Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10861 del 08/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 08/06/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 08/06/2020), n.10861

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23673/2014 proposto da:

COMUNE DI DRAGONI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ENNIO Q. VISCONTI 11, presso lo studio

dell’avvocato ANGELA FIORENTINO, rappresentato e difeso

dall’avvocato FRANCESCO PASQUARIELLO;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 74,

presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI,

rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO CAROZZA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 973/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 19/02/2014, R.G.N. 10740/2010.

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’Appello di Napoli, accogliendo il gravame proposto avverso la sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, ha condannato il Comune di Dragoni al risarcimento del danno in favore di C.G. per illegittimo ricorso alla contrattazione a termine, nella misura di dieci mensilità della retribuzione, oltre accessori;

la Corte riteneva l’illegittimità del secondo contratto a tempo determinato, stipulato il 28.11.2001, per mancanza di indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificassero l’assunzione a termine e liquidava il risarcimento nella misura predetta sul presupposto del lungo periodo nel quale il C. era stato poi alle dipendenze del Comune, in virtù di ripetuti contratti a termine ed il breve lasso di tempo intercorso tra l’ultimo di essi ed il deposito del ricorso giudiziario;:

il Comune di Dragoni ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, resistiti da controricorso del C..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo il Comune denuncia, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, in relazione agli artt. 1223, 1226 e 2697 c.c., oltre che all’art. 100 c.p.c., per avere la Corte territoriale indebitamente sostenuto che il danno potesse essere ritenuto in re ipsa, per il solo fatto della stipula di un illegittimo contratto a termine;

il motivo è infondato;

si deve premettere che la Corte territoriale, come emerge dalla parte relativa alla liquidazione del danno, se ha preso le mosse dall’illegittimità del secondo contratto intercorso tra le parti, ha poi considerato il ripetersi per sei anni di rapporti a tempo determinato con il medesimo dipendente, così mostrando di avere sanzionato, con la pronuncia di condanna, non l’illegittimità del singolo contratto, ma il ricorso abusivo alla reiterazione di contratti a termine;

su tale premessa non può poi che farsi applicazione del principio sancito dalle S.U. di questa Corte secondo cui “in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicchè, mentre va escluso siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto” (Cass., S.U., 15 marzo 2016, n. 5072);

con il secondo motivo il Comune denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, sostenendo l’eccessività della misura del risarcimento, in quanto la valutazione di esso sulla base dei parametri di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8 (dimensione dell’impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro e comportamento delle parti) avrebbe giustificato un riconoscimento non superiore alla media tra minimo e massimo delle mensilità previste dall’art. 32 cit. e dunque in sei mensilità dell’ultima retribuzione percepita;

il motivo è inammissibile, in quanto attraverso esso si pretende dalla Corte una diversa ponderazione di merito sulla misura del risarcimento svolta, non implausibilmente, dalla Corte territoriale;

la sentenza di appello ha fatto leva, per l’innalzamento della predetta misura, sul lungo periodo (sei anni) nel corso del quale si sono reiterati i contratti a termine (facendo dunque applicazione del criterio del comportamento delle parti, con riferimento alla complessiva dei rapporti che è palesemente espressione della gravità dell’accaduto), salvo poi, evidentemente al fine di non addivenire al massimo edittale, valorizzare anche il breve periodo intercorso tra la cessazione dell’ultimo contratto e il deposito del ricorso giudiziario;

questa Corte ha del resto già affermato – in ambito strettamente contiguo – che “la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 – che richiama i criteri indicati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 – spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria” (Cass. 10 ottobre 2019, n. 25484; Cass. 31 marzo 2014, n. 7458; Cass. 17 marzo 2014, n. 6122; v. già Cass. 5 gennaio 2001, n. 107);

su tali presupposti, si deve quindi semplicemente chiarire come l’incentrarsi della motivazione solo su uno degli elementi da considerare non significhi attribuzione di irrilevanza agli altri, ma faccia più semplicemente presumere che, nell’economia del giudizio di merito, la gravità del parametro considerato (qui, la notevole durata complessiva dei successivi contratti a termine) sia stata ritenuta prevalente ed assorbente rispetto ad ogni diverso aspetto;

al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge, con attribuzione all’Avv. Domenico Carrozza, antistatario.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2020

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