Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10817 del 05/05/2010

Cassazione civile sez. trib., 05/05/2010, (ud. 03/02/2010, dep. 05/05/2010), n.10817

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

TECOF DI RUNZA MASSIMO & C. S.A.S. in persona del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MICHELE MERCATI 51 presso lo studio dell’Avvocato BRIGUGLIO ANTONIO,

che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato GIORGETTI

MARIACARLA giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DEL TERRITORIO in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI CODEVILLA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 84/2005 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE

di MILANO, depositata il 22/06/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/02/2010 dal Consigliere Dott. SCARANO Luigi Alessandro;

udito per il ricorrente l’Avvocato ANTONIO BRIGUGLIO, che si riporta

agli scritti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’accoglimento del

primo motivo di ricorso ed il rigetto del secondo motivo, assorbito

il terzo e il quarto motivo, o per l’inammissibilità del terzo e del

quarto motivo di ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 22/6/2005 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia respingeva il gravame interposto dalla società TECOF di Runza Massimo & C. s.a.s. nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Pavia di rigetto dell’opposizione proposta in relazione ad avviso di liquidazione dell’I.C.I. per l’anno d’imposta 1996.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello la società TECOF di Runza Massimo & C. s.a.s. propone ora ricorso per Cassazione, affidato a 4 motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso l’Agenzia del territorio.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

nonchè contraddittorietà ed erroneità della motivazione su punto decisivo della controversia,, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che il giudice dell’appello non abbia considerato che la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 3 ha parificato l’atto impositivo all’atto di notificazione della rendita a tutti gli effetti, e quindi anche ai fini del decorso del termine d’impugnazione, sicchè tempestiva è stata l’opposizione nel caso spiegata avverso l’avviso di liquidazione 23 dicembre 2001, quale atto contenente per la prima volta la pretesa impositiva nei confronti del contribuente.

Con il 2 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che l’avviso di liquidazione 23 dicembre 2001 attiene a pretesa maggiore somma a titolo di I.C.I. per l’anno d’imposta 1996, determinata all’esito di provvedimento di variazione del classamento del 1999.

Atteso il rilevato contrasto interpretativo in argomento, chiede se del caso la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Con il 3 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del R.D.L. 13 aprile 1939, art. 12 conv. in L. n. 1249 del 1939, D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 3, L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta non avere il giudice dell’appello considerato la sua doglianza in ordine alla nullità – inesistenza dell’avviso di liquidazione 23 dicembre 2001, per mancanza di motivazione.

Con il 4 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

nonchè contraddittorietà ed erroneità della motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta di avere “ampiamente dimostrato come l’attribuzione della superiore categoria, della maggior rendita e del superiore valore siano, in realtà, il frutto di un grossolano errore atteso che il fabbricato non è affatto idoneo allo svolgimento di alcuna attività industriale specifica ma, al più, vi si possono depositare, per brevi lassi di tempo, dei materiali non pericolosi e non facilmente deperibili”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Allorquando con quest’ultimo viene come nella specie in particolare denunziato il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto non è infatti sufficiente una doglianza meramente apodittica e non seguita da alcuna dimostrazione, la stessa non consentendo alla Corte di legittimità di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali la pronunzia impugnata è fatta oggetto di censura (v.

Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 15/2/2003, n. 2312; Cass., 21/8/1997, n. 7851).

Avuto riguardo al pure denunziato vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va per altro verso ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste invero nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierno ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come il medesimo faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., all”avviso di liquidazione 23 dicembre 2001, n. 105″, all’atto di “appello”, all'”impugnativa avverso l’avviso di liquidazione 23 dicembre 2001, n. 105″, alla dimostrazione che “l’attribuzione della superiore categoria, della maggior rendita e del superiore valore siano, in realtà, il frutto di un grossolano errore atteso che il fabbricato non è affatto idoneo allo svolgimento di alcuna attività industriale specifica ma, al più, vi si possono depositare, per brevi lassi di tempo, dei materiali non pericolosi e non facilmente deperibili”) di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua esso non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., l/2/1995, n. 1161).

Al riguardo va in ogni caso posto in rilievo che a fronte del risalente precedente di questa Corte invocato dal ricorrente costituito da Cass., 20/1/2005, n. 1196, senz’altro prevalente è in giurisprudenza di legittimità il contrario e più recente orientamento secondo cui in tema di imposta comunale sugli immobili (I.C.I.) solo a decorrere dal 1 gennaio 2000 gli atti di attribuzione o di modifica della rendita catastale sono efficaci dal giorno della loro notificazione, giacchè per gli atti comportanti attribuzione di rendita adottati entro il 31 dicembre 1999, ancor quando successivamente notificati, il Comune può legittimamente richiedere l’I.C.I. dovuta in base al classamento, che ha effetto dalla data di adozione e non da quella di notificazione, non potendo trovare applicazione la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 1 concernente la diversa ipotesi in cui l’attribuzione della rendita catastale non solo sia stata notificata, ma anche effettuata dopo il 1 gennaio 2000 (v., in particolare, Cass., 29/4/2005, n. 8932; Cass., 25/9/2006, n. 20734; e, da ultimo, Cass., 29/9/2009, n. 19066).

Si è al riguardo in particolare precisato come nel prevedere che, a decorrere dal 1 gennaio 2000, gli atti comunque attributivi o modificativi delle rendite catastali per terreni e fabbricati sono efficaci solo a decorrere dalla loro notificazione, la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 1 implicitamente dispone, da un canto, che i medesimi atti, se adottati prima del 2000, sono sottoposti al regime di trasmissione della conoscenza fissato dal R.D.L. n. 652 del 1939, art. 12, comma 2 – per il quale la tabella, ove è indicata la rendita catastale per ciascuna unità immobiliare, è pubblicata mediante deposito negli uffici comunali per il periodo di 30 giorni, pubblicizzato per manifesti, da parte del sindaco, con l’indicazione di modalità per l’esercizio del diritto di accesso per visione da parte del contribuente; e, da altro canto, che gli stessi, quando siano recepiti in un atto impositivo del Comune non divenuto definitivo, sono efficaci retroattivamente fino all’epoca della verificazione del fatto influente sull’ammontare della rendita catastale (v. Cass., 11/9/2009, n. 19640).

In altre parole, atteso che per gli “atti comunque attributivi e modificativi delle rendite catastali per terreni e fabbricati” la necessità della notificazione, ai sensi della L. n. 342 del 2000, art. 74 costituisce condizione di efficacia degli stessi solo a decorrere dal primo gennaio 2000, mentre per gli atti comportanti attribuzione di rendita adottati entro il 31 dicembre 1999 il Comune può legittimamente richiedere l’imposta dovuta in base al classamento, che ha effetto dalla data di adozione e non da quella di notificazione, l’ICI dovuta è invero correttamente commisurata alla rendita catastale attribuita “tempo per tempo” dal competente ufficio erariale quando l’imposta sia dovuta per anni precedenti il primo gennaio 2000, giacchè, nello stabilire che dalla detta data gli atti attributivi o modificativi delle rendite catastali sono efficaci solo a decorrere dalla loro notificazione, il legislatore non ha voluto restringere il potere di accertamento tributario al periodo successivo alla notificazione del classamento, ma piuttosto segnare il momento a partire dal quale l’amministrazione comunale può richiedere l’applicazione della nuova rendita ed il contribuente può tutelare le sue ragioni contro di essa, non potendosi confondere l’efficacia della modifica della rendita catastale, coincidente con la notificazione dell’atto, con la sua applicabilità, che va riferita invece all’epoca della variazione materiale che ha portato alla modifica (v. Cass., 18/4/2007, n. 9203).

Orbene, osservato che le censure mosse al 4 motivo in ordine alla “attribuzione della superiore categoria, della maggior rendita e del superiore valore” risultano invero connotate da profili di novità, dei suindicati principi risulta essere stata dal giudice dell’appello fatta invero piena e corretta applicazione nell’impugnata sentenza.

Per altro verso, quanto al pure denunziato vizio di motivazione, va sottolineato che il ricorrente, il quale quanto al 3 motivo non propone invero denunzia di vizio in procedendo, in relazione al 4 motivo sostanzialmente omette invero di analiticamente argomentare a relativo sostegno, la lamentata contraddittorietà della motivazione non potendo di certo ritenersi compiutamente censurata alla stregua della sopra riportata generica, apodittica e non decisiva asserzione di avere il ricorrente in sede di giudizio di merito “ampiamente dimostrato come l’attribuzione della superiore categoria, della maggior rendita e del superiore valore siano, in realtà, il frutto di un grossolano errore atteso che il fabbricato non è affatto idoneo allo svolgimento di alcuna attività industriale specifica ma, al più, vi si possono depositare, per brevi lassi di tempo, dei materiali non pericolosi e non facilmente deperibili”.

Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierno ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr., da ultimo, Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come si è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., il ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

LA CORTE Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 800,00, di cui Euro 600,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2010

 

 

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