Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10832 del 05/06/2020

Cassazione civile sez. III, 05/06/2020, (ud. 10/02/2020, dep. 05/06/2020), n.10832

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6110-2018 proposto da:

R.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO

TOSCANI 59, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CALBI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GENNARO GENTILE;

– ricorrente –

contro

COMPONENTI COLLEGIO TAR LAZIO;

– intimati –

e contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del

Consiglio dei Ministri pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, r.g. 828/17,

depositata il 8/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/02/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Dott. FRESA MARIO, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO IN FATTO

1. Con ricorso notificato via pec il 10/2/2018 R.V. propone gravame innanzi a questa Corte avverso il Decreto della Corte d’Appello di Perugia n. 4876/17, depositato il 28/12/17 e non notificato, affidandolo a due motivi. Resiste la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore.

2. Per quanto qui di interesse, l’odierna ricorrente sig.ra R., con atto di citazione del 28/6/2016 – in riassunzione, a seguito del Decreto di incompetenza territoriale del Tribunale di Roma – esperiva azione di risarcimento del danno contro lo Stato, ai sensi della L. 13 aprile 1988, n. 117, innanzi al Tribunale di Perugia. Deduceva la responsabilità civile dello Stato (nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri L. n. 117 del 1988, ex art. 4), per i danni a lei derivati da atti compiuti dai Giudici del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato e, in particolare, per avere i giudicanti amministrativi violato un precedente giudicato, traente origine da una sentenza con cui il Tribunale del Lavoro di Taranto (n. 6079/2002) aveva annullato un provvedimento di licenziamento disciplinare, con reintegrazione della sig.ra R. nel posto di lavoro ed ammissione ad un rapporto di lavoro part-time, in luogo dell’originario rapporto a tempo pieno, data l’esigenza di tutelare la salute della lavoratrice (pativa, infatti, di forti attacchi di emicrania che le avrebbero impedito di recarsi sul posto di lavoro e, del pari, di comunicare la stessa assenza nella prima parte della giornata). In secondo luogo, rilevava pure il danno cagionato in sede amministrativa, per non avere i giudici amministrativi riconosciuto l’illegittimità del provvedimento disciplinare, nonostante la confessione stragiudiziale del Dirigente dell’Ufficio Disciplina INAIL che, con atto del 2/3/2015, aveva indicato che non fossero state applicate più sanzioni comportanti la sospensione dell’attività lavorativa.

3. Il Tribunale di Perugia, con decreto del 24/4/2017, comunicato il 10/5/2017, dichiarava l’inammissibilità dell’azione di responsabilità civile proposta per manifesta infondatezza, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 5. In particolare, il giudice di prime cure riteneva non sussistenti in fatto i profili di responsabilità connessi agli atti dei Giudici amministrativi, che si erano occupati delle impugnazioni avverso i provvedimenti disciplinari con i quali erano state contestate le infrazioni alla sig.ra R., e che avevano condotto al licenziamento disciplinare. Le infrazioni disciplinari, secondo il Tribunale, avevano determinato, nei confronti di parte attrice, due differenti provvedimenti di licenziamento disciplinare: il primo, emesso in data 12/5/1998 sull’assunto dell’ingiustificata mancata comparizione alle visite mediche di controllo, e il secondo, emesso in data 26/10/1998, sul presupposto della mancata comunicazione delle assenze dal lavoro. In particolare, il giudice di prime cure rilevava che, mentre il secondo provvedimento di licenziamento era stato annullato dal Tribunale di Taranto con la sentenza n. 6079/2002 (su cui si sarebbe formato il giudicato), il primo provvedimento – di contro – era stato confermato dai Giudici amministrativi che avevano rigettato i ricorsi proposti dalla sig.ra R.. Dunque, il precedente giudicato e il giudizio pendente avrebbero riguardato “fatti del tutto diversi”.

4. Avverso il decreto del Tribunale di Perugia, la sig.ra R. proponeva reclamo adducendo che i fatti oggetto dei procedimenti presupposti fossero i medesimi, dispetto di quanto ritenuto dai giudici; e, in secondo luogo, denunciava che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che le censure svolte avverso l’operato dei Giudici ritenuti civilmente responsabili, dovessero essere scrutinate sotto il profilo della interpretazione di legge – con riferimento alla falsa applicazione del Codice Disciplinare INAIL (art. 2, comma 7, lett. a), nella versione emessa nel 1998) dedotta dalla reclamante – senza dare alcuna rilevanza alla confessione stragiudiziale del Dirigente INAIL circa la mancata irrogazione, in via continuata, di più sanzioni intimanti la sospensione dal lavoro per più giorni, legittimante il licenziamento disciplinare. Si costituiva l’Avvocatura Distrettuale dello Stato chiedendo la conferma del provvedimento e la condanna della reclamante alle spese di lite. La Corte d’Appello di Perugia – con la sentenza qui impugnata – riteneva infondati i motivi di reclamo, con conseguente condanna al pagamento delle spese del grado in favore dell’Amministrazione convenuta.

5. Nella specie, la Corte confermava l’assunto di inammissibilità dell’azione disposta dal giudice di prime cure. In primo luogo, rilevava che il giudicato fatto valere dalla reclamante fosse inerente alla trasgressione di regole di condotta disciplinari diverse (la ingiustificata mancata presentazione alle visite mediche di controllo) che avevano determinato il licenziamento emesso in data 26/10/1998, poi annullato dal giudice del lavoro; di contro, le decisioni del TAR e del Consiglio di Stato riguardavano fatti differenti (la ingiustificata assenza dal luogo di lavoro), inerenti ad un precedente licenziamento emesso in data 12/5/1998, avente come presupposto contestazioni disciplinari affatto diverse da quelle osservate dal giudice del lavoro. In secondo luogo, in relazione al secondo motivo di reclamo, confermava la pronuncia emessa in primo grado ribadendo la correttezza della valutazione in termini di “attività interpretativa dell’art. 2, comma 7, lett. a) Codice Disciplinare INAIL” svolta dai Giudici amministrativi, trattandosi di interpretazione di norma regolamentare. Difatti, riteneva non dovesse essere ammessa l’azione di responsabilità in relazione a un’attività interpretativa della norma disciplinare, nel senso di aver ritenuto configurabile il licenziamento in relazione alla astratta applicabilità delle sanzioni in riferimento ai plurimi comportamenti contestati – che davano luogo alla sanzione della sospensione per 10 giorni -, senza che fosse necessario che la predetta sanzione fosse stata concretamente irrogata per due volte di seguito. Rilevava, infatti, che il diverso ragionamento della reclamante – facente leva sulla dichiarazione del Dirigente secondo cui “nessuna altra sanzione di pari entità è stata emessa” – costituiva semplicemente una diversa interpretazione della norma e, in quanto tale, non avrebbe potuto ingenerare una responsabilità inerente all’attività giurisdizionale svolta.

6. Avverso la predetta pronuncia, la sig.ra R. propone ricorso per cassazione, deducendo due motivi. Resiste la Presidenza del Consiglio dei Ministri, senza proporre controricorso. La ricorrente ha prodotto memoria. Il ricorso è stato discusso alla udienza pubblica del 10 febbraio 2020. Il Procuratore Generale ha concluso come in atti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione del giudicato. La ricorrente rileva che il decreto impugnato, pur avendo esaminato il merito della sentenza del Tribunale di Taranto n. 6079/2002 passata in giudicato, non ne ha correttamente vagliato il contenuto e, così facendo, ha erroneamente escluso la medesimezza dei fatti oggetto dei procedimenti presupposti. Rileva che i giudici del TAR, invece, non hanno nemmeno preso in considerazione la sussistenza di detto giudicato che, tuttavia, si sarebbe incardinato sugli stessi fatti, fra le stesse parti e per il medesimo procedimento disciplinare. Da ciò derivandone la loro responsabilità ex L. n. 117 del 1988.

1.1. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità. Questa Corte, ha avuto più volte modo di sancire che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass., Sez. 1, sentenza n. 24298 del 29/11/2016; Sez. 6-5, ordinanza n. 635 del 15/1/2015; Sez. 3, sentenza n. 3010 del 28/2/2012; Sez. 1, Sentenza n. 5353 dell’8/3/2007). Nel caso concreto, non solo non sono intelligibili e chiare le ragioni per cui sussisterebbe una violazione di legge, ma addirittura la ricorrente non menziona nè uno dei motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 in cui ritiene di sussumere detta violazione, nè le norme che sarebbero state – in ipotesi – violate. Si ricorda, tuttavia, che “Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso; il singolo motivo, infatti, anche prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006, assume una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticità dal legislatore. La tassatività e la specificità del motivo di censura esigono, quindi, una precisa formulazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di rito” (Cfr., Cass., Sez. 3, Sentenza n. 18202 del 3/7/2008; in senso conforme, Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11603 del 14/5/2018; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19959 del 22/9/2014; Sez. 1, Sentenza n. 10420 del 18/5/2005).

1.2. Peraltro, sebbene sia incontestabile, come questa Corte insegna, che il giudicato va assimilato agli elementi normativi, cosicchè la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme (Cass., Sez. 3 -, ordinanza n. 30838 del 29/11/2018; Cass., Sez. 2, ordinanza n. 15339 del 12/6/2018; Cass., Sez. U., sentenza n. 11501 del 9/5/2008; Cass., Sez. U., sentenza n. 24664 del 28/11/2007), è necessario precisare che il giudicato “funziona” come “norma di diritto”, ma costituisce “norma sul caso concreto”. Dunque, per consentirne la corretta interpretazione e rilevarne la eventuale violazione è necessaria l’indicazione del suo oggetto, ossia le specifiche circostanze del caso concreto, poste alla base del giudicato, non correttamente considerate dal giudice a quo (che invece, lungi dal non considerare gli effetti del giudicato, ha indicato come i fatti osservati dal giudice del lavoro, quali premesse del secondo licenziamento, fossero diversi da quelli presi in considerazione nel primo licenziamento intimato dall’amministrazione). Per quanto si tratti di un giudicato, difatti, in sede di giudizio di legittimità non si può pretendere che la Corte svolga un’autonoma ricostruzione dei fatti e delle vicende poste alla base del giudicato, e ciò al fine di contrastare, utilmente, quanto già compiutamente vagliato dal giudice a quo.

2. Con il secondo motivo si denuncia la mancata o errata valutazione della confessione stragiudiziale resa dal Dirigente dell’Ufficio Disciplina e la violazione del disposto dell’art. 2, comma 7, lett. a) Codice Disciplinare dell’INAIL. La ricorrente deduce che la predetta disposizione prevede il licenziamento in caso di recidiva “che abbia comportato l’applicazione” della sospensione dal servizio di giorni 10, cioè l’applicazione per due volte della medesima sanzione; per converso, nel caso concreto la sanzione sarebbe stata applicata un’unica volta. A conferma di ciò, il Dirigente dell’Ufficio Disciplina – con atto del 2/3/2015 – avrebbe certificato che “nessun’altra sanzione di pari entità è stata emessa” e tale dichiarazione equivarrebbe a confessione. Dunque, la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che la pronuncia amministrativa è stata emessa in violazione del disposto regolamentare, nonchè in contrasto con il fatto affermato nella confessione del Dirigente. Inoltre, la ricorrente rileva che sia a norma della L. n. 300 del 1970, art. 7 sia a norma del successivo D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 55 è prescritta la “contestazione specifica” e la sanzione non può essere diversa da quella contestata, mentre, nel caso concreto, mentre era stata contestata la sanzione della sospensione per 10 giorni, la sanzione specifica del licenziamento non era stata oggetto di contestazione, da ciò dovendosi in sede amministrativa ritenere la nullità del licenziamento.

2.1. Il motivo è infondato. La censura, infatti, si riferisce all’attività interpretativa dell’art. 2, comma 7, lett. a) Codice disciplinare, nonchè all’attività valutativa della confessione svolta dai magistrati che, lungi dal non essere stata considerata, è stata giudicata come ininfluente ai fini del giudizio di responsabilità disciplinare, sulla base della normativa regolamentare di settore. Sul punto, è essenziale rilevare che alla controversia in esame si applica, ratione temporis, la L. n. 117 del 1988, nella sua versione ante riforma del 2015, che nell’area di esonero da responsabilità del magistrato espressamente include “l’attività di interpretazione di norme di diritto” e “quella di valutazione del fatto e delle prove”. Ciò detto, la datazione del fatto, che – nel caso concreto – si assume essere illecito e fonte di responsabilità per lo Stato, corrisponde al deposito delle sentenze dei Giudici amministrativi in tesi fonte di responsabilità, entrambe antecedenti al 19 marzo 2015 (id est: sentenze del TAR Lazio n. 9940/2011 e del Consiglio di Stato n. 5995/2012).

2.2. Il testo dell’art. 2 Legge Vassalli (L. n. 117 del 1988), nella formulazione ante riforma del 2015, è il seguente: “Art. 2. Responsabilità per dolo o colpa grave. 1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. 2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto nè quella di valutazione del fatto e delle prove. 3. Costituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”.

2.3. Proprio in relazione all’attività interpretativa delle norme svolta dal magistrato, le Sezioni Unite di questa Corte hanno, anche da ultimo, segnato precisi limiti alla sua censurabilità, ritenendo che la grave violazione di legge, fonte di responsabilità ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. a), nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 18 del 2015, va individuata nelle ipotesi in cui la decisione appaia non essere frutto di un consapevole processo interpretativo, ma contenga affermazioni ad esso non riconducibili perchè sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero, e pertanto caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile, restando pertanto sottratta alla operatività della clausola di salvaguardia di cui all’art. 2, comma 2 L. citata, ipotesi, che può verificarsi in vari momenti dell’attività prodromica alla decisione, in cui la violazione non si sostanzia negli esiti del processo interpretativo, ma ne rimane concettualmente e logicamente distinta, ossia quando l’errore del giudice cada sulla individuazione, ovvero sulla applicazione o, infine, sul significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica” (Cfr., Cass., Sez. U., Sentenza n. 11747 del 3/5/2019). Infatti, la struttura della previgente disposizione deve essere in tal modo ricostruita: l’art. 2, comma 1 contiene l’affermazione di principio, secondo cui chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale; il comma 2, contiene, invece, l’affermazione della area di salvaguardia, ovvero della sfera sottratta alla responsabilità civile, nel cui ambito l’attività giurisdizionale non è sindacabile, che si estende a tutta l’attività di interpretazione di norme di diritto ed alla attività di valutazione del fatto e delle prove; il successivo comma 3, infine, individua quattro ipotesi di colpa grave rilevanti ai fini della affermazione della responsabilità civile del magistrato. Il bilanciamento tra i due valori in gioco, da un lato il principio della responsabilità e, dall’altro, la libertà di interpretazione della disposizione di legge, è stato composto, dunque, privilegiando una ampia affermazione di operatività della clausola di salvaguardia, a fronte della quale le ipotesi di responsabilità per colpa grave espressamente previste operano soltanto in relazione all’area sottratta alla operatività di essa.

2.4. In sostanza, in base all’intervento chiarificatore del Supremo Consesso, può configurarsi una responsabilità civile del magistrato per colpa grave soltanto quando sussistono due presupposti: l’uno, negativo, che non si tratti di attività riconducibile alla interpretazione di norme di diritto o alla valutazione dei fatti e delle prove; l’altro, positivo, che si realizzi una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile.

2.5. La citata sentenza si pone certamente in linea di continuità con i principi di diritto affermati, confermati e condivisi, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza di questa Corte. Tra i punti fermi, raggiunti in subiecta materia, giova ricordare il principio di diritto affermato da Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12357 del 6/11/1999, ripreso ed arricchito dalla successiva giurisprudenza di legittimità: “Il sistema normativo della responsabilità civile dei magistrati, quale risultante dalla coordinazione fra le ipotesi di colpa grave tipizzate dalla L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3 e la previsione del comma 2 stessa norma, secondo la quale nell’esercizio di funzioni giudiziarie non può dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, non si sostanzia in un mero rinvio alla nozione generale della colpa grave, come dispone l’art. 2236 c.c. a proposito della prestazione del libero professionista intellettuale implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ma si caratterizza in modo peculiare, sia per la presenza della clausola limitativa di cui al suddetto art. 2, comma 2 che si spiega col carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria, connotata da scelte sovente basate su diversità di interpretazioni, sia per la previsione, con riferimento alle ipotesi di cui al suddetto comma 3, lett. a, b e c, dell’esigenza che la colpa grave sia inescusabile. Con riferimento a tali ipotesi, la qualificazione di inescusabilità della negligenza, in quanto aggiunta dalla norma a fini delimitativi della responsabilità, mediante un’esplicazione del concetto di gravità della colpa, integra un “quid pluris” rispetto alla negligenza, nel senso che essa si deve caratterizzare come “non spiegabile”, cioè senza agganci con la particolarità della vicenda, idonei a rendere comprensibile – anche se non giustificato – l’errore del giudice”. (In senso conforme, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16935 del 29/11/2002; Sez. 1, Sentenza n. 16696 del 7/11/2003; Sez. 3, Sentenza n. 25133 del 27/11/2006; Sez., 3, Sentenza n. 15227 del 5/7/2007; Cass. n. 11593 del 2011; Sez. 3, Sentenza n. 6791 del 7/4/2016).

2.6. Le successive pronunce sul tema hanno poi precisato che il magistrato può essere chiamato a rispondere non quando, semplicemente, ha commesso un grave errore nell’esercizio delle sue funzioni provocando ad altri un pregiudizio non riparabile con gli ordinari mezzi di tutela processuale, ma quando la sua decisione si colloca al di fuori della consapevole scelta interpretativa, risultando assurda, illogica, inesplicabile, abnorme, ai limiti del diritto libero, quindi disancorata non dal rispetto della legge, ma da un qualsiasi ordine di categorie, logiche e linguistiche prima ancora che giuridiche, predicabili nella fattispecie in esame. Si è sottolineato, altresì, che ricorre tale situazione “quando vengano disattese soluzioni normative chiare, certe e indiscutibili, o siano violati principi elementari di diritto, che il magistrato non può giustificatamente ignorare” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4446 del 5/3/2015; Sez. 3, Sentenza n. 2637 del 5/2/2013; Sez. 3, Sentenza n. 2107 del 14/2/2012).

2.7. Alla luce della disciplina pro-tempore applicabile e dei precedenti di legittimità, consolidatisi durante gli anni, dunque, le Sezioni Unite hanno confermato la correttezza dogmatica della ripartizione tra area dell’attività del magistrato assoggettabile, ove mal esercitata, a responsabilità civile, ed area esente, ribadendo che la decisione pregiudizievole non deve essere frutto di un processo interpretativo o valutativo, ma deve corrispondere ad affermazioni ad esso non riconducibili, perchè sconfinanti nel provvedimento abnorme, o nel diritto libero e, quindi, in quanto tali, caratterizzate, prima ancora che da una negligenza inescusabile, come previsto dalla norma, da una negligenza inesplicabile (Cfr., Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6791 del 7/4/2016; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 2107 del 14/2/2012).

2.8. Tanto premesso, la censura sollevata nel secondo motivo di ricorso non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata. La Corte d’Appello, infatti, rileva che – in sede amministrativa – prima il TAR e poi il Consiglio di Stato, nel ritenere la legittimità del provvedimento di licenziamento impugnato, avevano interpretato il sostantivo “recidiva” di cui all’art. 2, comma 7, lett. a) codice disciplinare, come “recidiva generica” e non come “recidiva specifica”; a motivo di ciò, avevano rilevato che la disposizione regolamentare richiedesse la duplicità (nel biennio) della trasgressione alla regola di condotta disciplinare, e non la concreta applicazione per due volte della sanzione disciplinare della sospensione di 10 giorni, astrattamente prevista. Pertanto, il giudice di secondo grado – chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dei Giudici amministrativi – ha configurato l’attività da loro svolta come di “natura interpretativa” e, dunque, rientrante nella clausola di salvaguardia L. n. 117 del 1988, ex art. 2, comma 2.

2.9. Posto quanto sopra in linea di diritto, non coglie nel segno la doglianza relativa all’erronea interpretazione della norma regolamentare e alla mancata valutazione della confessione, in quanto la critica alla sentenza impugnata – stante il disposto della L. n. 117 del 1988, art. 2 e l’interpretazione della cd. “clausola di salvaguardia” offerta dalla giurisprudenza di questa Corte – avrebbe dovuto dare prova della sussistenza di una decisione pregiudizievole slegata dal processo interpretativo o valutativo della norma regolamentare da applicarsi alla fattispecie, perchè corrispondente ad affermazioni ad esso non riconducibili, in quanto sconfinanti nel provvedimento abnorme, o nel diritto libero e, quindi, in quanto tali, caratterizzate, prima ancora che da una negligenza inescusabile, da una negligenza inesplicabile. Di contro, a nulla vale il rilievo di una diversa interpretazione e, tanto meno, la mancata valutazione della dichiarazione rilasciata dal Dirigente dell’Ufficio Disciplina dell’INAIL. Proprio in base a quanto da ultimo rilevato, infatti, la dichiarazione fornita dal Dirigente dell’Ufficio, attestante la irrogazione di una sola sanzione disciplinare nel biennio, non risulta utile allo scopo, per due ordini di ragioni. Da un lato, per quanto sopra detto in punto di incensurabilità dell’attività di valutazione delle prove e dei fatti L. n. 117 del 1988, ex art. 2, comma 2; dall’altro, perchè, in sede amministrativa, il ricorso avverso il provvedimento di licenziamento è stato rigettato in considerazione delle plurime trasgressioni della regola disciplinare di comunicare l’impedimento fisico a recarsi in ufficio, e non sulla base della duplice irrogazione in concreto della sanzione disciplinare, in astratto irrogabile, essendo dunque inconferente il richiamo alla dichiarazione secondo cui “nessuna altra sanzione di pari entità è stata emessa”. Pertanto, seguendo il percorso decisorio scelto dai giudici amministrativi, la mancata considerazione della “confessione” del Direttore dell’Ufficio cui apparteneva la lavoratrice è frutto di una attività interpretativa della disposizione disciplinare del tutto incensurabile.

2 10. Non può, infatti, dirsi che il contenuto della disposizione del codice disciplinare sia stato inteso in un senso che non può essere contenuto nel suo dato testuale e che sia contro il suo significante, posto che come sopra puntualizzato, se una disposizione può avere vari possibili significati, come nel caso qui in esame, nessun significato, neanche quello più desueto e meno utilizzato, può essere fonte di responsabilità. Può essere fonte di responsabilità, infatti, solo attribuire ad una disposizione un non-significato, ossia un significato che essa – nè linguisticamente nè giuridicamente – può avere (Cfr. Cass., Sez. U., Sentenza n. 11747 del 3/5/2019). E in questo caso, si è dato rilievo all’accertata plurima condotta costituente infrazione disciplinare, sanzionabile in quei termini, e non all’applicazione della sanzione tout court, secondo regole interpretative che danno valore alla c.d. recidiva generica, utilizzando un gergo non estraneo al campo delle sanzioni disciplinari.

2 11. Inoltre, il motivo difetta del carattere di specificità, soprattutto se si considera che in un giudizio in cui si chieda di sindacare prima, per censurare poi, l’attività di interpretazione svolta dall’autorità giurisdizionale che, in uno stato di diritto, è preposta a dettare la legge del caso concreto con imparzialità di giudizio e con la necessaria competenza e professionalità, nella censura devono necessariamente svolgersi tutte le precisazioni ed individuarsi tutti i riferimenti ai fatti di causa e alle disposizioni regolamentari che permettano a questa Corte di individuare compiutamente la dedotta violazione. Infatti, “Per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3. il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente. Il requisito non è adempiuto, pertanto, laddove i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado” (Cass., Sez. 5, ordinanza n. 24340 del 4/10/2018; Cass., Sez. 6-3, ordinanza n. 13312 del 28/5/2018; Cass., Sez. 6-3, ordinanza n. 1926 del 3/2/2015).

2.12. Invece, nella censura, i predetti elementi non si rinvengono come, pure, non si rinviene lo stesso contenuto della disposizione regolamentare attorno a cui ruota il giudizio di responsabilità disciplinare considerato dai Giudici amministrativi – art. 2, comma 7, lett. a) Codice disciplinare INAIL del 1998, non coperto dal principio iura novit curia con riguardo al giudizio di legittimità. Infatti, secondo un principio di diritto tanto consolidato quanto risalente, riaffermato anche recentemente da questa Corte: “Il principio “iura novit curia”, laddove eleva a dovere del giudice la ricerca del “diritto”, si riferisce alle vere e proprie fonti di diritto oggettivo, cioè a quei precetti contrassegnati dal duplice connotato della normatività e della giuridicità, dovendosi escludere dall’ambito della sua operatività, nell’ambito del giudizio di legittimità, sia i precetti aventi carattere normativo, ma non giuridico (come le regole della morale o del costume), sia quelli aventi carattere giuridico, ma non normativo (come gli atti di autonomia privata, o gli atti amministrativi), sia quelli aventi forza normativa puramente interna (come gli statuti degli enti e i regolamenti interni) (cfr. Cass., Sez. 3 -, ordinanza n. 34158 del 20/12/2019; Sez. 2, Sentenza n. 15014 del 21/11/2000; Sez. 3, Sentenza n. 6933 del 5/7/1999; Sez. 1, Sentenza n. 1742 del 17/5/1976).

2.13. Infine, ove si deduce che la Corte di merito abbia omesso di considerare la mancata contestazione specifica del licenziamento e, dunque, la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 sia del successivo D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 55 si sottolinea, invero, un fatto che avrebbe rilievo solo se reso oggetto di specifica discussione. Ed invero, qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 32804 del 13/12/2019; Sez. 2, Sentenza n. 8206 del 22/4/2016; Sez. 1, Sentenza n. 25546 del 30/11/2006; Sez. 3, Sentenza n. 7194 del 30/4/2000). Per converso, nel ricorso non sono specificati i contenuti degli atti e i luoghi dell’iter processuale, con riguardo alle fasi di merito, in cui la doglianza relativa a tale omissione, così impedendosi a questa Corte di valutare la tempestività e la decisività della censura prospettata.

3. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato per le plurime ragioni di cui in motivazione, con condanna alle spese della parte ricorrente.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 7.000, oltre successive spese, prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 10 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2020

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