Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10867 del 18/05/2011

Cassazione civile sez. un., 18/05/2011, (ud. 05/04/2011, dep. 18/05/2011), n.10867

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Pres.te f.f. –

Dott. DE LUCA Michele – Presidente sezione –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato GANINO BRUNO, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DICASSAZIONE, MINISTERO

DELLA GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 155/2010 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 06/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/04/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE;

udito il P.M. in persona dell’avvocato Generale Dott. CENICCOLA

Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza indicata in epigrafe la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha inflitto la sanzione della censura alla dott. P.P.S., dichiarata responsabile “dell’illecito disciplinare di cui al R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, tipizzato – a decorrere dal 19 giugno 2006 – dagli D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 1 e 2, comma 1, lett. a) e g), perchè, nell’esercizio delle proprie funzioni, quale giudice istruttore assegnatario, per il periodo dal 17/9/1996 al 5/7/2006, della causa n. 769/1982 R.G. del Tribunale di Vibo Valentia mancando al proprio dovere di diligenza e laboriosità, ne protraeva ingiustificatamente la durata; in particolare, la dott.ssa P.:

a) ha atteso quasi tre anni per la sostituzione del consulente tecnico d’ufficio inadempiente; b) ha poi richiesto un supplemento di perizia, avendo in seguito concesso udienze di mero rinvio (dal 16/11/2001 al 17/11/2003); c) infine, dopo che la causa era stata rinviata avanti al collegio ed assunta in decisione, l’ha rimessa sul ruolo per ulteriori chiarimenti del consulente tecnico. Con tale comportamento la Dr.ssa. P. si è resa immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, con compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario ed ha arrecato un ingiusto danno alle parti contribuendo a procrastinare, per molti anni, la definizione della causa. Per le conseguenze che ne sono derivate (il Ministero della giustizia è stato infatti condannato al pagamento dell’indennizzo ex L. n. 89 del 2001 dalla Corte di appello di Salerno con decreto 2078/08 in data 31/7/2008) e per la durata inadeguata conduzione della causa, la condotta della dr.ssa P. integra anche violazione grave, determinata da inescusabile negligenza, degli artt. 24 e 111 Cost., comma 2, nonchè dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848, concernenti tutti il principio della effettività della tutela dei diritti, da attuarsi in un processo che si svolga in tempi ragionevoli. Nei confronti dell’incolpata risultano già esercitate azioni disciplinari anche per fatti analoghi e, per quel che rileva specificamente nella presente incolpazione, per l’omesso deposito del provvedimento assunto in riserva dal collegio in data 5/7/2006 per un periodo di ritardo di 288 giorni nel medesimo procedimento n. 769/1982 R.G. (cfr. proc. N. 85/08/D di iniziativa del Ministro della giustizia in data 9/7/2008). Notizia circostanziata dei fatti acquisita il 7 settembre 2009”.

Contro tale sentenza la dott. P.P.S. ha proposto ricorso per cassazione, in base a nove motivi. Il ministro della giustizia non ha svolto attività difensive nel giudizio di legittimità.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta che erroneamente è stato disconosciuto dal giudice a quo che la contestazione rivoltale era affetta da indeterminatezza, derivante dal richiamo sia alle norme previgenti sia a quelle attuali disciplinanti la responsabilità disciplinare dei magistrati.

La censura è infondata.

Esattamente nella sentenza impugnata si è osservato che l’addebito risultava chiaro e preciso, essendo stati puntualmente indicati i fatti di cui la dott. P.P.S. era chiamata a rispondere, costituenti singoli episodi di una condotta unitaria iniziata quando erano ancora operanti le disposizioni del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511 e protrattasi nel periodo in cui erano state sostituite da quelle del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109. Di tali normative la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura – uniformandosi alla giurisprudenza di questa Corte in materia: v. Cass. s.u. 21 gennaio 2010 n. 967 – ha ritenuto pertinente nella specie soltanto la seconda, ma la citazione di entrambe nel capo di incolpazione non ha comportato alcuna violazione del principio di determinatezza, il quale attiene all’individuazione dei fatti, essendo rimessa al giudice la loro qualificazione giuridica, ai sensi dell’art. 521 c.p.p., che è applicabile anche ai giudizi disciplinari nei confronti di magistrati, in forza de rinvio disposto dal citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18. Eventuali errori nell’indicazione delle norme violate – salvo che determinino una menomazione dell’esercizio del diritto di difesa, che dalla ricorrente non viene dedotta – non inficiano quindi la validità della contestazione: v. Cass. 17 ottobre 2006, Romano.

Connessa con la doglianza formulata con il primo motivo di ricorso è quella contenuta nel sesto, con il quale si deduce che si sarebbe dovuto giudicare alla stregua delle previsioni del D.Lgs. n. 511 del 1946, più favorevoli per alcuni aspetti di quelle del D.Lgs. n. 109 del 2006, poichè per il periodo successivo all’entrata in vigore di quest’ultimo, avvenuta il 19 giugno 2006, nessun illecito disciplinare era stato attribuito alla dott. P.P. S..

Neppure questa censura può essere accolta.

Come già si è detto, correttamente nella sentenza impugnata si è ritenuto – in coerenza con il tenore dell’incolpazione, sopra testualmente trascritto nell’esposizione dello svolgimento del processo – che oggetto dell’addebito fosse una stessa complessiva condotta, protrattasi anche dopo la data suddetta, da valutare quindi unitariamente, secondo la disciplina sopravvenuta. Non rileva quindi l’anteriorità, rispetto a quella data, dei singoli episodi menzionati “in particolare” nella contestazione, la cui essenza consiste nell’aver prolungato l’istruzione di una causa, fino a dopo il 19 giugno 2006, oltre ogni limite di tollerabilità.

Con il quinto motivo la ricorrente lamenta che a tale qualificazione di unitarietà la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura è pervenuta utilizzando impropriamente istituti del diritto penale sostanziale, come quelli del concorso di reati, della continuazione, della permanenza e delle circostanze aggravanti.

Anche questa doglianza va disattesa.

Così come un reato, anche un illecito disciplinare può consistere nella protrazione nel tempo di un comportamento indebito, come appunto quello di cui la dott. P.P.S. è stata dichiarata responsabile, sicchè pertinentemente il giudice a quo ha richiamato la nozione della permanenza, osservando che il termine iniziale della prescrizione, eccepita dall’incolpata, doveva essere individuato nel momento della cessazione della violazione dei doveri in cui ella era incorsa, anzichè in quello delle particolari condotte in cui tale violazione si era manifestata.

Quanto poi alle circostanze, è sufficiente rilevare che la menzione, nel capo di incolpazione, di un altro procedimento disciplinare pendente nei confronti della dott. P.P.S., è stata considerata dal giudice a quo come segnalazione avente funzione meramente informativa e non come ragione di aggravamento della sanzione, che è stata irrogata peraltro nel minimo.

Per questa stessa ragione va disattesa la deduzione della ricorrente, pure contenuta nel quinto motivo di ricorso, con cui viene prospettata la violazione del principio del ne bis in idem, in base al rilievo che il suddetto ulteriore procedimento ha per oggetto il presunto ritardo nello scioglimento di una riserva assunta il 5 luglio 2006, proprio nella stessa causa cui si fa riferimento in questo giudizio.

Gli altri motivi di ricorso possono essere presi in esame congiuntamente, poichè in tutti, con argomentazioni analoghe, si sostiene che erroneamente e ingiustificatamente la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato la dott. P.P.S. responsabile dell’illecito attribuitole: ha trascurato le risultanze processuali e omesso di assumere le prove che dimostravano la diligenza e la solerzia con cui l’incolpata aveva svolto l’istruzione estremamente gravosa della causa in questione; ha mancato di tenere in considerazione l’eccezionale laboriosità da lei dimostrata in generale nello svolgimento dei suoi compiti professionali; le ha addebitato l’adozione di provvedimenti collegiali; ha omesso di considerare che la Corte d’appello di Salerno, con il decreto emesso ai sensi della “legge Pinto” non aveva affermato che le parti del giudizio in questione avessero subito un danno; ha presupposto una compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario in realtà insussistente, non avendo avuto la vicenda ripercussioni esterne.

Neppure queste censure possono essere accolte.

Si verte in tema di accertamenti di fatto e apprezzamenti di merito adeguatamente motivati nella sentenza impugnata, nella quale è stato dato conto in maniera esauriente e logicamente coerente delle ragioni della decisione: non si è disconosciuto che la conduzione di quel giudizio presentasse notevoli difficoltà, ma si è escluso che queste potessero spiegare ragionevolmente, dopo che era già in corso da quattordici anni, la sua ulteriore pendenza per gli altri dieci in cui ne era stata assegnatala la dott. P.P.S., per una durata che palesemente appare inaccettabile; non si è negato che l’incolpata potesse avere particolari capacità professionali, o un carico di lavoro notevole, ma si è correttamente escluso che ciò potesse giustificare l’incuria dimostrata nella trattazione della causa di cui si tratta, non dovendosi provvedere a una valutazione complessiva del magistrato, ma della condotta che in sede disciplinare gli era stata addebitata; si sono argomentatamente esposte le ragioni per cui i particolari atti, anche collegiali, specificati nel capo di incolpazione, sono stati reputati come denotanti una inescusabile trascuratezza; di essi non si è sindacato il merito, ma si è posto in risalto il grave ritardo con cui erano stati adottati, a causa del mancato rilievo delle situazioni che ostacolavano una sollecita definizione del giudizio; non si è automaticamente desunta la sussistenza della responsabilità disciplinare dalla condanna pronunciata dalla Corte d’appello di Salerno, ma si è osservato che la vana protrazione della causa per dieci anni aveva comunque comportato indiscutibilmente l’ingiusto danno contestato nel capo di incolpazione, anche per l’attrice, pur se infine il giudizio si era concluso sfavorevolmente per lei; non si è affrontata la questione della compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario, trattandosi di un requisito non più richiesto dalle nuove previsioni degli illeciti disciplinari dei magistrati, che sono state ritenute unicamente applicabili in questo giudizio.

Il ricorso viene pertanto rigettato.

Non vi è da provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, nel quale il Ministro della giustizia non ha svolto attività difensive.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2011

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