Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10846 del 04/05/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. lav., 04/05/2017, (ud. 30/01/2017, dep.04/05/2017),  n. 10846

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12627-2015 proposto da:

S.A., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR

presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO ALDO COLANTONIO, RENATO

D’ISA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA

TAMAJO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6468/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/11/2014 R.G.N. 10366/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/01/2017 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per inammissibilità in

subordine rigetto.

udito l’Avvocato ROBERTO COLANTONIO per delega Avvocato MARIO ALDO

COLANTONIO;

udito l’Avvocato BENEDETTA GAROFALO per delega verbale Avvocato

RAFFAELE DE LUCA TAMAJO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1 La Corte di Appello di Roma, con la sentenza n.6468/2014, respingeva l’appello proposto da S.A. contro la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole in data 29 marzo 2010 da Poste Italiane SPA.

2. A fondamento della pronuncia la Corte territoriale riteneva provata la sua responsabilità per i fatti addebitatile, la loro gravità, la proporzionalità della sanzione anche alla luce della disciplina collettiva (art. 56, lett. C) CCNL di settore), attesa la sussistenza di una precedente sanzione disciplinare della multa pari a 4 ore di retribuzione, l’insussistenza delle dedotte giustificazioni in ordine al comportamento addebitato adottato reiteratamente, in violazione di varie e fondamentali procedure di sicurezza, per importi di notevole entità (“per un totale complessivo di Euro 388.051,00”); sì da far venire meno l’elemento fiduciario che deve connotare il rapporto di lavoro.

Avverso detta sentenza S.A. propone ricorso per cassazione affidando le proprie censure a cinque motivi. Resiste Poste Italiane Spa con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONE DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorso denuncia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 2119 c.c., artt. 54, 55, 56 e 57 e art. 76 lett. e CCNL dell’1.7.2007, violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionale di lavoro; genericità della contestazione in riferimento alle norme disciplinari violate, conseguente nullità del licenziamento, violazione degli artt. 1362, 1175 e 1375 c.c. per difetto di specificità della contestazione. A fondamento della censura si sostiene che la contestazione disciplinare elevata alla ricorrente fosse generica, non riconducesse il fatto storico contestato ad alcuna della ipotesi individuate nelle singole norme contrattuali richiamate e che anche il provvedimento di licenziamento abbia omesso di individuare il comportamento astrattamente sanzionabile. Sarebbero stati così violati i dritti di difesa, perchè è stato contestato l’intero comparto disciplinare senza specificare quale norma si assuma violata.

1.1. Il motivo è inammissibile, anzitutto perchè è passato in giudicato il capo della sentenza di primo grado che aveva riconosciuto la regolarità procedurale e formale del licenziamento, siccome in appello non risulta proposto sul punto alcuna impugnazione.

Il motivo è anche privo di fondamento perchè (come questa Corte ha più volte affermato; tra le altre, Cass. 6898/2016, 22236/2007, 18377/2006) il requisito di specificità della contestazione riguarda i fatti e non le regole violate rientrando nei poteri del giudice la qualificazione giuridica del fatto; la contestazione è finalizzata a consentire la difesa del lavoratore, che nel caso in esame si è ampiamente dispiegata nel merito degli addebiti fin dalla fase procedimentale e cautelare ex art. 700 c.p.c..

2. Con il secondo motivo si denuncia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 2118 e 2119 c.c., artt. 54, 55, 56 e 57 e art. 76 lett. e) CCNL dell’1.7.2007, 1362 c.c., violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; insussistenza della giusta causa.

3. Con il terzo motivo si denuncia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 2118 e 2119 c.c., artt. 54, 55, 56 e 57 e art. 76, lett. e CCNL dell’1.7.2007, violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionale di lavoro.

4. Con il quarto motivo si denuncia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., artt. 54, 55 e 56 e art. 57 del CCNL applicato e della L. n. 300 del 1970, art. 7 violazione o falsa applicazione delle norme richiamate, mancata proporzione della sanzione applicata, irragionevolezza del provvedimento impugnato, inesistenza della giusta causa in quanto nel caso in esame i comportamenti era stati effettuate soltanto per negligenza contabile in violazione di procedure aziendali ed in assenza di finalità illecite.

5. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione delle norme richiamate di legge e di contratto collettivo, in ordine al giudizio di gravità del comportamento addebitato al ricorrente. Insussistenza della giusta causa di licenziamento in quanto, in subordine, le lamentate violazioni rientravano dell’ipotesi prevista dall’art. 56 punto f) del CCNL il quale prevede per l’ipotesi di specie la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a quattro giorni.

6. Il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo, da esaminarsi unitariamente per connessione, sono infondati.

6.1. Una prima censura sostiene l’erroneità manifesta dell’affermata sussistenza dei fatti, per come addebitati, per violazione e falsa applicazione delle norme contrattuali richiamate. Si tratta di una censura confusa perchè mescola censure di fatto a censure di diritto, e che aldilà della rubrica mira, all’evidenza, ad un nuovo giudizio di merito sull’esistenza in fatto della giusta causa riproponendo a questo giudice una valutazione sulla asserita plausibilità delle giustificazioni addotte dalla ricorrente, una valutazione che non compete al giudice di legittimità e che è stata già effettuata in senso opposto dal giudice di merito. Giova ricordare che la Corte di Cassazione non è giudice di terzo grado di merito e che il vizio di motivazione è deducibile in cassazione, a seguito della riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 applicabile ratione temporis (D.L. n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012), soltanto per omesso esame di un fatto decisivo su si è sviluppato il contraddittorio tra le parti.

6.2 Con una seconda censura, più volte riproposta sotto varie formule verbali, a sostegno degli stessi motivi, si deduce la violazione delle norme richiamate di legge e di contratto collettivo in ordine al giudizio di gravità del comportamento ascritto e l’insussistenza della giusta causa. Si sostiene quindi la mancanza di gravità del comportamento; ma anche a tale proposito, oltre alla genericità delle censure, deve ricordarsi che l’esistenza in fatto della giusta causa è un giudizio di merito, mentre sotto il profilo giuridico può essere denunciato in cassazione soltanto che la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione legale. La giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è infatti una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale. (Sentenza n. 18715 del 23/09/2016, Sentenza n. 5095 del 02/03/2011, Sentenza n. 7838 del 15/04/2005).

6.3. Con una terza censura si sostiene che la Corte abbia “condiviso la valutazione di gravità espressa dal primo giudice in ordine al comportamento addebitato” con una motivazione per relationem manifestamente contraddittoria.

Si tratta di censura inammissibile sia nella parte in cui deduce, in realtà, un vizio di contraddittorietà della motivazione che non è, di per sè, idoneo a dar luogo a ricorso per cassazione; sia nella parte in cui deduce una valutazione incongrua ed insufficiente, parimenti inidonea a fungere da motivo di ricorso per cassazione.

6.4. In ogni caso non da luogo ad alcun vizio in cassazione il preteso contrasto di motivazione tra primo e secondo giudice. Anche perchè neppure esiste l’asserito richiamo della sentenza per relationem; e nemmeno la dedotta contraddizione posto che la condivisione della valutazione di gravità del comportamento espressa dal primo giudice, va postole in relazione al comportamento riconosciuto come sussistente dal giudice di appello. Non c’è alcuna contraddizione quindi; e rimane il giudizio di gravità, anche se il fatto è stato ricostruito in parte diversamente.

6.5. Una ulteriore censura deduce violazione dell’art. 2119 c.c. in relazione all’art. 56, lett. c) del CCNL applicato ed art. 7 L. n. 300, mancata contestazione della norma applicata, violazione e falsa applicazione della norma applicata, nullità della contestazione e del provvedimento impugnato in quanto la sentenza ha fatto riferimento ai fini del giudizio di proporzionalità ad una norma contrattuale, l’art. 56, lett. C) del CCNL, assolutamente non contestata. Si tratta di una censura infondata perchè la sentenza si regge anzitutto su una autonoma e completa valutazione di gravità e di proporzionalità – riferita anche al profilo soggettivo – “sì da far venir meno l’elemento fiduciario”. Talchè, è irrilevante, nei termini in cui è stata proposta pure la censura relativa alla riconduzione del fatto nella esatta norma disciplinare collettiva, effettuata dalla Corte ad abundantiam (“altresì”); anche per il limitato valore in materia della contrattazione collettiva, essendo la giusta causa nozione di fonte legale. Su cui di recente Cass. 4921/2016; ed inoltre n. 2906 del 14/02/2005: “In tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi”.

6.5 In conclusione, la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure formulate nel ricorso; avendo operato l’esatta individuazione degli addebiti contestati, accertato che fossero stati commessi, esclusa la fondatezza della giustificazione addotta dalla lavoratrice; ritenuto integrata la nozione di giusta causa e la gravità che la contraddistingue in modo coerente col precetto legale e la consolidata giurisprudenza di questa Corte. La sentenza afferma pure esplicitamente che la mancata contestazione del fatto di aver provveduto al pagamento in contanti in favore di soggetti non aventi titolo a riscuotere, non è idonea ad incidere sulla gravità dei medesimi fatti contestati come descritti in sentenza (reiterata violazione delle fondamentali procedure di sicurezza e per importi di notevole entità per diverse centinaia di migliaia di Euro); che di per sè rimangono sufficienti a giustificare il provvedimento espulsivo.

Pertanto quello effettuato dalla Corte capitolina è un giudizio di merito che si pone ìn linea con la giurisprudenza di questa Corte la quale ha più volte statuito (ad es. Cass. 2013/2012) che “In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”.

7.- Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare la ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in complessive Euro 5200 di cui Euro 5000 per compensi professionali, oltre 15% di spese generali ed oneri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA