termine dilatorio di sessanta giorni.

3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, nonchè D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies”, in quanto sarebbero assenti le presunzioni gravi, precise e concordanti tali da dimostrare maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati. Sarebbero mancati, dunque, i presupposti per procedere con il metodo analitico-induttivo. Nell’atto impositivo, poi, non sarebbe stato contestato alcuno scollamento tra le merci in rimanenza e le fatture di acquisto, senza alcuna differenza nei valori degli inventari. Nè vi sarebbe stata grave incongruenza ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, solo quando raggiunga livelli di abnormità ed irragionevolezza tali da privare la documentazione contabile di ogni attendibilità, concretando diversamente tale difformità un mero indizio (Cass., 7 luglio 2017, n. 16773; Cass., 9 dicembre 2013, n. 27488, con riferimento alla applicazione di un saggio di ricarico medio del 78% a fronte di quello dichiarato pari al 19,87%; Cass., 24 settembre 2010, n. 20201).

Nel caso, in esame, infatti, la Commissione regionale ha affermato che “le percentuali di ricarico poi pari al 300% per i prodotti di pasticceria e gelateria e al 100% per gli altri prodotti” applicate dall’Agenzia delle entrate, si presentano congrue rispetto a quelle superiori praticate negli studi di settore dell’attività in questione (600-700% per i primi e 200% per i secondi)”.

Inoltre, altro elemento indiziario di spessore è costituito dalla giacenza nel 2006 di Kg 15 di caffè, non più presenti tra le rimanenze al momento dell’accesso, sicchè si presume “che siano stati consumati in tazzine destinate alla vendita”. Ciò per “una considerata ripetizione di eguale quantità di caffè acquistata e consumata negli anni successivi”.

La Commissione regionale ha anche aggiunto che elementi presuntivi giungevano dallo “scollamento tra i beni indicati nelle fatture di acquisto, le merci in rimanenza e i ricavi dichiarati”.

Peraltro, le percentuali di ricarico sono state diversificate in ragione delle differenze tra i prodotti venduti, con applicazione, dunque, non della media aritmetica, ma della media ponderata (Cass., 4 marzo 2015, n. 4321; Cass., 27 dicembre 2018, n. 33458; Cass., 22 ottobre 2018, n. 26589).

Sussistono, poi, le gravi incongruenze, in quanto i ricavi accertati sono stati di Euro 194.424,23 a fronte di ricavi dichiarati per Euro 101.202,00.

4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta “omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, in quanto la Commissione regionale ha affermato che il contribuente non ha offerto alcuna prova contraria a superare le presunzioni dell’accertamento induttivo, mentre nell’appello il ricorrente ha indicato e prodotto, nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, tutta la documentazione, non contestata dalla Agenzia delle entrate, idonea a dimostrare l’effettività delle spese sostenute. In particolare, il ricorrente nell’atto di appello ha indicato le copie delle fatture di acquisto dei beni, un prospetto riepilogativo con l’indicazione dei prodotti e dei servizi acquistati, i canoni di locazione pagati per il locale bar, i contratti di locazione regolarmente registrati con data certa, il costo dell’ammortamento relativo al banco pasticceria-gelateria, di Euro 40.686,47, con una quota di ammortamento di Euro 4.068,65.

4.1. Tale motivo è fondato.

In effetti, limitatamente ai costi ritenuti indeducibili, la Commissione regionale ha del tutto trascurato le circostanze di fatto ed i documenti probatori, analiticamente indicati nel ricorso, addotti nel corso del giudizio di primo grado e non contestati dalla Agenzia delle entrate, sicchè, limitatamente a questa parte dell’avviso di accertamento dedicata al disconoscimento dei costi ritenuti indeducibili, non v’è stato l’esame di documenti che risultano decisivi ai fini della soluzione della controversia.

La Commissione regionale dovrà, dunque, procedere ad una valutazione degli elementi probatori addotti dal contribuente, ai fini della deducibilità dei costi sostenuti dal contribuente.

5. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo di ricorso; dichiara inammissibile il primo e rigetta il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 26 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2019

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