Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10866 del 23/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 23/04/2021, (ud. 17/12/2019, dep. 23/04/2021), n.10866

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2694/2016 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

EUROPA 190, presso lo studio dell’avvocato MARCO MELE, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANNA MARIA ROSARIA

URSINO, ROSSANA CLAVELLI;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RIZZO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5195/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/07/2015 R.G.N. 3493/2011.

 

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata in data 23.7.2015, ha accolto il gravame interposto da C.A., nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avverso la pronunzia del Tribunale di Roma n. 13469/2010, resa il 20.9.2010, che aveva “accertato e dichiarato che la somma spettante ad C.A.” – come stabilito dalla sentenza della Corte di Appello di Roma n. 4165/2006, con la quale era stato dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al medesimo da Poste Italiane S.p.A. e disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna della società al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto non percepite dal C. dalla data del licenziamento (31.12.2001) alla reintegra “comprensiva di interessi legali e rivalutazione monetaria, è pari ad Euro 125.807,14” e, per l’effetto, aveva dichiarato “la insussistenza del credito vantato da Poste Italiane S.p.A. per la parte eccedente la suddetta somma”;

che la Corte di Appello, in riforma della sentenza impugnata, ha rigettato l’opposizione proposta con il ricorso di primo grado da Poste Italiane S.p.A., la quale riteneva che “le retribuzioni spettanti al C. per il periodo 1.1.2002/30.10.2006 erano pari ad Euro 103.080,37,….da cui doveva detrarsi quanto corrisposto al C. a titolo di indennità sostitutiva del preavviso e TFR; pertanto, la somma totale per la quale il medesimo avrebbe potuto procedere ad esecuzione forzata sarebbe stata pari alla somma lorda di Euro 101.056,29”; che per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso C.A.;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., in relazione all’art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, per avere la Corte territoriale erroneamente rilevato che “in sede di opposizione ex art. 615 c.p.c., soprattutto nei casi di titolo giudiziale, possono farsi valere solo i fatti successivi alla formazione del titolo che documenta la pretesa creditoria. In ogni caso, anche a voler entrare nel merito della pretesa creditoria valorizzando l’ampia formulazione della norma che consentirebbe di contestare, in ogni suo momento ed aspetto, il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, il dispositivo della sentenza di secondo grado, pur commisurando il risarcimento del danno alle retribuzioni globali di fatto non percepite dal C. senza indicarne l’ammontare, costituiva valido titolo per azionate la procedura esecutiva”; secondo la parte ricorrente, la sentenza impugnata non appare condivisibile laddove si afferma che siffatto decisum potesse costituire valido titolo per azionare la procedura esecutiva; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., in relazione all’art. 416 c.p.c., comma 3, nella parte in cui nella sentenza si rileva che “nella fattispecie, risulta per tabulas l’espressa indicazione da parte del lavoratore, sia nel ricorso introduttivo di primo grado che nell’atto di gravame, dell’importo della retribuzione fissa mensile lorda di Euro 6.747,70, cui parametrare il risarcimento del danno conseguente alla invocata declaratoria di illegittimità del licenziamento, sicchè deve ritenersi che su tale deduzione il contraddittorio tra le parti, come richiesto dalla Suprema Corte, sia stato ampiamente realizzato. La mancata contestazione di Poste sulla misura di tale retribuzione comporta dunque che il relativo importo debba considerarsi come atto definitivamente ed inequivocabilmente acquisito, idoneo, pertanto, in base al principio giurisprudenziale sopra richiamato, ad integrare il contenuto del titolo giudiziale posto in esecuzione”, in quanto non sarebbe fondata l’equiparazione operata dalla Corte di merito, secondo cui il quantum dovuto a controparte discenderebbe dalla mancata contestazione di Poste Italiane in funzione della generica statuizione contenuta nella sentenza n. 4165/2016 della Corte di Appello di Roma;

che il primo motivo non è fondato, in quanto – anche a voler prescindere dal fatto che manca la censura della sentenza di appello nella parte in cui ha dichiarato la validità del dispositivo della sentenza n. 4165/2006 azionato in via esecutiva, la cui statuizione è dunque coperta dal giudicato -, ai sensi dei consolidati arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità (Cass., SS.UU. n. 11066/2012; Cass. n. 9161/2013), “Costituisce valido titolo esecutivo, ex art. 474 c.p.c., la sentenza recante la condanna al pagamento di un credito non specificamente determinato, ma comunque determinabile, attraverso dati provenienti da fonti normative e con semplici calcoli aritmetici effettuati sulla scorta di dati desumibili da atti e documenti prodotti nel giudizio e non contestati”, come nella fattispecie, “dall’altra parte”; pertanto, il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi della suddetta norma, non si identifica, nè si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo consentita l’integrazione del provvedimento con elementi contestuali, purchè idoneamente richiamati, come nel caso di specie, in modo da rendere possibile l’esecuzione concreta dell’obbligo;

che neppure il secondo motivo può essere accolto, per carenza di specificità, non essendo neppure stata contestata la retribuzione mensile globale di fatto lorda ed altresì per mancanza dei documenti cui si fa espresso riferimento, non prodotti (e neppure indicati nell’elenco di quelli offerti in comunicazione unitamente al ricorso per cassazione), nè trascritti, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce (arg. ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle doglianze svolte dalla ricorrente e, dunque, anche sotto tale profilo, le censure mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di appello si risolvono in considerazioni di fatto e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;

che le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo – e da distrarsi, ai sensi dell’art. 93 c.p.c., in favore del difensore del C., avv. Roberto Rizzo, dichiaratosi antistatario -, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, da distrarsi. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2021

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