Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10833 del 05/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 05/05/2010, (ud. 07/04/2010, dep. 05/05/2010), n.10833

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24700-2006 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE

FLAMINIO 46, presso lo studio dell’avvocato GREZ GIAN MARCO,

rappresentato e difeso dall’avvocato SALVIA EMILIO PAOLO, giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

IL MESSAGGERO S.P.A.;

– intimata –

e sul ricorso 28083-2006 proposto da:

IL MESSAGGERO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99,

presso lo studio dell’avvocato PUNZI CARMINE, che la rappresenta e

difende, giusta delega a margine del controricorso e ricorso

incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE

FLAMINIO 46, presso lo studio dell’avvocato GREZ GIAN MARCO,

rappresentato e difeso dall’avvocato SALVIA EMILIO PAOLO, giusta

delega a margine del ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 4705/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/09/2005 R.G.N. 9617/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/04/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato SALVIA EMILIO PAOLO;

udito l’Avvocato D’ALESSIO ANTONIO per delega PUNZI CARMINE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 6.3.1996, S.M. convenne in giudizio la Editrice Il Messaggero spa (ora Il Messaggero spa) e, sulle premesse di avere svolto, a partire dal mese di settembre 1980 e fino alla cessazione del rapporto, comunicata dalla datrice di lavoro il 29.5.1989, le mansioni di giornalista corrispondente da (OMISSIS) per il quotidiano Il Messaggero, chiese che:

venisse accertato il suo diritto alla qualifica di (OMISSIS), con il relativo trattamento economico;

la convenuta fosse condannata al pagamento delle differenze retributive e al risarcimento del danno per omesso versamento dei contributi previdenziali;

fosse accertata l’inefficacia del licenziamento intimatogli oralmente, con applicazione della tutela reale, ovvero, in subordine, con la condanna della convenuta al pagamento dell’indennità di mancato preavviso e delle spettanze di fine rapporto. Radicatosi il contraddittorio, il Giudice adito accolse parzialmente la domanda, dichiarando che fra le parti era intercorso un rapporto di lavoro giornalistico subordinato a tempo indeterminato dal settembre 1980 al 29.5.1989, accertando il diritto del ricorrente alla qualifica di (OMISSIS) dal 1.2.1984 e condannando la convenuta al pagamento delle differenze retributive, TFR ed accessori. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 7.6 – 8.9.2005, pronunciando sull’impugnazione principale proposta dal S. e su quella incidentale della Società, condannò quest’ultima al pagamento della minor somma di Euro 75.000,00, “valutata ad oggi a titolo di differenze retributive e TFR. A sostegno del decisum la Corte territoriale osservò quanto segue:

al fine della qualificazione del rapporto non era corretto fermarsi al nomen iuris usato dalle parti, nè alla comune volontà manifestata al momento della genesi del vincolo, essendo invece necessario avere riguardo alla effettiva realtà delle cose che di quel rapporto erano il contenuto, cosicchè, pur dovendo tenersi conto della volontà delle parti in ordine al contenuto del rapporto e del reciproco affidamento in tal modo generatosi, tale volontà, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte datoriale, non poteva assumere rilevanza primaria o addirittura insuperabile;

in applicazione del principio di effettività, ed avuto quindi riguardo al concreto atteggiarsi del rapporto, doveva confermarsi la sua natura di lavoro subordinato, atteso che l’attività giornalistica del S. era risultata inserita in modo stabile e continuativo nella organizzazione imprenditoriale e che l’intero contesto probatorio deponeva per una eterodirezione dei modi e contenuti di tale attività;

non poteva essere riconosciuto al S. l’inquadramento nella qualifica di (OMISSIS) di cui all’art 5, comma 2, CNLG, non essendo stato dedotto, nè risultando acquisito, che il predetto avesse partecipato alle scelte programmatiche necessarie per l’uscita del giornale (scelta, revisione, titolazione degli articoli, impaginazione, preparazione di una o più pagine del giornale), dovendosi tener conto che la qualifica di (OMISSIS) si caratterizza per il particolare tipo di notizie richieste (compilazione di articoli di informazione e commenti o realizzazione di servizi riguardanti particolari avvenimenti) e per il particolare inserimento nell’organizzazione necessaria per la compilazione del giornale (con prestazione dell’attività lavorativa quotidiana e con l’osservanza di un orario di lavoro), postulando la partecipazione all’attività di redazione;

il trattamento economico spettante al S. doveva essere “ricostruito” ai sensi dell’art. 36 Cost., facendo parametrico riferimento all’art. 2 del CNLG (relativo alla retribuzione spettante al collaboratore fisso) e al compenso contrattualmente previsto per il (OMISSIS); tenuto conto della quantità e qualità degli articoli redatti, della presenza di un inviato del giornale in occasione degli eventi di particolare rilievo e del numero delle partite mediamente effettuate ogni anno dalla locale squadra di calcio, doveva ritenersi la spettanza, per il periodo a cui era riferita la rivendicazione economica (settembre 1980 – maggio 1989), della somma complessiva di Euro 75.000,00 per differenze retributive e TFR, pari a circa il 50% degli importi rivendicati sulla scorta di conteggi elaborati in base alle previsioni della contrattazione collettiva, dovendo ritenersi la congruità di tale importo, considerato che il trattamento contrattuale era riferito ad un preciso orario di lavoro e alla contemporanea rinuncia ad altre attività lavorative;

doveva escludersi che, durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, fossero decorsi i termini prescrizionali, poichè la mancata regolarizzazione del rapporto stesso sul piano contributivo e previdenziale e il mancato riconoscimento della sua reale natura (cioè di lavoro subordinato) evidenziavano la situazione di metus del lavoratore, non preclusa dalle dimensioni occupazionali della Società datrice e dalla coesistenza di un’altra occupazione lavorativa;

quanto alla sussistenza del dedotto illegittimo licenziamento, andavano poste a carico del lavoratore le conseguenze sfavorevoli del mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alla riconducibilità della cessazione del rapporto alla volontà della società, dovendo tenersi conto che, dalle prove espletate, non era risultata confermata la circostanza, posta a base dell’esistenza di un licenziamento orale, circa l’avvenuto affidamento ad altro giornalista dell’incarico di seguire l’allenamento della locale squadra di calcio; la mancata prova che il S. avesse contestato tale affidamento e che il giornale avesse manifestato l’intenzione di non affidargli più alcun incarico, unitamente alla considerazione del tempo trascorso tra la raccomandata del (OMISSIS) e la richiesta di ripristino del rapporto formulata il 31.1.1994, inducevano a ritenere che la cessazione del rapporto stesso fosse da riferire ad una comune intenzione delle parti di non proseguire nella collaborazione; nessuna ammissione del licenziamento poteva rinvenirsi negli scritti difensivi della Società, che aveva sempre negato la configurabilità della subordinazione e costantemente dedotto il disinteresse reciproco alla continuazione del rapporto;

andava dichiarata la nullità della domanda di risarcimento del danno da omissione contributiva, sulla quale la sentenza di primo grado non si era pronunciata, “avuto riguardo alla assenza di qualsiasi allegazione a conforto della rivendicazione”.

Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale, S. M. ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.

L’intimata Il Messaggero spa ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale fondato su quattro motivi.

Il S. ha resistito con controricorso al ricorso incidentale, eccependo la nullità della procura alle liti al difensore dell’intimata controricorrente.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi, siccome proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. L’eccezione di nullità della procura alle liti rilasciata al difensore della controricorrente si fonda sul rilievo che all’Amministratore Delegato – il quale, nella specie, ha rilasciato la procura di che trattasi, secondo quanto risulta dalla dimessa certificazione della CCIAA di Roma, è conferito (tra gli altri) il potere di ”rappresentare attivamente e passivamente la società nei giudizi di lavoro relativi al personale dipendente in ogni sede e grado”; argomenta quindi il ricorrente principale che tali poteri rappresentativi farebbero difetto nella controversia all’esame, avendo la Società contestato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato interpartes.

Ritiene il Collegio che l’eccezione non meriti accoglimento, poichè l’ampia locuzione usata sta ad indicare che all’Amministratore Delegato compete la rappresentanza in giudizio della Società in tutte le controversie di lavoro nelle quali vengano in rilievo diritti del personale dipendente, ivi compresi quindi quelli in cui si faccia questione della sussistenza stessa del rapporto di subordinazione, che di quei diritti costituisce l’ovvio fondamento.

3. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di norme di diritto (CNLG 10 gennaio 1959, artt. 1, 2 e 5 reso efficace erga omnes con D.P.R. n. 153 del 1961, art. 1362 e ss. c.c. in relazione ai CCNLG afferenti al periodo di riferimento; artt. 2099, 2103 e 2697 c.c.; art. 96 disp. att.c.c.; artt. 112, 115 e 116 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, osservando che:

in relazione al CNLG 10 gennaio 1959, art. 5 e alle clausole di analogo contenuto previste dai ricordati successivi CCNLG, la Corte territoriale era pervenuta, in merito alla rivendicata qualifica, a una conclusione abnorme e non rispettosa dei canoni ivi previsti, omettendo di indagare se esso ricorrente, quale (OMISSIS) da capoluogo di provincia non appartenente a una redazione decentrata, fosse stato chiamato, come richiesto, ad elaborare, oltre a notizie locali, anche notizie di carattere generale nazionale, fondendo al contrario in un unico paradigma ipotesi distinte ai fini dell’attribuzione della qualifica di (OMISSIS);

la Corte territoriale, nel determinare il trattamento economico ritenuto spettante e senza prima riconoscere una determinata qualifica ad esso ricorrente, aveva seguito un percorso illogico, facendo riferimento alle disposizioni contrattuali del collaboratore fisso, figura professionale per la quale è prevista la non quotidianità dell’opera giornalistica, e, al contempo, prendendo a parametro le spettanze dovute contrattualmente al (OMISSIS), per il quale tale quotidianità è invece richiesta (che, secondo le prove acquisite e pur riconosciute attendibili nella sentenza impugnata, era risultata sussistente nella fattispecie), con ciò finendo per provvedere “intorno ad una figura professionale ibrida”, accostando il collaboratore e il (OMISSIS) attraverso paradigmi contrattuali del tutto diversi;

aveva trascurato le risultanze delle prove offerte, sia orali che documentali, dalle quali era emersa la sussistenza dei requisiti richiesti per l’attribuzione della qualifica richiesta.

Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di norme di diritto (artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c.; art. 36 Cost.;

art. 429 c.p.c.; art. 150 disp. att. C.p.c.; artt. 2103 e 2120 c.c.;

art. 1362 e ss. c.c. in relazione a plurime disposizioni dei CCNLG), nonchè vizio di motivazione, deducendo l’erroneità della quantificazione delle somme ritenute di spettanza poichè:

non era stata riconosciuta ad esso ricorrente la qualifica di (OMISSIS), nè gli era stata attribuita qualsivoglia altra qualifica;

non era stato indicato il conteggio analitico del dovuto e gli elementi retributivi di base spettanti;

la rivalutazione monetaria non era stata determinata con decorrenza dalla data di maturazione dei singoli crediti, mancando comunque l’analitica esposizione della sua attuazione, ed essendo stato l’importo riconosciuto a titolo di differenze retributive e TFR “valutato ad oggi”, senza liquidazione degli interessi legali e senza indicazione del criterio seguito nel calcolo del TFR, anche avuto riguardo alle relative previsioni contrattuali;

difettava una congrua motivazione sul criterio seguito per la determinazione del dovuto ai sensi dell’art. 36 Cost..

Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di norme di diritto (artt. 112, 113, 114, 115 e 116 c.p.c.; L. n. 604 del 1966; L. n. 300 del 1970, art. 18; L. n. 108 del 1990; artt. 2118, 2119 e 2697 c.c.), nonchè vizio di motivazione, osservando che la Corte territoriale:

erroneamente aveva ritenuto la sussistenza della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, reputando non sufficiente la prova del licenziamento orale e valorizzando l’eccezione di mutuo consenso in base ad elementi irrilevanti;

aveva trascurato plurime emergenze istruttorie dimostrative dell’esistenza della volontà della sola parte datoriale di porre fine al rapporto.

Con il quarto motivo il ricorrente principale denuncia violazione di norme di diritto (artt. 115 e 116 c.p.c.; artt. 2115 e 2116 c.c.;

R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 55; L. n. 153 del 1969, art. 40; L. n. 1338 del 1962, art. 13; L. n. 335 del 1995), nonchè vizio di motivazione, dolendosi della ritenuta nullità della domanda di risarcimento del danno da omissione contributiva, svolta peraltro in forma generica, con la riserva a separato giudizio della determinazione del quantum; in particolare viene dedotto che le stesse ammissioni contenute negli scritti difensivi della controparte costituivano prova del danno da omessa contribuzione per intervenuta prescrizione, risultando peraltro quest’ultima dimostrata dalla mancata regolarizzazione contributiva e dal decorso dei termini previsti dalla legislazione speciale.

Con il primo motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione di legge (art. 2094 c.c.), nonchè vizio di motivazione, osservando che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, doveva escludersi che fra le parti fosse intercorso un rapporto di lavoro subordinato, non essendo stato provato che il S. fosse rimasto assoggettato al potere direttivo, gerarchico e di controllo del datore di lavoro.

Con il secondo motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione di legge (artt. 1362 e 2094 c.c.), nonchè vizio di motivazione, lamentando la mancata valutazione della volontà originariamente espressa dalle parti e deducendo che l’indagine al riguardo, se svolta, avrebbe consentito di riconoscere che le parti avevano inteso configurare il rapporto in termini di mera collaborazione autonoma, senza mai esprimere la volontà di dar vita ad un rapporto di lavoro subordinato.

Con il terzo motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione di norme di diritto (artt. 2948 e 2697 c.c.; art. 115 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale abbia escluso il decorso dei termini di prescrizione durante lo svolgimento del rapporto lavorativo per non avere considerato che:

stante le dimensioni occupazionali dell’impresa, durante tutto il corso del rapporto i dipendenti di essa ricorrente erano stati sempre destinatari della cosiddetta tutela reale prevista dallo Statuto dei lavoratori;

il metus, ritenuto nella sentenza impugnata, non era stato nè dedotto nè provato dal S. e doveva comunque essere escluso, considerando che il lavoratore, avendo anche un’altra occupazione, non poteva subire il reale timore di perdere il posto di lavoro e di rimanere senza sostentamento, tanto che, già prima della cessazione del rapporto, si era attivato nei confronti della parte datoriale per la tutela dei propri diritti.

Con il quarto motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale, a fronte della svolta domanda di restituzione dell’importo liquidato a favore del lavoratore con la sentenza di prime cure, non abbia pronunciato la condanna del S. alla restituzione della differenza tra tale somma e quella, inferiore, riconosciuta all’esito del giudizio d’appello.

4. Per priorità logica devono essere esaminati congiuntamente, siccome tra loro connessi, il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale.

4.1 Osserva il Collegio che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento, dovendo l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto individuarsi nella sussistenza della subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive da quest’ultimo impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa;

in sede di legittimità, tuttavia, è censurabile solo la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, incensurabile in tale sede – se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 326/1996; 4036/2000). Al contempo è stato precisato che, sempre al fine della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiai – come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sta pur minima struttura imprenditoriale – che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 379/1999;

14071/2002); inoltre, nell’ipotesi in cui non sia agevole l’apprezzamento dei requisiti essenziali del rapporto di lavoro subordinato, non potrà prescindersi dalla qualificazione attribuita dalle parti al rapporto, anche se tale qualificazione non ha di per se valore determinante (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12364/2003). Nel caso che ne occupa la sentenza impugnata ha fatto applicazione dei ricordati criteri generali ed astratti volti alla individuazione, in relazione al concreto svolgimento del rapporto dedotto in giudizio e tenuto conto della peculiarità dell’attività esercitata, della effettiva natura del rapporto stesso, pervenendo alla conclusione qui censurata attraverso un iter argomentativo lineare, coerente con le risultanze processuali esaminate e immune da vizi logici. Nè ciò può ritenersi efficacemente confutato dalla doglianza relativa alla pretesa omessa indagine sulla volontà inizialmente manifestata fra le parti, non essendo stato neppure indicato in ordine a quali specifiche emergenze istruttorie (in tesi non considerate) tale indagine avrebbe dovuto essere approfondita, essendosi la ricorrente incidentale limitata a riportare un frammento di una dichiarazione testimoniale che, peraltro, la Corte territoriale ha esaminato nel suo complesso proprio al fine di accertare le effettive caratteristiche del rapporto.

4.2 Deve poi rilevarsi che, alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti; con la conseguenza che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 13045/1997; 5802/1998).

Ne discende che le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr. ex pluhmis, Cass., nn. 8718/2005; 15693/2004;

2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002).

Nel caso all’esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo che, come già rilevato, si presenta coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le adeguate conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio.

4.3 In definitiva, quindi, le doglianze della ricorrente incidentale si sostanziano nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di un riesame di merito del materiale probatorio, inammissibile in questa sede di legittimità; e ciò anche a prescindere dai pur evidenti ulteriori profili di inammissibilità del primo dei mezzi all’esame, costituiti dalla mancata trascrizione (se non per brevi lacerti), in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, delle risultanze istruttorie di cui si lamenta l’errato apprezzamento.

5. In ordine al primo motivo del ricorso principale deve anzitutto rilevarsi che, poichè le disposizioni contrattuali invocate riproducono il testo delle clausole del contratto collettivo 10 gennaio 1959 reso efficace erga omnes con il D.P.R. n. 153 del 1961, in base alle L. n. 741 del 1959 e L. n. 1027 del 1960 tali clausole, ancorchè tradotte nei successivi contratti di diritto comune, hanno mantenuto la propria efficacia e altresì la propria natura di “norme giuridiche aventi forza di Legge”, e ciò in base alla detta L. n. 741 del 1959, artt. 1 e 7 cosicchè le stesse possono essere direttamente esaminante ed interpretate in sede di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 2052/1997; 2611/1998).

5.1 Un tanto premesso, va considerato che, in base all’art. 5 CNLG – che anche la sentenza impugnata indica quale norma rilevante ai fini della qualificazione della figura professionale del (OMISSIS), con ciò altresì implicitamente riconoscendo l’appartenenza del S. alla categoria dei giornalisti professionisti, tale qualifica professionale va riconosciuta ai giornalisti professionisti:

1 – prestanti la loro attività nelle direzioni e nelle redazioni;

2 – corrispondenti negli uffici di corrispondenza da (OMISSIS);

3 – inviati speciali;

4 – titolari degli uffici di corrispondenza di testate che dedichino normalmente una intera pagina alla locale cronaca cittadina;

5 – facenti parte di una redazione decentrata;

6 – corrispondenti da capoluoghi di provincia ai quali sia richiesto di fornire in modo continuativo, oltre a notizie di cronaca locale, notizie italiane o estere di carattere generale da loro elaborate.

Questa Corte ha già avuto modo di precisare che il “fornire in modo continuativo oltre a notizie di cronaca locale, anche notizie italiane od estere da lui elaborate” attiene soltanto alla figura del corrispondente da capoluogo di provincia non appartenente ad una redazione succursale o distaccata (cfr, Cass., nn. 480/84;

2611/1998), con ciò giustificando, proprio per questa particolare “collocazione” dell’attività giornalistica, esterna ad una struttura stabile e organica, l’esigenza di richiedere, per il riconoscimento della qualifica di (OMISSIS), modalità e caratteri particolari del tipo di notizie che il giornalista è tenuto a fornire.

L’equipollenza delle distinte posizioni a cui la ricordata normativa, riconoscendone la corrispondenza, riconduce l’attribuzione della qualifica di (OMISSIS), impone dunque di verificare, a seconda dei casi, la sussistenza delle peculiari caratteristiche che l’attività del giornalista professionista deve rivestire; in altri termini non possono ritenersi decisivi, ai fini de quibus, quelle particolari caratteristiche dell’attività giornalistica che, caratterizzando specificamente l’una delle predette tipizzate posizioni, non sono richieste per le altre. In particolare deve riconoscersi che la partecipazione alle scelte programmatiche per l’uscita del giornale, caratterizzante l’attività del giornalista professionista addetto ad una redazione (anche decentrata), alla cui mancata deduzione la sentenza impugnata ha ricondotto la negazione della qualifica di (OMISSIS) al S., non risulta contemplata per l’ipotesi dal medesimo invocata, riconducibile alla sua posizione di corrispondente da capoluogo di provincia, in relazione alla quale, come si è ricordato, viene prescritto che siano fornite in modo continuativo, oltre a notizie di cronaca locale, notizie italiane o estere di carattere generale elaborate dallo stesso corrispondente.

Come condivisibilmente già osservato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr, Cass., n. 2611/1998, cit.), al requisito fondamentale dell’elaborazione della notizia (propria di ogni attività propriamente giornalistica) debbono aggiungersi altre due sub-condizioni, consistenti, la prima, nel carattere continuativo della trasmissione delle notizie, e, la seconda, nel carattere generale delle medesime notizie, anche italiane o estere, in aggiunta a quelle locali, con la conseguenza che il requisito della contìnuatività (che, peraltro, differisce da quello della quotidianità, preso in considerazione dalla Corte territoriale), deve intendersi riferito non solo alle notizie locali, ma anche a quelle di dimensioni nazionali o estere.

5.2 L’errore di diritto che vizia la sentenza impugnata è quindi ravvisabile nell’avere risolto la questione all’esame prendendo a parametro requisiti dell’attività giornalistica necessari per l’attribuzione della qualifica di (OMISSIS) in riferimento a posizioni lavorative diverse da quella specificamente dedotta in giudizio e, per converso, di non avere appuntato la propria disamina sulla sussistenza o meno delle caratteristiche dell’attività giornalistica espressamente richieste in relazione all’equiparata posizione del corrispondente da capoluoghi di provincia.

In tali termini, con conseguente assorbimento degli ulteriori profili di doglianza, il mezzo all’esame merita accoglimento.

6. Il secondo motivo del ricorso principale, siccome svolto con riferimento alla liquidazione operata dalla Corte territoriale sul presupposto della non riconoscibilità della qualifica di (OMISSIS) a favore del S., resta assorbito dall’accoglimento del primo.

7. Quanto al terzo motivo del ricorso incidentale, deve osservarsi che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, ai fini della individuazione del regime di prescrizione applicabile ai crediti retributivi, il presupposto della stabilità reale del rapporto di lavoro deve essere verificato in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso ed alla configurazione che di esso danno le parti nell’attualità del suo svolgimento, dipendendo da ciò l’esistenza, o meno, della effettiva situazione psicologica di metus del lavoratore, e non già alla stregua della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto in astratto regolare il rapporto ove questo fosse sorto con le modalità e la disciplina che il giudice, con un giudizio necessariamente ex post, riconosce applicabili nella specie, con effetto retroattivo per il lavoratore (cfr, ex plurimis, Cass., n. 11644/2004).

Premesso che la stessa ricorrente incidentale indica che il S. aveva dedotto in giudizio la propria situazione di metus a seguito della sollevata eccezione di prescrizione (e, pertanto, quando la condotta processuale della controparte aveva determinato il suo concreto interesse al riguardo), deve riconoscersi che la Corte territoriale si è attenuta ai suddetti principi, evidenziando le circostanze fattuali in presenza delle quali doveva ritenersi, nel caso all’esame, la sussistenza del metus (mancata regolarizzazione del rapporto stesso sul piano contributivo e previdenziale; mancato riconoscimento della reale natura del rapporto), correttamente osservando, inoltre, l’irrilevanza della sussistenza di un’altra occupazione lavorativa, poichè la soggezione non può essere riferita alla “situazione socio – economica soggettiva del lavoratore”; ed invero deve ritenersi di piana evidenza che il timore di pregiudicare una situazione lavorativa precaria non è di per sè escluso dalla possibilità di ricavare aliunde il proprio sostentamento, cosicchè la motivazione assunta sul punto risulta immune da errori giuridici, coerente con le risultanze istruttorie acquisite e scevra da vizi logici; la stessa non resta quindi scalfita dalla censura all’esame, dovendo altresì rilevarsi come la stessa attivazione del lavoratore a tutela dei propri diritti, peraltro verificatasi nella fase conclusiva del rapporto, costituisca elemento di giudizio di per sè privo del carattere della decisività.

8. Il quarto motivo del ricorso incidentale resta assorbito dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.

9. Quanto al terzo motivo del ricorso principale, osserva il Collegio che questa Corte ha avuto modo di precisare, con riferimento al caso di pretese dimissioni del lavoratore, ma con affermazione di principio che vale anche nel caso in cui sia stata eccepita la risoluzione contrattuale per mutuo consenso, che l’indagine circa la sussistenza della cessazione del rapporto per ragione riconducibile alla volontà del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell’ordinamento, sicchè occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12549/2003).

Parimenti è stato condivisibilmente precisato dalla giurisprudenza di legittimità che, nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o risoluzione per mutuo consenso), si impone un’indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo l’art. 2697 c.c., comma 1 relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte;

regola che deve ritenersi violata nel caso di rigetto della domanda basato in sostanza sulla valorizzazione dell’ipotesi di mutuo consenso, privilegiata solo per la ritenuta insufficienza della prova del licenziamento (cfr, Cass., n. 5918/2005).

9.1 La sentenza impugnata non si è attenuta a tali principi, laddove, secondo quanto già ricordato nello storico di lite, la sussistenza dell’intervenuta cessazione del rapporto per mutuo consenso è stato attribuito specifico rilievo (anche) alla considerazione della mancata prova del licenziamento da parte del lavoratore.

9.2 Inoltre, per la dimostrazione della sussistenza dell’indicata diversa causa di risoluzione del rapporto, è stata valorizzata una circostanza il lasso di tempo trascorso fra la lettera del 24.5.1989, con la quale il S. si era doluto di non avere avuto, come di consueto, l’assegnazione di un servizio, e la richiesta di ripristino del rapporto dal medesimo formulata il 31.1.1994, la quale, seppur rilevante ai fini del decidere, come meglio si indicherà in prosieguo, di per sè non può condurre a ritenere che, al momento della cessazione del rapporto, il lavoratore avesse palesato la volontà – comune a quella della parte datoriale – di risolverlo, posto che nel complessivo contesto fattuale si inseriva anche la pure ritualmente dedotta emergenza processuale costituita dall’avere il lavoratore, già in data 12.6.1989, impugnato stragiudizialmente il licenziamento verbale asseritamente intimatogli, con la richiesta di reintegra nel posto di lavoro e, conseguentemente, con l’avvenuta inequivoca manifestazione di una volontà che, in quel momento, si presentava affatto contraria a quella di volere porre fine al rapporto lavorativo, dovendo dunque convenirsi che tale elemento di giudizio, trascurato dalla Corte territoriale, si presenta come potenzialmente idoneo a condurre ad una decisione diversa da quella impugnata (cfr, ex pluhmis, Cass., n. 15797/2000).

9.3 Nei termini anzidetti, le argomentazioni della Corte territoriale non possono dunque ritenersi immuni dalle censure sollevate;

tuttavia i rilevati vizi della sentenza impugnata non possono condurre all’accoglimento del mezzo all’esame, risultando la pronuncia sul punto (reiezione delle domande fondate sulla dedotta inefficacia del licenziamento) conforme a diritto, ancorchè a tale conclusione debba pervenirsi in forza di un diverso ordine di considerazioni (art. 384 c.p.c., comma 4).

Infatti, come questa Corte, ancorchè con riferimento a diversa fattispecie, ha già avuto modo di rilevare, il comportamento, interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva (cfr, Cass., n. 9924/2009; cfr, altresì, ex plurimis, Cass., nn. 11209/1997; 5500/1998; 8106/2001;

13370/2003; 13549/2008; 13167/2009); in tali casi, come è stato osservato, il divieto di venire contra factum proprium conduce alla “preclusione di un’azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l’abbandono”, non importando, “ai fini del risultato finale di perdita della situazione di vantaggio”, che del comportamento della parte assuma rilievo “l’atteggiamento soggettivo di rinuncia tacita ovvero la valutazione oggettiva, resa dall’interprete, di non conformità alla correttezza o alla buona fede” (cfr, Cass., n. 9924/2009, cit., in motivazione).

Tale situazione, alla luce degli accertamenti già effettuati dalla Corte territoriale (che, infatti, pur nell’ambito di un iter argomentativo non condivisibile per le ragioni anzidette, ha rilevato nella perdurante inerzia del lavoratore la sussistenza di una volontà negoziale contraria – per facta concludentia – al mantenimento del rapporto lavorativo), si è concretizzata nel caso all’esame, avendo il lavoratore, dopo l’iniziale reazione alla condotta datoriale, assunto un comportamento immotivatamente inerte protrattosi per molti anni e come tale idoneo ad ingenerare nella controparte il legittimo affidamento sull’abbandono delle pretese che, pure, quell’iniziale reazione appariva diretta a salvaguardare.

10. In ordine al quarto motivo del ricorso principale, va rilevato che il R.D.L. n. 636 del 1939, art. 27 convertito in L. n. 1272 del 1939, prevede, al comma 2, che il requisito di contribuzione stabilito per il diritto alle prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti, si intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale; la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, stabilisce inoltre che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini di seguito indicati; dispone poi, per le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie, che, a decorrere dal 1 gennaio 1996, il termine di prescrizione è ridotto a cinque anni, salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti (lett. a) e che detto termine è di cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria (lett. b); il D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 17, comma 3, stabilisce che i dipendenti giornalisti professionisti iscritti nell’apposito albo di categoria, i cui rapporti di lavoro siano regolati dal contratto nazionale giornalistico, sono obbligatoriamente iscritti presso l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani “Giovanni Amendola”; la L. n. 388 del 2000, art. 76, comma 4, prevede che le forme previdenziali gestite dall’INPGI devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive. Nel caso di specie il rapporto lavorativo dedotto in giudizio è cessato il 29.5.1989, il ricorso introduttivo è stato depositato il 6.3.1996 e la sentenza impugnata ha accertato, traendone come detto argomento a fondamento del metus del lavoratore, la mancata regolarizzazione del rapporto sul piano contributivo e previdenziale. Deve poi osservarsi che, secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della condanna generica al risarcimento del danno occorre accertare, con valutazione probabilistica, la portata produttiva di conseguenze dannose della condotta illegittima (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 1631/2009; 17297/2006; 9709/2003; 10453/2001); ne consegue pertanto che gli oneri di allegazione del richiedente sono da ritenersi limitati alle circostanze idonee a fondare tale probabilistica valutazione. Alla luce dei ricordati pacifici elementi di giudizio relativi alle date di cessazione del rapporto lavorativo e di introduzione del processo, dell’accertata mancata regolarizzazione del rapporto sul piano contributivo e previdenziale e delle conseguenze che il decorso dei termini di prescrizione produce ex lege in ordine alla sussistenza della requisito contributivo (e, quindi, alla liquidazione della corrispondente prestazione), resta incomprensibile il percorso logico giuridico seguito (ma non esplicitato) dalla Corte territoriale per giungere alla conclusione che il S. non avrebbe fornito qualsivoglia allegazione a conforto della svolta richiesta di condanna generica al risarcimento del danno pensionistico. Tale vizio motivazionale conduce quindi all’accoglimento del mezzo all’esame.

11. Alla stregua delle considerazioni che precedono vanno quindi accolti, nei termini anzidetti, il primo e il quarto motivo del ricorso principale, mentre vanno rigettati il terzo motivo del ricorso principale e il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale, restando assorbiti il secondo motivo del ricorso principale e il quarto motivo del ricorso incidentale.

Per l’effetto la sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio al Giudice designato in dispositivo, che procederà a nuovo esame conformandosi agli indicati principi di diritto e provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie nei termini di cui in motivazione il primo e il quarto motivo del ricorso principale, respinge il terzo e dichiara assorbito il secondo; rigetta il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale e dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2010

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