Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10813 del 17/05/2011

Cassazione civile sez. III, 17/05/2011, (ud. 18/04/2011, dep. 17/05/2011), n.10813

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 208/2009 proposto da:

MINISTERO ECONOMIA FINANZE (OMISSIS), MINISTERO SALUTE,

UNIVERSITA’ STUDI GENOVA, MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA

(OMISSIS), in persona dei rispettivi Ministri p.t., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso gli uffici

dell’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende

per legge;

– ricorrenti –

contro

Q.A. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI

elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio

dell’avvocato CONTALDI Mario, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GAMMAROTA MARIAGRAZIA giusta delega in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 654/2008 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

Sezione Prima Civile, emessa il 27/9/2006, depositata il 04/06/2008

R.G.N. 2185/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

18/04/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato FIGLIOLIA ETTORE;

udito l’Avvocato CONTALDI GIANLUCA (per delega dell’Avv. CONTALDI

MARIO);

udito l’Avvocato RIENZI CARLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso con il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p. 1. Nell’aprile del 2001 Q.A. e gli altri resistenti indicati in epigrafe (ad eccezione di V.E. e C. V.L., che intervenivano nel giudizio), nonchè altri soggetti che poi non prendevano parte al successivo giudizio di appello, tutti laureati in medicina e chirurgia, convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Genova gli allora Ministeri della Sanità, del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica, dell’Università e della Ricerca Scientifica, e della Pubblica Istruzione, nonchè l’Università degli Studi di Genova, e, adducendo di avere frequentato le scuole di specializzazione presso detta Università negli anni accademici 1982-1983 e seguenti fino a quello 1990-1991 (nei termini per ciascuno indicati), conseguendo le specializzazioni riconosciute dalle direttive CEE n. 362/75 e n. 363/75, come trasfuse, coordinate ed integrate nella direttiva n. 82/76, senza ricevere alcuna remunerazione per l’attività prestata, chiedevano: a) che fosse dichiarato che per i corsi di specializzazione seguiti avevano diritto a percepire un’adeguata remunerazione; b) e che, in conseguenza, i convenuti fossero condannati, solidalmente o alternativamente, al pagamento delle somme non percepite per gli anni di formazione in base alla L. n. 257 del 1991, interpretata alla luce delle dette direttive, disapplicandola nella parte in cui riservava l’applicazione del beneficio riconosciuto dalla normativa comunitaria soltanto ai medici perfezionandi ammessi nell’anno accademico 1991-1992, con quantificazione del dovuto nella misura adeguata alla stregua dei principi affermati dalle sentenze della corte di Giustizia della Comunità Economica Europea del 25 febbraio 1999 (in causa C-131-97) e del 3 ottobre 2000 (in causa C-371-97) e comunque in misura non inferiore a L. 21.500.000 per ciascun anno di specializzazione, oltre interessi e rivalutazione monetaria in conformità al citato D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6.

p. 1.1. Le amministrazioni convenute, costituendosi eccepivano, oltre al difetto di giurisdizione dell’A.G.O., il loro difetto di legittimazione passiva, la prescrizione sia sotto il profilo della responsabilità contrattuale che extracontrattuale, l’infondatezza delle avverse pretese per la non immeditata esecutività delle direttive comunitarie invocate e, quindi, per l’insussistenza di diritti soggettivi anteriormente al loro recepimento nell’ordinamento nazionale, la non equiparabilità di coloro che avevano frequentato le scuole di specializzazione anteriormente al 1991 a coloro che le avevano frequentate successivamente.

In sede di precisazione delle conclusioni gli attori e gli intervenienti formulavano anche richiesta di condanna dei convenuti al risarcimento di tutti gli ulteriori danni patiti e patiendi da ciascuno per l’omesso ed incompleto recepimento della direttive de quibus.

p. 2. Con sentenza del maggio del 2004 il Tribunale di Roma, per quanto ancora interessa, qualificava la causa petendi fatta valere dagli attori e dagli intervenienti come avente titolo in un’obbligazione di natura contrattuale basata sull’invocata diretta applicazione della normativa comunitaria e sulla correlativa disapplicazione della normativa interna confliggente e non già in una responsabilità da fatto illecito per mancato recepimento della disciplina comunitaria nell’ordinamento interno, ma escludeva sia che il pur manifesto contrasto tra il D.Lgs. n, 257 del 1991, art. 8 e la direttiva CEE n. 76 del 982 potesse risolversi mediante l’invocata disapplicazione della normativa interna, per non essere presente nel diritto comunitario il riconoscimento del diritto in modo chiaro ed incondizionato, sia che ricorressero le condizioni per un’interpretazione comunitariamente orientata, sia che si prospettasse una questione di costituzionalità. In via subordinata affermava inoltre che il diritto fatto valere dagli attori e dagli intervenienti si sarebbe comunque dovuto reputare prescritto ai sensi dell’art. 2948 c.c., n. 4, così rigettando le relative domande.

p. 3. La sentenza veniva appellata dai resistenti indicati in epigrafe davanti alla Corte d’Appello di Genova, la quale, nella costituzione delle amministrazioni, con sentenza non definitiva del 4 giugno 2008, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato le eccezioni pregiudiziali e preliminari delle convenute ed ha dichiarato che agli appellanti “compete il riconoscimento, in conformità alle direttive comunitarie di cui in motivazione, del diritto a percepire una adeguata remunerazione per la frequenza dei corsi di specializzazione presso l’Università di Genova, alle condizioni da verificarsi, e nella misura da determinarsi, nell’ulteriore corso del procedimento, riguardo al quale ha provveduto con separata ordinanza”.

Tale dichiarazione è stata fatta previa qualificazione della domanda degli attori e degli intervenienti nel senso di “azione diretta a conseguire il soddisfacimento diretto di un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione piuttosto che il risarcimento del danno conseguente al mancata adempimento dell’obbligazione a quel diritto correlata” e ciò previa applicazione della disciplina del D.Lgs. n. 257 del 1991, con espunzione del limite temporale da esso posto all’applicazione della disciplina comunitaria.

p. 4. Contro questa sentenza hanno proposto congiunto ricorso per cassazione affidato a due motivi i Ministeri della Salute, dell’Economia e delle Finanze, e dell’Istruzione Università e Ricerca, nonchè l’Università degli Studi di Genova.

Hanno resistito gli intimati con congiunto controricorso.

Sono intervenute nel giudizio di cassazione il Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti dei consumatori) e l’Articolo 32 – Associazione Italiana per i Diritti del Malato – Aidma.

p. 5. Le intervenienti hanno depositato memoria.

Successivamente alle conclusioni del Procuratore Generale hanno, altresì, depositato asserite note di udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Preliminarmente va rilevata l’inammissibilità dei due interventi, spiegati in questa sede dal Codancons e dalla Aidma, atteso che “Non è consentito nel giudizio di legittimità l’intervento volontario del terzo, mancando una espressa previsione normativa, indispensabile nella disciplina di una fase processuale autonoma, e riferendosi l’art. 105 cod. proc. civ., esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado, senza che, peraltro, possa configurarsi una questione di legittimità costituzionale della norma disciplinante l’intervento volontario, come sopra interpretata, con riferimento all’art. 24 Cost., giacchè la legittimità della norma limitativa di tale mezzo di tutela giurisdizionale discende dalla particolare natura strutturale e funzionale del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione. Nè risulta possibile la conversione in ricorso incidentale dell’atto, inammissibile, con il quale il terzo pretenda di intervenire nel giudizio di legittimità, attesa la necessaria coincidenza fra legittimazione, attiva e passiva, all’impugnazione ed assunzione della qualità di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata” (Cass. sez. un. n. 1245 del 2004; in senso sostanzialmente conforme, Cass. sez. un. n. 8882 del 2005).

Oscillazioni, sulle quali, però non è qui la sede per indugiare, si sono manifestate sull’intervento del successore a titolo particolare, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., figura alla quale le Sezioni Unite, però, non intesero riferirsi, essendosi occupate dell’intervento ai sensi dell’art. 105 c.p.c..

Il principio affermato dalle Sezioni Unite, data la sua assorbenza in tema di intervento volontario ai sensi dell’art. 105 c.p.c., esclude la necessità di soffermarsi su come e se, in ipotesi, l’intervento in discorso fosse riconducibile ad una delle fattispecie di cui a tale norma.

1.1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta “violazione e falsa applicazione del D.L. (sic) n. 257 del 1991; Direttiva CE 362/75, 82/76; L. n. 370 del 1999; artt. 2946 e 2948 cod. civ.; art. 360 c.p.c., n. 3”.

Vi si critica la sentenza impugnata, là dove ha disatteso l’eccezione di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.p.c., n. 4, prospettata dai ricorrenti ed ha negato che una qualunque ipotesi di prescrizione fosse potuta decorrere con riferimento alla domanda per come qualificata, affermando che fino a quando nel diritto italiano non fosse stata introdotta una norma giuridica specifica di riconoscimento di una remunerazione a coloro che avevano frequentato le scuole di specializzazione nel periodo fra il 1982 ed il 1991, doveva farsi riferimento al principio, emergente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui, finchè una direttiva sufficientemente specifica nell’individuare un diritto a favore dei singoli ma non considerabile come self-executing e, quindi, bisognosa comunque di attuazione da parte degli ordinamenti interni, non sia correttamente trasposta nell’ordinamento nazionale, i singoli non sono in grado di acquisire piena conoscenza dei loro diritti, onde, fino al momento in cui abbia luogo l’esatta trasposizione della direttiva, lo Stato inadempiente non può eccepire la tardività di un’azione giudiziaria avviata nei suoi confronti, a tutela dei diritti che le disposizioni di tale direttiva riconoscono, e solo da tale momento può decorrere un termine incidente sulla proponibilità di una domanda nell’ambito dell’ordinamento statuale.

Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991; Direttive CEE 75/363, 82/76; artt. 1223 e 2043 cod. civ.. Difetto di motivazione – art. 360 c.p.c., nn. 3, 4, 5”.

Il motivo di violazione di norme di diritto censura la sentenza impugnata per avere essa ritenuto possibile che l’azione dei ricorrenti fosse da qualificare come azione diretta a conseguire il soddisfacimento diretto di un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione piuttosto che il risarcimento del danno conseguente al mancato adempimento dell’obbligazione a quel diritto correlata e ciò previa applicazione della disciplina del D.Lgs. n. 257 del 1991, con espunzione del limite temporale da esso posto ali “applicazione della disciplina comunitaria.

Viceversa, secondo la giurisprudenza di questa Corte (viene citata Cass. n. 3283 del 2008) la pretesa dei ricorrenti non avrebbe potuto essere così qualificata, bensì ricollegata ad un illecito da violazione da parte dello Stato Italiano degli obblighi derivanti dal Trattato CE. Il “difetto di motivazione” si risolve, in realtà, in una censura in iure, tant’è che è conclusa da un quesito di diritto: essa, infatti, imputa alla sentenza impugnata dì non avere provveduto, nel riconoscere l’applicabilità della disciplina di cui al citato D.Lgs., alla necessaria verifica dell’esistenza nella frequentazione dei corsi da parte dei ricorrenti di “caratteristiche analoghe a quelle previste dalla normativa comunitaria”.

p. 2. L’esame del primo motivo e della prima censura del secondo motivo può procedere congiuntamente.

Quest’ultima, anzi, denunciando un errore di qualificazione della domanda in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello, si profila logicamente preliminare, sia perchè l’esito del suo scrutinio assume rilievo, ancorchè nella prospettazione dei ricorrenti, ai fini della stessa individuazione del regime prescrizionale di diritto interno e della sua compatibilità con la giurisprudenza comunitaria, sia perchè, trattandosi di un problema di qualificazione in iure della domanda giudiziale è esaminabile da questa Corte, quale quaestio iuris, senza il limite della prospettazione della censura, alla condizione che restino immutati i fatti che della censura sono oggetto e che individuano la domanda.

La prima censura del secondo motivo è fondata, perchè la qualificazione della domanda dei ricorrenti ritenuta corretta dalla sentenza impugnata, a preferenza peraltro dell’altra prospettata dai medesimi, è erronea non meno di quanto la stessa Corte territoriale ha ritenuto la prospettiva dell’azione di risarcimento danni. La domanda proposta dai ricorrenti in relazione alle loro varie posizioni è, infatti, da qualificarsi secondo una terza opzione, la quale, tuttavia, non potrà comportare la cassazione della sentenza.

Tale terza opzione di qualificazione della domanda è quella che in relazione a domande simili le Sezioni Unite della Corte, nella sentenza n. 9147 del 2009 hanno ritenuto di offrire sulla base dell’apprezzamento della vicenda della inattuazione statuale delle direttive invocate dai resistenti in modo diverso sia dalla prospettiva della diretta applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, ritenuta dalla sentenza impugnata, sia dalla prospettiva della individuazione di una responsabilità statuale da fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c..

La sostituzione della qualificazione in iure corretta a quella fra le due postulate dagli attori all’atto della proposizione della domanda giudiziale, che è stata condivisa dalla Corte genovese, nonchè all’altra che essa ha disatteso e con la censura in esame si vorrebbe riconosciuta da giudice di merito alla stregua dell’art. 2043 c.c., è possibile in questa sede perchè i fatti storici posti a base della domanda ed il petitum di essa e, dunque, il bisogno di tutela giurisdizionale che ha determinato la controversia, non mutano in alcun modo, ma sono soltanto ricondotti da questa Corte al loro corretto referente normativo astratto, nell’esercizio della mera attività di qualificazione in diritto della vicenda e segnatamente della domanda. Nella stessa sentenza n. 9147 del 2009 le Sezioni Unite hanno proceduto proprio in questo senso.

p. 3. Ciò premesso, il Collegio intende in primo luogo dare continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite sulla qualificazione della pretesa degli specializzandi relativa alla mancata remunerazione per l’attività prestata nell’ambito dei corsi di specializzazione. Insegnamento che si è espresso con il principio di diritto, secondo cui “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non auto esecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione”.

Il Collegio non ignora che l’arresto delle Sezioni Unite è stato da parte della dottrina criticato con riferimento all’affermazione del non potersi collocare i comportamento dello Stato, di inadempimento dell’obbligo di attuazione di una direttiva, sul piano dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c., per non essere qualificabile come comportamento antigiuridico nell’ambito dell’ordinamento interno, ma solo in quello comunitario.

La critica, peraltro, sembra avere frainteso l’affermazione della non illiceità ed antigiuridicità di tale comportamento, perchè le ha attribuito un carattere assoluto, invece che relativo alla sola fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., e segg..

Viceversa, l’intento delle Sezioni Unite, là dove hanno fatto quella affermazione sembra da relativizzare, cioè si deve intendere parametrato esclusivamente alla qualificazione di illiceità ed antigiuridicità alla stregua di quelle norme e secondo le note identificative delle fattispecie da esse previste. Infatti, avendo le stesse Sezioni Unite qualificato il comportamento de quo come determinativo di un’obbligazione di natura “contrattuale”, cioè direttamente originante dall’inadempimento di un obbligo, quello di attuare la direttiva comunitaria ed avendo Esse, in ossequio a quanto imposto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, considerato tale inadempimento come determinativo di un diritto al risarcimento del danno a favore del singolo, è palese che Esse non hanno affatto inteso escludere in assoluto il carattere antigiuridico ed illecito (nel senso di contro, ius) del detto comportamento sul piano dell’ordinamento interno. Le Sezioni Unite, cioè, venendo in considerazione la pretesa degli specializzandi di un risarcimento per mancata consecuzione di un’adeguata remunerazione (ma non diversamente è a dire per la pretesa al risarcimento per la mancata attribuzione al titolo di studio a suo tempo conseguito di un valore idoneo a consentirne l’utilizzazione in ambito comunitario, che costituisce l’altro possibile pregiudizio derivante dall’inattuazione delle direttive in discorso), cioè di un diritto che le note direttive imponevano fosse loro riconosciuto dall’ordinamento interno, hanno considerato tale pretesa come riconducibile al concetto generale dell’obbligazione e, dovendo individuare sul piano dell’ordinamento interno la fonte di quest’ultima e la sua collocazione alla stregua dell’art. 1173 c.c., hanno considerato il comportamento dello Stato di inadempimento della direttiva come un fatto idoneo a produrre sul piano interno, nei confronti dei soggetti cui in base alla direttiva si sarebbe dovuto riconoscere un certo diritto, un’obbligazione risarcitoria. L’insorgenza di tale obbligazione quale conseguenza del fatto è stata giustificata sulla base dei vincoli che dall’ordinamento comunitario derivano all’ordinamento interno per effetto dell’inadempimento di una direttiva riconoscente in modo sufficientemente specifico un diritto ai soggetti dell’ordinamento interno, ma non avente carattere self- executing. La fonte normativa della idoneità del fatto a produrre l’obbligazione in questione discende direttamente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, manifestatasi per la prima volta con la nota sentenza 19 novembre 1991, Francovich, cause C-6/90 e C-9-90 e, quindi, precisata – come ricordato dalle Sezioni Unite – dalla sentenza 5 marzo 1996, Brasserie du Pecheur e Factortama 3, cause C-46/93 e C-48/93.

In forza della necessità di riconoscere sul piano dell’ordinamento interno i dieta della Corte di Giustizia, l’inadempimento del legislatore italiano all’attuazione di una direttiva riconoscente in modo specifico determinati diritti ai singoli, ma non self-executing, è venuta a connotarsi sul piano dell’ordinamento interno come fatto generatore di un’obbligazione risarcitoria, cioè come fonte di un’obbligazione di ristoro, ed è evidente che, se da luogo ad un’obbligazione di questo tipo, cioè che impone una prestazione a ristoro dell’inadempimento, tale comportamento sì caratterizza necessariamente come antigiuridico anche sul piano dell’ordinamento interno, dato che è da considerare nel suo ambito come “fatto” produttivo della nascita di un’obbligazione e, quindi, di una conseguenza negativa per lo Stato.

p. 3.1. La. scelta delle Sezioni Unite, d’altro canto, si può ritenere in qualche modo obbligata, per il fatto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia cui si è appena sopra fatto riferimento esige che l’obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata a requisito della colpa, il che di regola è, invece, necessario nell’illecito ex art. 2043 c.c.. E’ vero che nel sistema delle norme ad esso successive ve ne sono alcune che fondano la responsabilità almeno in parte su presupposti oggettivi, che prescindono cioè dalla colpa, ma non si comprende come la responsabilità in questione potrebbe essere ricondotta ad alcune di esse, attesa la loro specificità.

Solo la norma generale dell’art. 2043 c.c., quale norma identificatrice della figura del fatto illecito, si presterebbe, infatti, a ricevere come figura particolare detta responsabilità, perchè se questa si volesse considerare come fatto illecito non potrebbe che evocarsi la norma de qua, giacchè essa prevede una fattispecie com’è noto atipica, che, dunque, sarebbe la sola che si presterebbe a contenere la figura in questione.

3.2. Nè, d’altro, canto si può ritenere, come pure è stato adombrato, che al requisito della colpa di cui all’art. 2043 c.c., sostanzialmente sia riconducibile il carattere dell’inadempimento, siccome individuato come rilevante, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo risarcitorio, dalla citata giurisprudenza comunitaria, cioè quello dell’essere la violazione sufficientemente qualificata, id est grave e manifesta. Non si comprende, infatti, come tali connotazioni, in quanto relative al mero dato oggettivo del grado di scostamento della legislazione nazionale da quanto imponeva la direttiva, possa trasformarsi in un requisito soggettivo come la colpa. D’altro canto, nei casi di inadempimento totale, si sarebbe per definizione in un’ipotesi di violazione grave e manifesta.

Sicchè l’argomentazione, ferma la sua non condivisibilità, sarebbe pertinente al solo caso di inadempimento parziale, salvo a stabilire come si debba intendere la parziarietà dell’adempimento e, particolarmente, se essa possa essere soggettiva, cioè concernere determinati soggetti che secondo la direttiva dovevano essere considerati.

3.3. In fine, deve anche escludersi che, alla qualificazione dell’obbligazione risarcitoria verso i singoli per inadempimento della direttiva, la giurisprudenza della Corte di Giustizia abbia dato una caratteristica tale da imporre di ricondurla necessariamente nell’ordinamento italiano sotto la disciplina della lex aquilia. Non si può, cioè ritenere che, avendo quella giurisprudenza identificato il diritto del singolo come diritto al risarcimento del danno, il rinvio alla legislazione degli stati membri e, quindi, a quella dello Stato Italiano per l’individuazione della disciplina di tale risarcimento comporti che nel nostro ordinamento tale disciplina si debba identificare con quella di cui agli artt. 2043 c.c..

E’ sufficiente osservare che l’espressione risarcimento del danno nell’ordinamento giuridico italiano non è, com’è noto, coessenziale al sistema della sola responsabilità da illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., ma è categoria, cioè tecnica di tutela, ben più ampia.

Dunque, l’identificazione nell’ordinamento italiano della disciplina della responsabilità nel caso di specie non poteva dirsi in alcun modo veicolata verso la disciplina degli artt. 2043 c.c., per cui l’operazione di sistemazione fatta alle Sezioni Unite nel senso di collocare la responsabilità nell’ambito della norma generale dell’art. 1176 c.c., fra gli altri fatti idonei a produrre l’obbligazione e specificamente un’obbligazione risarcitoria, ravvisandone la fonte nel carattere cogente ai fini della nascita di un obbligo risarcitorio, della citata giurisprudenza comunitaria, appare pienamente legittima ed anzi, se si considerano le peculiarità fissate dalla stessa giurisprudenza per l’operare dell’inadempimento quale fonte dell’obbligazione risarcitoria, appare vieppiù giustificata. Ciò, per non essere tale fonte riconducibile ad un fatto o ad atto produttivo dell’obbligazione già previsto da disposizioni del diritto interno, bensì per essere qualificabile soltanto come uno specifico fatto emergente direttamente dall’ordinamento comunitario, nella specie attraverso la legittima manifestazione della sua forza cogente attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia.

p. 3.4. Ribadito, dunque, che la responsabilità dello Stato per l’inadempimento di una direttiva comunitaria che riconosca in modo sufficientemente specifico un diritto, ma non sia self-executing, da luogo ad una fattispecie di responsabilità “contrattuale”, v’è da rilevare che le Sezioni Unite, con la qualificazione “contrattuale”, hanno chiaramente inteso riferirsi al concetto di “responsabilità contrattuale” non già nel senso di una responsabilità da contratto, il che sarebbe nella specie fuor di luogo, ma nel senso in cui di una responsabilità “contrattuale” si è sempre parlato tradizionalmente per significare che l’obbligazione risarcitoria non nasce da un fatto illecito alla stregua dell’art. 2043 c.c., e segg., ma è dall’ordinamento ricollegata direttamente alla violazione di un obbligo precedente, che ne costituisce direttamente la fonte. Si vuoi dire, cioè che il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’art. 1173 c.c..

p. 3.5. La qualificazione della responsabilità di cui si discorre come “contrattuale” ha come conseguenza, per come ritenuto dalle Sezioni Unite, che la disciplina della prescrizione secondo l’ordinamento interno è quella decennale.

p. 3.6. Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite e ribaditi nei termini qui indicati, la prima censura del secondo motivo è, dunque, accolta, ma la sovrapposizione della qualificazione dell’azione alla stregua di quanto affermato dalle Sezioni Unite a quella erroneamente ritenuta dalla Corte territoriale non potrà comportare, come s’è già anticipato ed emergerà dall’esito dello scrutinio del primo motivo, la cassazione della sentenza impugnata.

p. 4. Anche lo scrutinio del primo motivo, infatti, evidenzia la sua fondatezza, ma non l’erroneità del dispositivo della sentenza impugnata, perchè, se quest’ultima deve ritenersi erronea, là dove – pur sulla falsariga dell’ulteriore già acclarato errore di qualificazione della domanda – ha disatteso l’eccezione di prescrizione sull’assunto che nella specie non sia decorso alcun termine di prescrizione, non è erroneo, ma conforme a diritto il suo dispositivo, là dove ha negato che all’atto della domanda il diritto degli attori e qui resistenti non si fosse prescritto.

Queste le ragioni.

Ritiene il Collegio che la tesi seguita dalla Corte territoriale per giustificare l’affermazione che nessun termine di prescrizione sia mai decorso non sia condivisibile, perchè la giurisprudenza comunitaria da essa implicitamente richiamata non la conforta.

Inoltre, poichè lo stato della giurisprudenza comunitaria appare oggi sufficientemente certo in questo senso, si deve escludere che ricorra una situazione di dubbio sull’interpretazione dell’incidenza del diritto comunitario sul punto, si che si imponga un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che davanti a questa Corte rivestirebbe carattere obbligatorio.

E’ noto, infatti, che “Il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (cfr. Corte di Giustizia CEE 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit)” (Cass. (ord. interloc.) n. 22103 del 2007).

p. 4.1. La giurisprudenza comunitaria cui la sentenza impugnata ha inteso riferirsi, pur senza individuarla, ma, peraltro, riportandone la motivazione (trasfusa anche nella massima ufficiale) è quella di cui alla nota sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 25 luglio 1991, Emmot, resa nella C-208/90, secondo la quale “Finchè una direttiva non è stata correttamente trasposta nel diritto nazionale, i singoli non sono in grado di avere piena conoscenza dei loro diritti. Tale situazione d’incertezza per i singoli sussiste anche dopo una sentenza con cui la Corte ha dichiarato che lo Stato membro di cui trattasi non ha soddisfatto gli obblighi che ad esso incombono ai sensi della direttiva, e anche se la Corte ha riconosciuto che l’una o l’altra delle disposizioni della direttiva è sufficientemente precisa ed incondizionata per essere fatta valere dinanzi ad un giudice nazionale. Solo la corretta trasposizione della direttiva porrà fine a tale stato d’incertezza e solo al momento di tale trasposizione si è creata la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli che essi facciano valere i loro diritti. Ne deriva che, fino al momento dell’esatta trasposizione della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardività di un’azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti che ad esso riconoscono le disposizioni dì tale direttiva, e che un termine di ricorso di diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento”.

Questa decisione, va notato, si colloca in un momento, sia pure di poco anteriore, alla già citata sentenza sul caso Francovich, con la quale la Corte di Giustizia affermò che l’inadempimento di una direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire un certo diritto, ma non tanto da essere self-executing, da luogo ad un obbligo di risarcimento del danno a favore del singolo. Ed infatti, come emerge dalla lettura della vicenda giudiziale davanti al giudice nazionale (irlandese) nella specie la parte (la signora Emmot) non faceva valere una pretesa risarcitoria, ma rivendicava dallo Stato Irlandese i diritti riconosciuti dalla direttiva.

Inoltre, la decisione non si riferiva espressamente all’istituto della prescrizione, ma alla più ampia fattispecie dell’imposizione di termini di ricorso nell’ordinamento nazionale.

Successivamente, la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è mossa, però, espressamente nel senso di ridimensionare la portata dell’affermazione della sentenza Emmot. Ciò, soprattutto con riferimento a vicende che non riguardavano pretese risarcitorie da inadempimento di direttiva, bensì pretese verso lo Stato nazionale di carattere restitutorio di vantaggi conseguiti indebitamente in quanto l’ordinamento nazionale non si era conformato a direttive che imponevano l’esclusione di divieti. La ragione per cui non si trattava di pretese di risarcimento danni va ravvisata, verosimilmente, nella circostanza che nel momento in cui le pretese erano state introdotte davanti al giudice nazionale la sentenza Francovich non era stata ancora pronunciata. D’altro canto, solo con la già citata sentenza Brasserie du Pecheur, che è del 1996, l’arresto di cui alla Francovich venne precisato. Tuttavia, talvolta, specie da ultimo, la giurisprudenza di ridimensionamento della sentenza Emmott si è manifestata espressamente con riguardo a casi nei quali il soggetto dello Stato membro faceva valere proprio la pretesa al risarcimento da inadempimento della direttiva, piuttosto che il diritto stabilito da essa.

p. 4.2. L’esame della giurisprudenza successiva alla sentenza Emmott evidenzia, in particolare, quanto segue:

a) già la sentenza 27 ottobre 1993, Steenhorst-Neerings, C-338/91, essendo stata invocata, la sentenza Emmott nella controversia (e l’invocazione l’aveva fatta la stessa Commissione), ne restrinse sostanzialmente la portata, sia pure dicendo che l’applicazione dei principio da essa stabilito non era pertinente nella specie, perchè non si trattava di norma di diritto interno diretta a stabilite, prima dell’attuazione della direttiva che veniva in rilievo, un termine per agire, bensì di norma che limitava l’effetto retroattivo di una domanda intesa ad ottenere una prestazione riconosciuta dalla direttiva: la massima affermata fu la seguente: “Il diritto comunitario non si oppone all’applicazione di una disposizione di legge nazionale in forza della quale una prestazione di inabilità al lavoro sia retroattiva a non oltre un anno prima della data di presentazione della domanda, qualora un singolo faccia valere i diritti direttamente attribuitigli, a decorrere dal 23 dicembre 1984, dall’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 in tema di divieto di discriminazioni fondate sul sesso in materia di previdenza sociale e, alla data di presentazione della domanda, lo Stato membro interessato non abbia ancora provveduto alla corretta attuazione di tale norma della direttiva nell’ ordinamento giuridico interno”. E’ innegabile, però, che ritenendo legittima l’applicazione di un limite alla retroattività dell’azione diretta ad ottenere il diritto riconosciuto dalla direttiva che veniva in rilievo, sostanzialmente si escluse che la situazione di inattuazione della stessa potesse giustificare l’attribuzione di tutto ciò che in base ad essa il soggetto avrebbe potuto conseguire. Onde la specificità del caso giudicato rispetto al principio della Emmott diventa difficilmente comprensibile;

b) ad un caso assolutamente simile – per espressa affermazione della stessa Corte di Giustizia – a quello sub a) si riferisce la sentenza 6 dicembre 1994, Johnson, C-410-92, nella quale, però, il giudice comunitario, prima di ribadire l’identica ratio decidendi di quel caso (cioè, trattarsi di limitazione dell’effetto retroattivo: punto 28), richiamandosi alla sentenza citata sub a) (punto 26) espressamente afferma, per giustificare l’irrilevanza del principio della Emmott, che “dalla menzionata sentenza Steenhorst-Neerings deriva che la soluzione sviluppata nella sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza dai termini arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù della direttiva” Affermazione questa che parrebbe significare che il principi della Emmott può essere derogato a condizione che la disciplina interna non elimini tutti i benefici che il singolo avrebbe potuto conseguire in caso di totale attuazione della direttiva, ma li precluda solo in parte;

c) irrilevante è Corte di Giustizia 10 luglio 1997, Palmisani, C-261- 95, poichè riguardò un caso in cui, nell’attuare tardivamente la direttiva, lo Stato Italiano aveva espressamente regolato l’azione risarcitoria da inadempimento e l’aveva assoggettata ad un termine decadenziale: si trattava, quindi, di diritto del singolo fatto valere sulla base della disciplina di adempimento della direttiva che veniva in questione;

d) parimenti irrilevanti sono Corte di Giustizia 17 luglio 1997, Haahr Petroleum Ltd, C-90-94 e 17 luglio 1997, Texaco, C-114-95 e C- 115-95, poichè si riferiscono a casi nei quali la sentenza Emmott era stata invocata in ipotesi di assoggettamento a termine di un’azione direttamente basata su una norma del Trattato e non su una direttiva: la Corte comunitaria ebbe a rilevare che la sentenza Emmott non era pertinente, perchè riguardava solo il caso del diritto fondato sulla direttiva;

e) di particolare importanza, viceversa, perchè riguardò un caso nel quale veniva in rilievo un termine di prescrizione, è Corte di Giustizia 2 dicembre 1997, Fantask, C-188-95, la quale affermò che “il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro, che non ha attuato correttamente la direttiva 69/335, come modificata, di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale che decorra dalla data di esigibilità dei tributi di cui trattasi, qualora tale termine non sia meno favorevole per i ricorsi basati sul diritto comunitario di quello dei ricorsi basati sul diritto interno e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario”: in questo caso, la direttiva non adempiuta correttamente avrebbe comportato, se lo fosse stata, l’esclusione della debenza di determinati tributi e la parte privata, invocando la direttiva, aveva esercitato un’azione di rimborso di somme versate in eccedenza rispetto a quanto dovuto in presenza di costretta attuazione della direttiva. La Corte di Giustizia nuovamente ribadì ®che la soluzione sviluppata nella sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza dai termini arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù di una direttiva comunitaria” (punto 51). Peraltro, in questo caso – riguardo al quale va nuovamente ribadito la rilevanza della impostazione data alla controversia sul piano del diritto interno – la pretesa di restituzione di somme indebitamente pagate nella sostanza si poteva considerare, anche se nel dibattito processuale non lo fu, come risarcitoria secondo le coordinate della Francovich;

f) la stessa soluzione e le stesse motivazioni della sentenza sub e) si trovano ribadite da Corte di Giustizia 15 settembre 1998, Ansaldo Energia s.p.a., C-279-96, C-280-96 e C-281-96, da Corte di Giustizia 15 settembre 1998, Spac s.p.a., C-260-96, e da Corte di Giustizia 15 settembre 1998, Edis, C-231-96, tutte relative a controversie con lo Stato Italiano, concernenti questioni similari, nella specie concernenti la c.d. tassa sulle società italiana, nonchè da Corte di Giustizia 17 novembre 1998, Aprile, C-228-96, concernente termine di decadenza di azione di rimborso di tassa doganale, e da Corte di Giustizia 28 novembre 2000, Roquette Freres SA, C-88-99, relativa sempre ad azione di ripetizione di imposta nazionale indebitamente riscossa;

g) da ultimo, assume invece particolare rilevanza Corte di Giustizia (Grande Sezione) 14 marzo 2009, Danske Slagterier, C-445-06, la quale, intervenendo su un caso in cui la questione pregiudiziale era stata posta proprio circa l’applicazione di un termine di prescrizione previsto dall’ordinamento interno – quello tedesco – all’azione di risarcimento danni da carente trasposizione di una direttiva, ha statuito che “Il diritto comunitario non osta a che il termine di prescrizione di un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere dalla data in cui i primi effetti lesivi di detta scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri, anche qualora tale data sia antecedente alla corretta trasposizione della direttiva in parola”.

Il caso concreto riguardava una pretesa risarcitoria fatta valere da una società danese contro lo Stato tedesco per il fatto che Esso non aveva attuato correttamente una direttiva comunitaria prevedente l’obbligo di consentire l’importazione di carni suine aventi certe caratteristiche, di modo che quella società, essendo stata costretta ad importare carni di caratteristiche diverse, aveva subito perdite da minori ricavi.

La Corte di Giustizia ha motivato il principio sopra riportato in questi termini: “(47) Con la quarta questione il giudice del rinvio chiede se il termine dì prescrizione di un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere, a prescindere dal diritto nazionale applicabile, unicamente a partire dalla completa trasposizione di tale direttiva, o se il termine in parola cominci a decorrere, conformemente al diritto nazionale, dalla data in cui i primi effetti lesivi di detta scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri. Qualora la completa trasposizione incida sul decorso del termine di prescrizione di cui trattasi, il giudice a quo chiede se ciò valga in generale o soltanto quando la direttiva attribuisca un diritto ai soggetti dell’ordinamento. (48) In proposito giova ricordare che, come menzionato ai punti 31 e 32 della presente sentenza, in mancanza di una normativa comunitaria, spetta agli Stati membri disciplinare le modalità procedurali dei ricorsi diretti a garantire la piena tutela dei diritti conferiti ai soggetti dal diritto comunitario, norme sulla prescrizione incluse, purchè tali modalità rispettino i principi di equivalenza e di effettività. Occorre inoltre ricordare che la fissazione di termini di ricorso ragionevoli, a pena di decadenza, rispetta siffatti principi e, in particolare, non si può ritenere che renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico comunitario. (49) Nemmeno la circostanza che il termine dì prescrizione previsto dal diritto nazionale inizi a decorrere dal momento in cui si sono verificati i primi effetti lesivi, e che siano prevedibili ulteriori effetti analoghi, è tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico comunitario. (50) La sentenza 13 luglio 2006, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, Manfredi e a. (Racc. pag.

1-6619), cui fa riferimento la Danske Slagterier, non è tale da inficiare detta conclusione. (51) Ai punti 78 e 79 della citata sentenza, la Corte ha considerato che non è da escludersi che un termine di prescrizione breve per la proposizione di un ricorso per risarcimento danni, decorrente dal giorno in cui un’intesa o una pratica concordata è stata posta in essere, possa rendere praticamente impossibile l’esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno causato da tale intesa o pratica vietata. In caso di infrazioni continuate o ripetute, non è quindi impossibile che il termine di prescrizione si estingua addirittura prima che sia cessata l’infrazione e, in tal caso, chiunque abbia subito danni dopo la scadenza del termine di prescrizione si troverebbe nell’impossibilità di presentare un ricorso. (52) Orbene, ciò non si verifica nella fattispecie della causa principale. Dalla decisione di rinvio, infatti, risulta che il termine di prescrizione di cui trattasi nella presente controversia non può cominciare a decorrere prima che il soggetto leso abbia avuto conoscenza del danno e dell’identità della persona tenuta al risarcimento. In siffatte circostanze è quindi impossibile che un soggetto che ha subito un danno si trovi in una situazione nella quale il termine di prescrizione inizi a decorrere, e addirittura si estingua, senza che detto soggetto nemmeno sappia di essere stato leso, caso che invece si sarebbe potuto verificare nel contesto della controversia all’origine della citata sentenza Manfredi e a., ove il termine di prescrizione cominciava a decorrere dal momento in cui veniva posta in essere l’intesa o la pratica concordata, e di cui taluni interessati potevano avere conoscenza unicamente in un momento decisamente successivo. (53) Quanto alla possibilità di stabilire il momento iniziale del termine di prescrizione prima della completa trasposizione della direttiva in parola, è vero che, al punto 23 della sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott (Racc. pag. 1- 4269), la Corte ha dichiarato che, al momento della trasposizione corretta della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardività di un’azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un soggetto alfine di tutelare i diritti che ad esso riconoscono le disposizioni della direttiva, e che un termine di ricorso di diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento. (54) Tuttavia, come confermato dalla sentenza 6 dicembre 1994, causa C-410/92, Johnson (Racc. pag. 1-5483, punto 26), dalla sentenza 27 ottobre 1993, causa C-338/91, Steenhorst-Neerings (Racc. pag. 1-5475), deriva che la soluzione elaborata nella menzionata sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze proprie di detta causa, dove la decadenza dai termini arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù di una direttiva comunitaria (v., altresì, sentenze 17 luglio 1997, causa C-90/94, Haahr Petroleum, Racc. pag. 1-4085, punto 52, e cause riunite C- 114/95 e C-115/95, Texaco e Olieselskabet Danmark, Racc. pag. 1-4263, punto 48, nonchè 15 settembre 1998, cause riunite da C-279/96 a C- 281/96, Ansaldo Energia e a., Racc. pag. 1-5025, punto 20). (55) Orbene, nella causa principale, nè dal fascicolo nè dai dibattimenti nel corso della fase orale risulta che l’esistenza del termine controverso abbia condotto, come nella causa all’origine della citata sentenza Emmott, a privare totalmente i soggetti lesi della possibilità di far valere i loro diritti dinanzi ai giudici nazionali. (56) La quarta questione va pertanto risolta dichiarando che il diritto comunitario non osta a che il termine di prescrizione di un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere dalla data in cui i primi effetti lesivi di detta scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri, anche qualora tale data sia antecedente alla corretta trasposizione della direttiva in parola”.

p. 4.3. Ora, l’analisi della giurisprudenza comunitaria succeduta alla sentenza Emmott e particolarmente dell’ultima decisione di cui si è riferito, la quale, a differenza dì quelle precedenti, concerne direttamente il caso della pretesa di risarcimento danni da inadempimento di una direttiva (e non pretese di rimborso per pagamenti che non sarebbero stati dovuti se la direttiva fosse stata attuata), suggerisce la seguente considerazione: se anteriormente alla sentenza da ultimo ricordata, poteva nutrirsi qualche dubbio sulla applicabilità del ridimensionamento a quel caso (l’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica da attribuire diritti, ma non self-executing), dopo detta sentenza ogni dubbio è venuto meno.

Queste le ragioni.

Prima della sentenza Danske Slagterier la circostanza che la giurisprudenza espressamente ridimensionatrice dell’ambito del principio stabilito dalla sentenza Emmott si fosse formata in riferimento a casi nei quali il soggetto dell’ordinamento interno non aveva esercitato almeno formalmente un’azione risarcitoria (verosimilmente perchè aveva agito prima della Francovich, o perchè la portata di essa non era ancora stata percepita), bensì, o un’azione tendente a rivendicare il riconoscimento dei diritti previsti dalla direttiva o una pretesa alla restituzione di quanto pagato a titolo di imposta o tassa non dovuta secondo la direttiva non adempiuta, poteva effettivamente suggerire (in disparte la valutazione del se le azioni esercitate sul piano dell’ordinamento interno, al di là del petitum, fossero nella sostanza dirette ad ottenere un risarcimento, il che, se poteva apparire eventualmente ipotizzabile nel secondo caso, posto che si trattava di direttive impositive di un divieto di tassazione o di imposta e l’avere pagato una tassa o un’imposta che non si sarebbe dovuto pagare integrava in ultima analisi un danno, lo era forse meno, ma lo era pur sempre anche nel caso dell’azione diretta a postulare il diritto riconosciuto dalla direttiva, posto che tale riconoscimento aveva valore sostanzialmente risarcitorio) il dubbio che un’azione esercitata sul piano del diritto interno con espressa invocazione del risarcimento del danno derivante dall’inadempimento di una direttiva, specie se attributiva di un diritto di contenuto positivo (e non negativo, come nel caso del divieto di tassazione o imposizione), fosse rimasta ancora sotto la copertura integrale del principio della Emmott. O almeno, se non quel dubbio, la mancanza di un’espressa risposta sul punto della Corte di Giustizia.

L’esistenza del dubbio o quantomeno della mancanza di un precedente specifico poteva giustificare la prospettazione di una questione di rinvio pregiudiziale alla Corte comunitaria, per ottenere una decisione sull’estensione o meno al caso dell’azione risarcitoria dell’oggettivo ridimensionamento del principio della sentenza Emmott.

Tanto più in considerazione del fatto che esso era stata affermato in riferimento all’invocazione diretta di un diritto basato sulla direttiva ed in un momento nel quale non era stata pronunciata ancora la sentenza sul caso Francovich.

p. 4.4. Una volta sopravvenuta la sentenza sul caso Danske Slogterier, il dubbio è, però, venuto meno e, pertanto, sussiste una situazione di un acte claire che esclude la possibilità e, in questa sede di ultima istanza, la necessità di un rinvio pregiudiziale.

Questa Corte è consapevole che, peraltro, un rinvio pregiudiziale risulta effettuato da un giudice di merito italiano (Corte d’Appello di Firenze 18 novembre 2009, C-452-09, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, C 24/32, 30.1,2010), il quale ha posto alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: “se sia compatibile con l’ordinamento comunitario che lo Stato italiano possa legittimamente eccepire la prescrizione quinquennale o decennale ordinaria di un diritto nascente dalla direttiva CE n. 76/1982 per il periodo antecedente la prima legge attuativa italiana, senza con ciò impedire definitivamente l’esercizio del suddetto diritto avente natura retributiva/alimentare, o in subordine l’esercizio di una azione risarcitoria/indennitaria. Se viceversa, sia compatibile con l’ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia preclusa perchè definitivamente ostativa all’esercizio del suddetto diritto. Oppure se sia compatibile con l’ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia preclusa fino all’accertamento della violazione comunitaria da parte della CdG (nella specie fino al 1999). Oppure se sia compatibile con l’ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia comunque preclusa fino alla corretta e compiuta trasposizione della direttiva che ha riconosciuto il diritto, nella legislazione nazionale (nella specie mai intervenuto) come previsto dalla sentenza Emmott”.

L’ora citata ordinanza di rinvio pregiudiziale, nel motivare l’elevazione della questione pregiudiziale richiama parte della giurisprudenza della Corte di Giustizia anteriore alla sentenza Danske Slagterier, ma non considera quest’ultima (forse perchè essa, di qualche mese anteriore, era ignota al giudice fiorentino). La motivazione del rinvio, basata sul fatto che non sarebbe chiaro il significato della ratio del ridimensionamento della sentenza Emmott espressa dal concetto di mancanza della privazione totale della possibilità di far valere il diritto basato sulla direttiva comunitaria, che vi sarebbe stata nel caso deciso da quella sentenza, non è condivisibile dopo la sentenza Danske Slagterier.

Infatti, questo concetto, che nelle prime pronunce successive alla Emmott era stato ancorato al fatto che davanti ai giudici nazionali veniva in rilievo non tanto una questione di decadenza o prescrizione dal diritto di far valere l’inadempimento ed ottenere la tutela dell’interesse da esso sacrificato nella sua totalità, bensì relativa alla limitazione del periodo per il quale tale interesse era riconosciuto, trova spiegazione nella sentenza Danske Slagterier, là dove essa, al punto (33), dopo avere ribadito che compete agli ordinamenti interni disciplinare l’azione risarcitoria diretta a far valere l’inadempimento di una direttiva attributiva di un diritto, nel rispetto dei principi di equivalenza (che impone di fissare termini che non siano meno favorevoli di quelli previsti per azioni analoghe) e di effettività (che impone comunque che il termine applicato non sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento), osserva, richiamando la sentenza Marks & Specner sul punto che il termine di prescrizione dev’essere stabilito previamente, per adempiere alla sua funzione di garantire la certezza del diritto, che: “una situazione caratterizzata da un’incertezza normativa significativa può costituire una violazione del principio di effettività, poichè il risarcimento dei danni causati alle persone da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un Stato membro potrebbe essere reso eccessivamente gravoso nella pratica, se detti soggetti non potessero determinare il termine di prescrizione applicabile con un ragionevole grado di certezza. (34). Spetta al giudice nazionale, tenuto conto del complesso degli elementi che caratterizzano la situazione di fatto e di diritto all’epoca dei fatti di cui alla causa principale, verificare, alla luce del principio d’effettività, se l’applicazione per analogia …di un certo termine: nel caso di specie si trattava del termine ex art. 852, n. 1, del BGB tedesco alle domande di risarcimento dei danni provocati a seguito della violazione del diritto comunitario da parte dello Stato membro interessato fosse sufficientemente prevedibile dai soggetti”. In sostanza, il mandato al giudice nazionale di accertare se l’applicazione di un certo temine di prescrizione sia compatibile con il principio di effettività, valutato anche con il filtro della prevedibilità da parte dei soggetti, risulta idoneo a spiegare il senso di quel concetto.

Deve, poi, rilevarsi che il terzo quesito prospettato dalla Corte fiorentina ha trovato già una definitiva riposta negativa proprio nella stessa sentenza Danske Slagterier, che ha espressamente affermato che non si può subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una previa constatazione, da parte della Corte di Giustizia, di un inadempimento del diritto comunitario imputabile allo Stato (punto (38), dove si richiama l’affermazione già fatta dalla già citata sentenza Brasserie du pecheur e Factortame e da quella 8 ottobre 1996, cause riunite C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkqfer).

4.5. Questa Corte, dunque, sulla base delle complessive considerazioni svolte (che si è ritenuto di articolare diffusamente quanto all’esame della giurisprudenza comunitaria proprio per escludere che vi sia situazione di obbligo di rinvio) e di quanto appena evidenziato reputa che non ricorra una situazione di incertezza sull’interpretazione del diritto comunitario, tale da imporre un rinvio pregiudiziale, perchè la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di azione risarcito ria di diritto interno, da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire ai singoli diritti, ma non self-executing, evidenzia conclusioni certe nel senso:

a) la regolamentazione delle modalità, anche quoad termini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai singoli compete agli ordinamenti interni;

b) in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri, che dev’essere ispirata ai principi di equivalenza ed effettività, il giudice nazionale può ricercare analogicamente la regolamentazione detrazione, ivi compresi eventuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall’ordinamento, purchè esse rispettino i principi suddetti e, particolarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l’azione;

c) l’applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal riferimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina interna regolamentante altra azione, è possibile comunque solo se essa può considerarsi sufficientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessariamente a tale apprezzamento;

d) l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordinamento nazionale, se il danno, anche solo in parte (è questo il significato del riferimento ai “primi effetti lesivi” contenuto nella sentenza nella sentenza Danske Slagterier) per questo soggetto si è verificato anteriormente.

p. 5. Questi principi debbono ora essere applicati all’interno del nostro ordinamento nazionale con riguardo alla vicenda di cui è causa.

p. 5.1. Deve subito rilevarsi che essi legittimano pienamente l’operazione di qualificazione dell’azione di risarcimento fatta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9147 del 2009, posto che la Corte di Giustizia demanda all’ordinamento interno e, quindi, al legislatore nazionale di disciplinare detta azione e, subordinatamente, in caso di omessa legislazione, al giudice nazionale, di individuarla analogicamente. Le Sezioni Unite, sull’implicita contemplazione che l’ordinamento italiano prevede che obbligazioni possano sorgere genericamente da fatti idonei a produrle in conformità all’ordinamento giuridico, hanno considerato la giurisprudenza comunitaria come fatto idoneo a costituire tale fonte.

L’applicazione del termine di prescrizione decennale, della quale sopra si è data giustificazione, ove sia apprezzata sotto il profilo della prevedibilità da parte dei soggetti interessati, appare prevedibile, tenuto conto che il termine di prescrizione decennale (di cui all’art. 2946 c.c.) è quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività.

Sarebbe, d’altro canto, consentito dall’ordinamento comunitario che tale termine decorresse prima della corretta trasposizione nell’ordinamento interno delle note direttive, qualora un danno anche solo iniziale si fosse verificato prima di tale trasposizione.

Occorre valutare se – in assenza di una specifica regolamentazione dell’azione risarcitoria da parte dello Stato Italiano in relazione al caso di specie – i principi generali propri dell’ordinamento italiano in tema di prescrizione consentano questo effetto, oppure non lo consentano, oppure lo consentano a partire da un certo momento.

p. 5.2. Il dato di partenza al riguardo è che la corretta trasposizione di quelle direttive, cioè la loro integrale applicazione, non si è mai verificata nell’ordinamento italiano.

Essa, com’è noto, doveva avvenire entro il 31 dicembre 1982 (art. 16 della direttiva 82/76/CEE).

Lo Stato Italiano non rispettò tale termine, tanto che venne dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia con sentenza del 7 luglio 1987, C-49-86.

La situazione di inadempienza verificatasi al 31 dicembre 1982 non fece cessare l’obbligo comunitario dello Stato Italiano di adempiere comunque le direttive sia pure in ritardo. Tale obbligo avrebbe potuto essere adempiuto integralmente soltanto se lo Stato Italiano, nell’introdurre una disciplina attuativa della direttiva e conforme ad essa, avesse disposto non solo per l’avvenire, cioè in relazione alle situazioni dei singoli riconducibili ad essa dopo la sua entrata in vigore, ma anche prevedendo la retroattività di detta disciplina.

Per un adempimento pieno sarebbe occorso che lo Stato Italiano avesse dettato disposizioni intese ad attribuire i diritti previsti dalle direttive a coloro che, se le direttive fossero state adempiute entro il 31 dicembre 1982, si sarebbero trovati nelle condizioni per poterli acquisire e, quindi, ai medici specializzandi che avevano seguito i corsi di specializzazione a partire dal 1 gennaio 1983 e lo avevano fatto con modalità conformi a quanto prevedevano le direttive.

La previsione da parte della giurisprudenza comunitaria, a partire dalla sentenza Francovich, che l’inadempimento di una direttiva attributiva di diritti ai singoli, ma non self-executing, dia luogo ad un obbligo risarcitorio, infatti, non toglie alla Stato membro la possibilità di adempiere tardivamente la direttiva provvedendo cioè non solo per il futuro, ma anche riguardo alle situazioni dei singoli successive alla scadenza del termine, sì da soddisfarle. Sicchè l’obbligo risarcitorio, dal punto di vista dello Stato membro si pone sostanzialmente come alternativo e ciò non solo sul piano dell’ordinamento comunitario, ma anche sul piano dell’ordinamento interno, fermo restando che la pretesa azionabile dal singolo in questo ambito è solo quella risarcitoria.

Il che, naturalmente, lo si osserva in generale, non significa che, in presenza di una situazione in cui sussista un dubbio sul se la direttiva sia stata recepita completamente, sia preclusa al giudice nazionale la possibilità di valutare, svolgendo la normale attività esegetica, se, in ragione del vincolo di conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario (ed anzi della necessità sul piano costituzionale – ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 1 – che la stessa attività esegetica si svolga tendenzialmente nel senso di dare espansione alle norme interne in modo che quel vincolo risulti rispettato e sia assicurato l’integrale recepimento), sia possibile estendere l’ambito della legge nazionale ai diritti o ai soggetti riguardo ai quali sussista il dubbio ch’essa li abbia considerati.

Per altro verso e ritornando alla vicenda di cui si discorre, conforme alla sentenza Francovich, l’inadempimento determinò una situazione per cui de die in die, a favore di ogni soggetto che, nel caso di adempimento della direttiva al 31 dicembre 1982, si fosse venuto a trovare successivamente nella condizione di fatto per vedersi attribuire un diritto previsto dalla direttiva, nasceva l’obbligo dello Stato di risarcimento del danno a cagione della sua inadempienza.

Lo Stato Italiano, dunque, dopo il 31 dicembre 1982 si venne a trovare nella duplice condizione di obbligato sul piano comunitario ad un adempimento tardivo delle direttive e, mano a mano che per i medici maturavano le condizioni che in presenza di un’attuazione delle direttive avrebbero dato luogo a loro favore ai diritti previsti dalla direttiva e segnatamente quello all’adeguata remunerazione e quello a vedersi riconoscere l’idoneità del titolo di specializzazione negli altri paesi comunitari, di obbligato – in conseguenza al risarcimento dei danni verso tali soggetti per la mancata consecuzione da parte loro di tali benefici. Tale obbligo, peraltro, sarebbe potuto venir meno se lo Stato avesse adempiuto le direttiva con la previsione degli effetti retroattivi idonei ad attribuire a detti soggetti quei benefici, nonchè a coprire eventuali danni da ritardo. In tal caso, infatti, la fonte dell’obbligo risarcitorio, cioè il comportamento di inadempienza delle direttive, sarebbe venuta meno. Peraltro, se l’adempimento tardivo non avesse coperto i danni da ritardo o avesse coperto i danni solo in parte, l’obbligo risarcitorio si sarebbe astrattamente concentrato solo sul residuo. In disparte, però, ogni valutazione sul se l’ordinamento comunitario e, quindi, di riflesso quello costituzionale, in virtù del vincolo di conformazione, possano tollerare una sorta di risarcimento tardivo solo parziale (come quello che si è avuto per certi soggetti ai sensi della L. n. 370 del 1999, art. 11): questione questa che non è da discutere in questa sede.

5.3. E’ da rilevare che la situazione di obbligo dello Stato Italiano di adempiere le direttive dopo la scadenza del termine del 31 dicembre 1982 perdurò a livello dell’ordinamento comunitario e, quindi, di riflesso con riguardo all’ordinamento interno fino al 20 ottobre 2007.

Queste le ragioni.

Le direttive 75/362/CEE e 75/363/CEE, nonchè quella 82/76/CEE che le modificò vennero abrogate dall’art. 44 della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, n. 93/16/CEE, la quale, però, oltre a confermare la loro disciplina (per come risultante dalla direttiva di modifica) a regime per i medici specializzandi a tempo pieno e parziale (all. 1, artt. 1 e 2, in relazione agli artt. 24 e 25), stabilì nello stesso art. 44 che, nonostante l’abrogazione, restassero “salvi gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento”, come da indicazione nell’allegato 3, parte B, nella quale, in riferimento alla direttiva 82/6/CE trovasi richiamato il termine del 31 dicembre 1982. Questa previsione comportava che gli Stati totalmente o parzialmente inadempienti alle direttive de quibus e, quindi, lo Stato Italiano, dovessero comunque considerarsi obbligati a livello comunitario all’adempimento tardivo.

La più recente direttiva 2005/36/CE a sua volta, oltre a dettare negli artt. 25-26 una nuova disciplina dei medici specializzati, nell’art. 62 ha previsto, però, l’abrogazione a partire dal 20 ottobre 2007 (cioè dalla data della sua entrata in vigore) della direttiva 93/16/CEE. Ne consegue che, per effetto dell’abrogazione anche dell’art. 44 sopra citato, a quella data è cessato l’obbligo dello Stato Italiano di adempiere, sia pure tardivamente, le direttive 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE e ciò anche per gli effetti della sentenza che ne aveva accertato l’inadempimento.

Peraltro, non essendo immaginabile che l’ultima direttiva abbia inteso sacrificare i diritti risarcitoti dei singoli ove già insorti e ancora esistenti, non è possibile ritenere che l’abrogazione li abbia fatto venire meno. Al riguardo, sarebbe stata necessaria una previsione espressa in tal senso oppure la previsione della sua retroattività, cioè della sua estensione ai diritti risarcitori già sorti. Ciò che è venuto meno, dunque, è solo l’obbligo comunitario dello Stato membro e, quindi, di quello Italiano, di adempiere la direttiva.

p. 6. Ciò premesso, si può passare ad esaminare la questione che a questo punto diventa decisiva ai fini dello scrutinio di entrambi i motivi, cioè quella della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria sorta a carico dei soggetti che, a far tempo dal 31 dicembre 1982 si sono venuti a trovare nelle condizioni che, in presenza di un tempestivo adempimento a quella data delle dette direttive (e, per quello che qui interessa, della direttiva 82/76/CEE là dove si riferiva ai medici specializzandi che avessero frequentato corsi di specializzazione in condizioni ragguagliabili a quelle del c.d. tempo pieno).

p. 6.1. E’ da rilevare che questa questione non risulta pregiudicata da Cass. sez. un. n. 9147 del 2009, perchè essa – come emerge dal punto 4.10. della sua motivazione – dopo aver fatto un generico riferimento al “momento in cui il pregiudizio si è verificato”, come momento in cui la pretesa risarcitoria è “insorta”, non si è preoccupata in alcun modo di definire tale momento, perchè non era investita della questione e, con riferimento al caso di specie, ha rilevato che la prescrizione decennale non era decorsa, espressamente avvertendo che la sentenza di merito aveva affermato che la prescrizione decorreva dal conseguimento dell’attestato di specializzazione e che tale affermazione non aveva formato oggetto di impugnazione: le Sezioni Unite, dunque, si sono trovate a dover applicare il termine di prescrizione decennale in una situazione di esistenza di un giudicato interno sul dies a quo della sua decorrenza.

Nemmeno Cass. sez. un. n. 4547 del 2010 ha avuto modo di occuparsi del problema del dies a quo, perchè – come emerge dal secondo motivo – la sentenza di merito impugnata aveva ritenuto applicabile la prescrizione decennale facendola decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991 e l’impugnazione postulava solo l’applicabilità della prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., n. 4, sicchè le Sezioni Unite si sono limitate a ribadire l’applicabilità della prescrizione decennale riecheggiando la sentenza n. 9147 del 2009.

Dopo Cass. sez. un. n. 9147 del 2009 due decisioni di sezioni semplici si sono, invece, occupate del problema del dies a quo. Ma solo una lo ha fatto sulla base della qualificazione dell’azione risarcitoria nei termini indicati dalle Sezioni Unite.

Si tratta di Cass. n. 5842 del 2010 che – di fronte ad una censura mossa alla sentenza di merito sul punto in cui aveva identificato l’inizio della decorrenza della prescrizione nella data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, di attuazione della direttiva comunitaria n. 82/76, censura prospettata dai ricorrenti sotto il profilo che la direttiva non era stata ancora attuata, l’ha espressamente ritenuta assorbita per effetto della cassazione della sentenza in punto di natura dell’azione indennitaria esperibile (che era stata qualificata alla stregua dell’art. 2043 dal giudice di merito e la decisione ha qualificato, invece, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite), ma ha anche osservato che “la data di attuazione della direttiva comunitaria nell’ordinamento interno è irrilevante, giacchè il fondamento della risarcibilità del danno postula solo che quest’ultimo si sia verificato dopo la scadenza del termine ultimo prescritto dalla norma comunitaria per il recepimento della direttiva nell’ordinamento interno; data che era, per le direttive nn. 362 e 362/195 del Consiglio il 20 dicembre 1976, e per la direttiva 82/76/CEE il 31 dicembre 1982, secondo quanto ribadito nell’allegato 3, parte B, della direttiva 5 aprile 1993 n. 93/16/CEE. Nella concreta fattispecie di causa, il danno di cui si discute, maturato con il conseguimento di un diploma di specializzazione non conforme alle prescrizioni comunitarie, era posteriore a quelle date, sicchè è con esclusivo riferimento alla data del danno che deve essere riconsiderata la questione del dies a quo di decorrenza della prescrizione”.

In tal modo, si è identificato il dies a quo nella data del conseguimento del diploma di specializzazione successivamente alle date di entrata in vigore delle direttive (in realtà il riferimento avrebbe dovuto farsi solo alla data del 31 dicembre 1982, posto che l’art. 16 della direttiva 82/76 fissò a quella data il termine per l’adempimento delle previsioni da essa introdotte che modificarono o sostituirono alcune delle altre due direttive).

L’altra decisione che si è occupata della questione è Cass. n. 12814 del 2009, che, però, ignora la qualificazione dell’azione fatta dalle Sezioni Unite e, pur ammettendo (senza, però, alcuna rassegna della giurisprudenza della corte di Giustizia) che il principio della sentenza Emmott sarebbe rimasto vigente, nell’applicare la prescrizione quinquennale all’azione qualificata come da illecito extracontrattuale, fa decorrere il termine di prescrizione, in asserita applicazione di quel principio, dall’entrata in vigore del citato D.Lgs., che considera espressamente, in modo assertorio e senza alcuna dimostrazione, come attuativo dell’esatta trasposizione del diritto comunitario.

Considerazione che il Collegio ritiene assolutamente non condivisibile, giusta i rilievi in precedenza svolti.

P. 6.2. Ritiene necessario il Collegio, a questo punto, di dover prendere posizione sulla tesi di Cass. n. 5842 del 2010.

P. 6.2.1. Essa non può essere condivisa, in primo luogo perchè non considera la particolare struttura dell’obbligo risarcitorio nascente a carico dello Stato per l’inadempimento di una direttiva che se attuata avrebbe comportato l’attribuzione di un diritto.

Questo obbligo si riferisce al danno che è originato alla situazione di inadempimento della direttiva.

Si tratta, tuttavia, di un obbligo i cui fatti costitutivi non si evidenziano necessariamente immediatamente per il fatto che si è verificata una situazione di inadempimento della direttiva, cioè per il fatto che lo Stato nazionale doveva adeguarsi alla direttiva entro una certa data e non lo ha fatto.

Può accadere, infatti, che immediatamente dopo tale scadenza si verifichi una situazione fattuale in presenza della quale un soggetto di un ordinamento interno, se lo Stato nazionale avesse adempiuto la direttiva, avrebbe acquisito il diritto previsto dalla direttiva (o come acquisizione di una situazione avente come contenuto una pretesa a conseguire un vantaggio o come pretesa a non sopportare uno svantaggio in presenza di certe condotte), ma può anche accadere che detta situazione fattuale si verifichi soltanto ben dopo la scadenza del termine di adempimento.

Può accadere, dunque, che, verificatasi l’inadempienza alla direttiva sorga subito dopo l’obbligo risarcitorio dello Stato nazionale, perchè la situazione fattuale de qua verso uno o più soggetti si verifica immediatamente, ma può benissimo accadere che, invece, dopo l’inadempienza quella situazione fattuale si verifichi solo a distanza di tempo (perdurando, naturalmente, l’inadempimento).

Questa considerazione evidenzia che fra la verificazione dell’inadempimento dello Stato all’obbligo comunitario di adempiere una direttiva sufficientemente specifica nel riconoscere diritti ai singoli e l’insorgenza dell’obbligo dello Stato membro di risarcire il danno derivante dalla situazione di inadempienza non v’è affatto necessaria coincidenza, ma anzi di norma una discrasia.

Nel caso degli specializzandi, poichè le situazioni fattuali che, in presenza di adempimento delle note direttive avrebbero potuto far loro acquisire il diritto all’adeguata remunerazione ed alla idoneità del loro diploma (secondo che si trattasse di situazioni equivalenti al tempo pieno o al tempo parziale: le considerazioni che si vengono svolgendo valgono anche per questa situazione) si possono essere verificate solo successivamente al conseguimento del diploma, purchè a seguito di uno svolgimento sostanzialmente conforme a quanto previsto dalla direttive, è palese che l’operare del comportamento di inadempienza dello Stato italiano alle direttive e segnatamente l’aver lasciato decorrere la scadenza del 31 dicembre 1982 ha potuto assumere rilevanza quale fatto costitutivo in astratto dell’obbligo risarcitorio solo quando ciascuno dei soggetti interessati ha conseguito il diploma dopo quella data.

p. 6.2.2. Si è detto in astratto, perchè in concreto l’obbligo risarcitorio de quo ha potuto nascere, in realtà, come situazione giuridica soggettiva sul piano dell’ordinamento italiano soltanto quando il comportamento di inadempienza dello Stato Italiano, quale comportamento di inadempienza ad una direttiva, ha potuto svolgere il carattere di fatto normativo, cioè di fonte di produzione in detto ordinamento dell’obbligo risarcitorio verso i singoli.

Tale carattere non si può dire sussistente fin dal 1 gennaio 1983.

Esso si è evidenziato, in effetti, solo a seguito della già citata sentenza della Corte di Giustizia sul c.d. caso Francovich, la quale per la prima volta, ebbe a configurare l’inadempimento dello Stato membro ad una direttiva sufficientemente specifica nel riconoscere ai singoli un diritto, sia pure per il tramite dell’attività di adeguamento dello Stato membro, sostanzialmente operando come fonte di produzione nell’ordinamento interno dell’obbligo risarcitorio, quale situazione sorgente dall’inadempimento della direttiva attributiva di diritti, ma non self-executing, in presenza di situazioni concrete dei singoli che avrebbero loro consentito di acquisire i diritti nascenti dalla direttiva.

S’è già detto che il dictum della sentenza (poi ribadito qualche anno dopo dalla sentenza Brasserie du Pecheur), attesa l’efficacia vincolante nell’ordinamento interno della decisioni della Corte di Giustizia in guisa sostanziale di una vera e propria fonte del diritto oggettivo, ha avuto l’efficacia di introdurre nell’ordinamento italiano (come in buona sostanza hanno affermato le Sezioni Unite) una particolare fonte di obbligazioni risarcitorie, il cui fatto costitutivo è l’inadempienza ad una direttiva di quel contenuto.

Ne deriva che solo dalla pubblicazione della sentenza Francovich le situazioni fattuali degli specializzandi che avevano conseguito il diploma dopo il 31 dicembre 1982 a seguito di un corso che, in base alle note direttive avrebbe giustificato l’attribuzione dei diritti da esse previste, sono state giuridificate nel nostro ordinamento come idonee a giustificare l’obbligo risarcitorio.

L’assunto, naturalmente, vale per qualsiasi ipotesi di inadempienza a direttive di contenuto sufficientemente specifico nell’attribuzione di diritti da giustificare l’obbligo risarcitorio, verificatasi anteriormente alla sentenza Francovich.

Da tanto discende che, se l’obbligo risarcitorio verso gli specializzandi è sorto solo dopo la sentenza Francovich e, quindi, non era configurabile nell’ambito dell’ordinamento italiano anteriormente, la prescrizione del relativo diritto non può in alcun modo essere decorsa prima di quella sentenza, dato che non può iniziare il corso di una prescrizione di un diritto non ancora venuto ad esistenza (può notarsi che non a caso, prima della Francovich gli adempimenti inesatti di direttive venivano censurati dai singoli postulandosi, come sè veduto esaminando la giurisprudenza successiva al caso Emmott, postulandosi l’applicazione delle direttive).

Conseguentemente, l’ipotesi che il corso della prescrizione del diritto risarcitorio di cui è processo sia iniziata dalla data, anteriore alla citata sentenza, in cui i singoli perfezionandi avevano conseguito il diploma non è in alcun modo sostenibile. E per tale assorbente ragione (in disparte quanto si dirà di seguito) si dissente da Cass. n. 5842 del 2010.

Potrebbe addirittura sostenersi che, essendosi la giurisprudenza comunitaria definitivamente assestata, dopo l’irruzione della sentenza Francovich nei suoi esatti termini soltanto con la sentenza Brasserie du Pecheur, come non manca di rilevare la dottrina quando deve individuare i caratteri dell’obbligo risarcitorio, addirittura solo dalla data di quella sentenza l’obbligo sia insorto nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che a maggior ragione l’opinione da cui si dissente appare non condivisibile. Il diritto degli specializzandi, infatti, si potrebbe dire sorto addirittura soltanto dall’ottobre del 1996.

Non è, del resto, del tutto infondato, ma è prospettiva che non è necessario approfondire in questa sede, dati i successivi svolgimento di questa motivazione, che il riferimento alla sentenza Brasserie du Pecheur potrebbe addirittura essere necessitato sul piano comunitario, giusta il rilievo sopra riportato, svolto nel punto (33) dalla sentenza sul caso Danske Slagterier, posto che la situazione di incertezza cui essa allude sul piano dell’ordinamento interno non può che essere riferita anche al grado di incertezza dei caratteri e delle regole poste dalla stessa giurisprudenza comunitaria, fino alla sua sistemazione precisa, sul piano dell’ordinamento interno, alla stregua del principio di effettività.

p. 6.3. Nessun rilievo, per le stesse ragioni, può essere riconosciuto all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991 (pubblicato nella G.U. del 16 agosto 1991, n. 191 e soggetto alla normale vacatio), che, com’è noto, pur dichiarando nella sua intestazione, di attuare la direttiva n. 82/76/CEE in concreto la attuò soltanto a decorrere dall’anno accademico 1991-1992 (art. 8 del D.Lgs.) e, quindi, de futuro, lasciando intatta la situazione di inadempienza dal 1 gennaio 1983 alla fine dell’anno accademico 1990- 1991: poichè la sentenza Francovich è successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. citato (31 agosto 1997, dato l’operare della normale vacatio dalla pubblicazione sulla G.U., avvenuta il 16 agosto precedente), quest’ultima non può avere fatto sorgere, quale atto evidenziatore di un soltanto parziale adempimento della direttiva, un diritto al risarcimento per l’inadempimento residuo.

6.4. Altra questione che a questo punto dev’essere esaminata è se una simile idoneità la vigenza del D.Lgs., possa averla acquisita a partire dal momento in cui sopravvenne la sentenza Francovich (o, secondo l’altra prospettiva adombrata dalla sentenza Brasserie du Pecheur).

Ritiene il Collegio che la situazione determinatasi all’atto di tale sopravvenienza in ragione della vigenza del D.Lgs. n. 257, pur essendo di insorgenza del diritto al risarcimento del danno a favore dei medici specializzati che avevano conseguito il diploma di specializzazione fra il 1 gennaio 1982 e la chiusura dell’anno accademico 1990-1991, cioè in pratica di quelli non considerati dal D.Lgs., non si possa in alcun modo considerare idonea ad aver provocato a loro carico, a partire dalla pubblicazione della sentenza Francovich (o dalla Brasserie du Pecheur), il decorso della prescrizione decennale.

In particolare, il diritto al risarcimento sorse dopo la sentenza Francovich (ma analogo ragionamento varrebbe se si facesse riferimento alla Brasserie du Pecheur), ma il suo termine di prescrizione non iniziò il suo decorso. E questa costituisce comunque ulteriore ragione di dissenso dalla filosofia esegetica seguita da Cass. n. 5842 del 2010.

Queste le ragioni.

p. 6.4.1. Deve certamente ritenersi che, una volta sopravvenuta quella sentenza (o nell’altra prospettiva la Brasserie du Pecheur.

ma, ripetesi, non rileva che si accolga l’una o l’altra), con i suoi effetti nell’ordinamento italiano nel senso precisato, tutte le situazioni fattuali relative ai medici specializzati comprese nell’indicato periodo, divennero giuridicamente qualificabili come individuatrici dell’obbligo di risarcimento danni alla stregua della sentenza stessa, per il fatto che esse, pur dovendo, secondo le note direttive, dare luogo ai diritti da esse riconosciute, non risultavano dall’ordinamento italiano così regolate per non essersi verificata l’attuazione delle direttive con riferimento ad esse. Si evidenziava, infatti, per i medici de quibus un danno rappresentato dalla perdita del beneficio che dal riconoscimento del diritto di cui alle direttive sarebbe stato conseguito e ciò sia per la mancata consecuzione dell’adeguata remunerazione prevista a favore dello specializzando, sia per la mancata attribuzione (ricorrendone le condizioni) di idoneità del diploma di specializzazione sul piano comunitario.

Tale situazione di danno, tuttavia, in tanto si configurava, in quanto perdurava il comportamento omissivo del legislatore interno di inattuazione delle direttive.

Il danno in questione, peraltro, non poteva dirsi prodotto dall’esistenza di tale comportamento in via definitiva, cioè una volta per tutte, sì che potesse considerarsi quale effetto ormai prodotto e ristorabile solo attraverso un’attività diversa dalla tenuta del comportamento, cioè dall’adempimento tardivo (e satisfattivo) della direttiva. Si trattava, invece, di un danno che, correlandosi ad un comportamento omissivo del legislatore italiano avrebbe potuto essere eliminato attraverso la spontanea tenuta da parte dello Stato del comportamento omesso, cioè l’emanazione di una normativa interna che attribuisse il diritto riconosciuto dalla direttiva. Emanazione cui del resto il legislatore italiano continuava ad essere tenuto.

E’ vero che l’intervento legislativo si sarebbe potuto estrinsecare rimuovendo soltanto la situazione dannosa quanto al riconoscimento del diritto, cioè nella specie attribuendo una remunerazione e l’idoneità al diploma, e non anche con il riconoscimento dell’eventuale risarcimento del danno da ritardo nella consecuzione del diritto (ad esempio, a parte gli interessi e l’eventuale maggior danno sulla remunerazione, la perdita di occasioni di lavoro per la inidoneità del diploma). Nulla esclude, però, che l’intervento legislativo si sarebbe potuto estrinsecare in modo tale da prevedere anche l’eventuale ristoro del danno da ritardo. La possibilità di un intervento non satisfattivo del danno da ritardo, proprio perchè solo potenziale lasciava intatta la struttura della fattispecie nel senso che il danno nella sua interezza continuasse ad essere prodotto de die in die dalla permanenza dell’inadempimento.

Poichè la posizione dei soggetti interessati, era, dunque, tale che non poteva trovare soddisfazione soltanto attraverso la pretesa risarcitoria, ma poteva essere soddisfatta attraverso il comportamento unilaterale dello Stato Italiano di adempimento satisfattivo della direttiva, comportamento che, del resto, lo Stato Italiano continuava a dover tenere secondo l’ordinamento comunitario, la situazione di danno si presentava non come effetto ormai determinato, ma come effetto determinato de die in die.

Il primo modo di soddisfazione, d’altro canto, era nell’esclusiva disponibilità dello Stato Italiano, trattandosi di attività legislativa ed i soggetti interessati non avevano alcun potere di provocarlo. Tale non era – in disparte proprio il carattere di denuncia e non di modo per ottenere tutela diretta – l’eventuale denuncia dell’inadempimento delle direttive (o meglio la persistenza dell’inadempimento) alla Corte di Giustizia, posto che quella Corte l’aveva già dichiarata fin dal 1987.

La Corte di Giustizia, del resto, sulla vicenda è intervenuta con le sentenze 25 febbraio 1999, Carbonari, C-I 31-97 (per gli specializzandi a tempo pieno) e 3 ottobre 2000, Gozza, C- 371-97 (per gli specializzandi a tempo parziale), ma per dichiarare che le note direttive riconoscevano in modo sufficientemente specifico diritti agli specializzandi a tempo pieno ed a tempo parziale e, quindi, per chiarire che la vicenda ricadeva sotto la giurisprudenza inaugurata dalla sentenza Francovich.

La permanenza della condotta dello Stato italiano di omissione dell’adempimento delle direttive era tale, in sostanza, da determinare continuativamente la permanenza dell’obbligo risarcitorio e, quindi, in definitiva del danno. L’obbligo risarcitorio e, quindi, il danno vedevano continuamente rinnovata la loro fonte de die in die da tale permanenza. La situazione di danno non era qualificabile come un effetto ormai prodotto, ma come un effetto continuativamente determinato dalla condotta statuale.

In definitiva, il danno sorto a far tempo dalla sentenza Francovich ed il relativo diritto risarcitorio sono configurabili come determinati dalla permanenza della condotta di inadempimento del diritto comunitario in non diversa guisa da come lo è, per semplificare, il danno da persistenza di una situazione dannosa relativa ad un immobile di proprietà di alcuno, la quale cagioni danno alla proprietà di altri: in questo caso il danno da permanenza di quella situazione sulla proprietà altrui da luogo (oltre che al diritto al risarcimento dei danni verificatisi sulla propria proprietà) al diritto all’eliminazione della situazione dannosa esistente sulla proprietà altrui e ciò come diritto ad una prestazione specifica, cioè all’attività necessaria per rimuovere la situazione dannosa originante il danno. Si tratta di un diritto risarcitorio in forma specifica che, in quanto la situazione dannosa permane per effetto della condotta lesiva dell’altro proprietario (che non procede all’eliminazione della situazione dannosa), non vede correre il corso della prescrizione fintanto che detta condotta permanga, giacchè il diritto si ricollega de die in die a tale permanente condotta (si veda, per riferimento, Cass. n. 5831 del 2007).

Poichè, di fronte all’inadempimento della direttiva da parte dello Stato ed alla permanenza della condotta di inadempimento, il diritto all’eliminazione della situazione dannosa dal punto di vista del singolo è soltanto quello al risarcimento del danno per equivalente originato dalla situazione di inadempienza e non quello all’adempimento specifico della direttiva (che, comunque, continua, a connotare la situazione statuale come di obbligo), in questo caso il diritto al risarcimento del danno per equivalente si ricollega de die in die alla permanenza della condotta di inadempimento. I soggetti interessati legittimamente si trovano in una situazione di attesa e conservano il loro diritto risarcitorio.

p. 6.4.2. Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito ha sostenuto, sia pure nella prospettiva di attribuire rilievo all’emanazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, sul presupposto erroneo che l’obbligo risarcitorio fosse configurabile prima della sentenza Francovich (ma il discorso potrebbe valere a far tempo da detta sentenza e dev’essere esaminato in questa prospettiva), che esso, quale atto costituente adempimento parziale delle direttive, avrebbe avuto l’effetto di far cessare la situazione di permanenza dell’inadempimento, come giustificativa dell’obbligo risarcitorio, sì da fare acquisire a tale obbligo ed al danno correlato la natura di effetti ormai indipendenti dalla condotta del legislatore. Il significato di questo assunto è che un qualsiasi adempimento parziale (e nella specie parziale sotto il profilo soggettivo, essendosi contemplati nel D.Lgs. solo i soggetti specializzatisi a partire dall’anno accademico 1991-1992), o trasposizione inesatta, di una direttiva sufficientemente idonea al riconoscimento di diritti ai singoli, pur con obbligo di attuazione da parte degli Stati membri, trasformi l’obbligo risarcitorio insorto (se la vicenda si colloca dopo la Francovich) a far tempo dal verificarsi delle situazioni fattuali in presenza delle quali la disciplina interna avrebbe dovuto attribuire il diritto previsto dalla direttiva, in una situazione definitiva, cioè ormai indipendente dal comportamento statuale di inadempimento, anche se non è chiaro se tale definitività si configuri anche sotto il profilo di una indifferenza ad atti successivi dello Stato membro di adempimento delle direttive. Si che il danno derivatone sia da considerare ormai come un effetto ormai indifferente e non retto dalla condotta del legislatore.

Questa ricostruzione, non lo si dice, parrebbe avere come necessaria implicazione che lo Stato membro non possa più adempiere la direttiva, ma solo risarcire il danno. Senonchè, non è dato comprendere su base comunitaria come ciò sia sostenibile e nel caso di specie l’obbligo di adeguarsi alle note direttive è stato confermato fino al 20 ottobre 2007. Non è ipotizzabile, dunque, che l’adempimento parziale di una direttiva possa mutare la situazione dello Stato membro rispetto alla parte inadempiuta. La condotta totalitaria di inadempimento viene, infatti, soltanto sostituita da una condotta minore, cioè parziaria.

In realtà, un adempimento parziale della direttiva è fenomeno che si presta a queste considerazioni.

p. 6.4.3. In primo luogo, appare necessaria una riflessione preliminare: l’adempimento alla direttiva da parte del legislatore nazionale suppone un atto normativo e, quindi, un atto che si concreta in una manifestazione astratta, posto che la normativa di adempimento si deve correlare alle previsioni della direttiva che riconosce il diritto e lo riconosce necessariamente riferendolo a categoria astratte di soggetti in presenza di determinate condizioni.

Fatta questa premessa, occorre distinguere due casi.

p. 6.4.4. Il primo è quello in cui la direttiva, dopo un periodo di inadempimento, viene attuata nei confronti di tutti i soggetti riguardo ai quali prevede diritti e, tuttavia, tali diritti vengono riconosciuti solo in parte sul piano oggettivo, cioè o – essendo previsti più diritti -ne vengono riconosciuti alcuni e non altri, o il diritto o i diritti vengono riconosciuti in modo insufficiente.

In questo caso la legge interna di adempimento è una legge che si presenta come atto legislativo che contempla tutta la platea dei soggetti che doveva considerare secondo la direttiva. Qualora, anteriormente alla legge interna, si fossero verificate situazioni di fatto che, se la direttiva fosse stata attuata, avrebbero dato origine ai diritti previsti da essa, e che, quindi, in ossequio alla giurisprudenza Francovich hanno dato luogo al sorgere dell’obbligo risarcitorio a favore di detti soggetti, la situazione di permanenza della condotta di inadempienza dello Stato interno che determinava de die in die l’obbligo risarcitorio, risulta oggettivamente mutata e sostituita da una situazione nella quale l’adempimento parziale sul piano oggettivo (o sotto il profilo del riconoscimento di taluni diritti o sotto il profilo del riconoscimento parziale del o dei diritti) si presta ad essere apprezzato da parte dei soggetti de quibus, che sono considerati dalla normativa interna e, quindi, sulla base di essa si vedono attribuiti solo taluni diritti o un diritto parziale, come situazione che determina il soddisfacimento parziale e proporzionale dell’interesse sotteso antecedentemente all’obbligo risarcitorio derivato dalla precedente situazione di inadempimento totale.

Non solo: la nuova situazione si presta ad essere interpretata sia come significativa della volontà dello Stato membro di non procedere più all’ulteriore adempimento della direttiva, sia in senso opposto, cioè come riserva di procedervi.

L’adempimento parziale, dal punto di vista dei soggetti interessati, ha, tuttavia, anche il significato di incidere pro parte sull’obbligo risarcitorio in precedenza sussistente. Mentre prima la situazione dei soggetti in discorso era di mera attesa e la protrazione dell’attesa determinava l’esistenza dell’obbligo risarcitorio in modo permanente, la nuova situazione è, invece, tale che quest’obbligo è in parte venuto meno per il carattere satisfattivo dell’intervento statale. Al comportamento statale di totale inadempimento si è sostituito un nuovo comportamento, di adempimento parziale, il quale ha anche inciso direttamente sulla situazione concreta dei soggetti in discorso soddisfacendola.

Ebbene, mentre la (precedente) condotta di totale inattuazione della direttiva, stante l’obbligo comunitario di adempiere anche dopo la scadenza del termine, è condotta che, in quanto meramente negativa, si prestava ad essere apprezzata solo come comportamento che poteva durare nel tempo o poteva cessare e che perciò valeva a sorreggere l’obbligo risarcitorio de die in die e che, dunque, finchè la scelta non fosse stata esercitata, lasciava il soggetto interessato in una situazione di attesa, si da giustificare che la prescrizione del relativo diritto secondo il diritto interno non corresse, per essere tale obbligo permanentemente determinato da detta condotta, viceversa la condotta di attuazione tardiva parziale della direttiva, determinando il parziale soddisfacimento in via specifica del diritto o della parte di diritto previsto dalla direttiva e, quindi, di riflesso ed in proporzione incidendo sulla pretesa risarcitoria (salvo che per l’eventuale danno da ritardo) dell’interessato, mutandone il contenuto quantitativo, è condotta che si presta ad essere diversamente apprezzata. E ciò, proprio perchè incide direttamente su detta pretesa, si concreta in un effetto positivo, che perchè tale si presta ad essere apprezzata come manifestazione potenzialmente significativa dell’intento di non adempiere il residuo. Un adempimento parziale, in sostanza, determina una situazione nella quale per il residuo è ragionevole pensare che lo Stato membro non procederà a successivi atti di adempimento.

Ne deriva che i soggetti interessati che vantavano l’obbligo risarcitorio in precedenza commisurato alla situazione di totale inadempienza della direttiva debbono ragionevolmente considerare che l’azionamento di tale obbligo residuo sia ormai una prospettiva di tutela necessaria. Ne consegue che nell’ordinamento italiano l’obbligo risarcitorio residuo non è più apprezzabile dai soggetti interessati come determinato de die in die da una condotta di inadempimento dello Stato, che potrebbe trasformarsi in adempimento, bensì è apprezzabile come un effetto tendenzialmente determinato ormai una volta per tutte, perchè è credibile che lo Stato non procederà all’adempimento residuo. Da tanto discende che rispetto al residuo obbligo risarcitorio sì deve ritenere che inizi a decorrere il termine di prescrizione ordinario decennale, che prima dell’adempimento parziale non era decorso, atteso che è ragionevole che i soggetti interessati possano fondatamente dubitare che la nuova situazione di inadempimento parziale sia una situazione che lo Stato potrebbe provvedere a risolvere con un adempimento pieno.

In sostanza, nell’ipotesi in questione la successione ad una situazione di inadempimento totale, che poneva gli interessati in una condizione di mera attesa, stante l’assoluta incertezza sul se lo Stato avrebbe adempiuto tardivamente oppure no, di una nuova situazione di parziale adempimento e, quindi, di inadempimento parziale, si presta ad essere intesa come comportamento ragionevolmente (anche se non necessariamente) significativo di una volontà di non provvedere per il residuo.

Per tale ragione si giustifica che il soggetto interessato debba agire a tutela del residuo obbligo risarcitorio e, quindi, che inizi la decorrenza del termine di prescrizione decennale. Tale residuo obbligo risarcitorio si presta, cioè, ad essere considerato come effetto ormai consolidato e, quindi, da considerarsi alla stregua degli effetti dannosi istantanei riguardo alla condotta dell’inadempiente e non più permanentemente determinati da detta condotta.

p. 6.4.5. L’altro caso da considerare è quello in cui la direttiva riconosca il diritto in modo sufficientemente specifico ad una certa platea di potenziali soggetti e – successivamente alla scadenza del termine per il suo adempimento ed in una situazione nella quale vari soggetti rientranti in quella platea si siano venuti a trovare nella condizione in cui, se la direttiva fosse stata già attuata, avrebbero acquisito il diritto riconosciuto dalla legislazione statale di attuazione, di modo che, quindi, sia sorto a loro favore l’obbligo risarcitorio dello Stato determinato dalla (permanente) condotta di inadempimento della direttiva – lo Stato adotti un atto legislativo di attuazione della direttiva parziale non più sotto il profilo oggettivo, bensì sotto il profilo soggettivo, nel senso che riconosca il diritto, naturalmente sempre per previsioni generali riferite al trovarsi essi in determinate condizioni comuni, soltanto a taluni di quei soggetti (o meglio a talune categorie di essi versanti nelle stesse condizioni fattuali) e non agli altri.

A questa situazione può essere equiparata quella in cui il riconoscimento venga fatto solo per il futuro, cioè soltanto in favore dei soggetti che si vengano a trovare nella condizione prevista dalla direttiva successivamente all’entrata in vigore dell’atto legislativo, in modo tale, dunque, che si abbia un adempimento della direttiva de futuro, cioè a partire dalla data dell’entrata in vigore dell’atto legislativo.

Questa seconda è la situazione determinatasi per effetto dell’emanazione del D.Lgs. n. 257 del 1991 a far tempo, secondo quanto sopra si è osservato, dalla sopravvenienza della sentenza Francovich.

Ebbene questa situazione, rappresentando un adempimento parziale delle note direttive soltanto per i soggetti specializzandi a partire dall’anno accademico 1991-92, lasciò del tutto immutata la situazione dei soggetti che, successivamente al 31 dicembre 1982 e fino all’anno accademico 1990-1991, si erano venuti a trovare in una condizione la quale, in presenza di una già avvenuta attuazione della direttiva, li avrebbe resi destinatari dei diritti riconosciuti dalle direttive e trasfusi nel provvedimento legislativo interno attuativo. Il D.Lgs. n. 257, infatti, non riguardò in alcun modo tali soggetti, naturalmente considerati non nominatim, ma come categorie accomunate dall’avere frequentato corsi di specializzazione negli stessi anni.

Ora, ed il discorso vale in generale per il caso che si sta considerando, l’adozione di una direttiva di adempimento parziale sotto il profilo soggettivo, a differenza di quella parziale sul piano soltanto oggettivo è un comportamento che si presenta del tutto ininfluente sulla situazione di quei soggetti che – per essersi trovati dopo la scadenza del termine per l’adozione, nelle condizioni fattuali che, se la direttiva fosse stata adempiuta tempestivamente, avrebbero fatto loro acquisire i relativi diritti – hanno acquisito il diritto al risarcimento del danno, sono diventati cioè titolare attivi del relativo obbligo risarcitorio. Poichè la direttiva di adempimento parziale sul piano soggettivo non li contempla, perchè la situazione in relazione alla quale realizza l’adempimento parziale non è ad essi riferibile e non lo è al livello della previsione astratta della legge di adempimento, la loro condizione resta assolutamente immutata dopo l’adozione dell’atto legislativo de quo.

In particolare, l’obbligo risarcitorio che li riguarda non è in alcun modo inciso e, quindi, deve ritenersi che la nuova situazione determinatasi non sia idonea a provocare nei loro confronti la cessazione dell’attitudine dell’inadempimento statuale a svolgere i suoi effetti in modo permanente. Il carattere permanente dell’inadempienza quale fonte dell’obbligo risarcitorio non viene in alcun modo meno cioè, perchè tale obbligo non è in alcun modo toccato. Così come la prescrizione non correva prima non può correre dopo, perchè la situazione non è dei soggetti in questione è rimasta immutata.

Da questo caso dev’essere distinta una sottoipotesi, che è quella nella quale l’intervento tardivo di adempimento della direttiva si riferisca anche alle situazioni astratte nelle quali versavano i soggetti nei cui confronti si erano verificati i presupposti di fatto che in presenza di attuazione della direttiva avrebbero fatto loro acquisire il diritto, e, tuttavia, in relazione ad esse riconosca il diritto soltanto a quei soggetti che nel loro ambito si trovino in particolari condizioni fattuali. In questo caso la legge di adempimento tardivo interviene con riferimento alla situazione di inadempienza di una certa categoria di soggetti aventi posizione comune riguardo alla direttiva comunitaria anche sul piano fattuale, ma, all’interno questa posizione comune attribuisce il diritto dando rilievo a determinate circostanze di fatto ulteriori, per cui, con riguardo alla stessa situazione astratta, il diritto viene riconosciuto anzichè a tutti solo ad alcuni, quelli che versino in tali circostanze ulteriori, del tutto estranee alla classe di situazioni contemplate dalla direttiva.

E’ vero che in tali casi l’obbligo risarcitorio dei soggetti esclusi non viene inciso, perchè non risulta soddisfatto l’interesse inattuato in relazione al quale era sorto. Tuttavia, l’atteggiamento statuale di discriminazione fra legislativa fra i soggetti che rientrano nella stessa categoria astratta, si presta ad essere apprezzata da parte dei soggetti esclusi come ragionevolmente significativo, ancorchè a livello probabilistico, della volontà statuale di non adempiere successivamente per gli esclusi.

Ne discende che appare ragionevole esigere che la situazione di costoro non benefici più dell’incidenza di una permanente condotta di inadempimento statuale, bensì si connoti in via probabilistica come dipendente da una scelta definitiva di non provvedere all’adempimento. Si che la situazione dannosa in cui i soggetti appartenenti alla stessa categoria rimasti esclusi versano, si profila ormai apprezzabile tendenzialmente come un effetto ormai definitivo della condotta di inadempimento.

In tale situazione, che non appare ragionevolmente riconducibile in modo certo alla permanenza di una condotta di inadempimento che può cessare da un momento all’altro, bensì verosimilmente ad una condotta definitiva, è giustificato ritenere che l’obbligo risarcitorio debba ormai essere considerato dai soggetti in discorso come l’unica prospettiva di tutela, in quanto la situazione non è più apprezzabile sub specie come determinata dalla permanenza di una condotta di inadempimento cagionante l’obbligo risarcitorio de die in die.

p. 6.4.6. Ora, con riferimento alla vicenda degli specializzandi non contemplati dal D.Lgs. n. 257 del 1991, lo Stato Italiano, successivamente alla citata sentenza della Corte di Giustizia sul caso Carbonari, ha ritenuto – con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11 – di procedere ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo nei confronti di tutte le categorie astratte in relazione alle quali dopo il 31 dicembre 1982 si erano potute verificare le condizioni fattuali idonee a dare luogo all’acquisizione dei diritti previsti dalle note direttive e che non risultavano considerate dal detto D.Lgs. (cioè quelle degli ammessi alle specializzazioni per gli anni accademici dal 1983-1984 al 1990-1991), ma lo ha fatto considerando all’interno di tali categorie soltanto i soggetti destinatari di talune sentenze passate in giudicato del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio. Quindi, dando rilievo a particolarità fattuali del tutto estranee all’astrattezza del dovere di adempimento, sia pure riferito a categorie di soggetti in identica condizione: l’esistenza dei detti giudicati, infatti, era una circostanza di fatto del tutto estranea alle fattispecie astratte riguardo alle quali era mancato l’adempimento.

Ebbene, in base alle considerazioni che si sono venute svolgendo, si deve ritenere che l’entrata in vigore della suddetta norma, avvenuta il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (giusta l’art. 13), cioè il 27 ottobre 1999, abbia determinato una situazione nella quale la condotta di inadempimento dello Stato verso i soggetti esclusi, cioè quelli dei corsi di specializzazione per gli indicati anni accademici estranei ai giudicati richiamati dalla norma, fino a quel momento determinante con efficacia permanente l’obbligo risarcitorio, ha cessato di poter essere ragionevolmente intesa come tale. Con la conseguenza che, essendo divenuto l’obbligo risarcitorio apprezzabile come un effetto della condotta di inadempimento ormai definitivo, si deve ritenere che da tale pubblicazione sia iniziato il decorso della prescrizione ordinaria decennale ai sensi dell’art. 2046 c.c., della pretesa risarcitoria, dapprima invece non iniziato perchè la condotta di inadempimento era apprezzabile come condotta permanente.

Ne discende che il diritto al risarcimento del danno da mancata adeguata remunerazione della frequenza della specializzazione degli specializzandi medici ammessi alle scuole negli anni 1983-1991 si intende prescritto solo alla condizione che i medesimi non abbiano agito giudizialmente o compiuto non abbiano compiuto atti interruttivi del corso della prescrizione decennale entro il 27 ottobre 2009.

Naturalmente, lo si precisa per competenza, ove taluno avesse, anteriormente a quella data, manifestato la sua pretesa anteriormente in via stragiudiziale senza darvi ulteriore corso oppure attraverso un’azione giudiziale poi lasciata estinguere, poichè tali manifestazioni rivestono valore di atti di esercizio del diritto, si dovrà ritenere che in tali casi la prescrizione decennale sia decorsa da tali manifestazioni di esercizio del diritto, posto che la reazione contro la permanenza della condotta inattuativa rende irrilevante la sua permanenza siccome giustificativa del fatto che la prescrizione non debba correre.

p. 6.4.7. Come già adombrato in precedenza la circostanza che il 20 ottobre 2007 sia cessato l’obbligo dello Stato Italiano di adempiere le note direttive, non ha, invece, determinato alcun effetto sull’obbligo risarcitorio verso i soggetti versanti in situazioni fattuali pregiudicate dall’inadempimento. Di modo che eventuali azioni giudiziali o atti di interruzione del corso della prescrizione verificatisi fra detta data ed il 27 ottobre 2009 hanno comunque riguardato diritti risarcitori (già sorti) in alcun modo pregiudicati dalla cessazione di quell’obbligo.

p. 7. Dalle considerazioni svolte consegue che la sentenza impugnata, pur essendo erronea nella motivazione con cui ha attribuito il significato qui disconosciuto alla nota sentenza Emmott, appare corretta nel dispositivo, là dove ha concluso che il diritto al risarcimento del danno per la mancata percezione dell’adeguata remunerazione non risulta prescritto: avendo gli attori agito in giudizio nell’aprile del 2001 e gli intervenienti comunque nel decenni dal 27 ottobre 2009, la prescrizione non era ancora decorsa al momento dell’azione, onde bene la Corte territoriale ha ritenuto le loro pretese non prescritte.

8. La seconda censura del secondo motivo è inammissibile, perchè non è pertinente alla motivazione della sentenza impugnata, la quale, nel decidere le sole questioni preliminari e, particolarmente e per quanto qui rileva, oltre che quella di qualificazione dell’azione, quella di prescrizione, ha espressamente demandato all’attività istruttoria che gli stessi appellanti ed ora qui resistenti avevano sollecitato, l’accertamento in capo ad ognuno (e, naturalmente, secondo la tipologia dell’impegno nel corso di specializzazione) “dei requisiti occorrenti per avere diritto alla remunerazione richiesta”.

Sarà l’istruzione che la Corte territoriale si è riservata ad accertare se la frequenza del corso di specializzazione da parte di ognuno dei resistenti richiesti è avvenuta con modalità tali da integrare una situazione fattuale che avrebbe giustificato, ove la direttiva fosse stata attuata al momento della frequenza, il riconoscimento di un’adeguata remunerazione o per essere detta frequenza rifondibile al ed. tempo pieno o al tempo parziale per come definiti dalla normativa comunitaria stessa.

p. 9. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato con la correzione della motivazione nei termini indicati sia quanto alla qualificazione dell’azione, sia quanto alla prescrizione ed al suo dies a quo.

La correzione della motivazione su questo secondo punto si giustifica sulla base dei seguenti principi di diritto:

a) nel caso di direttiva comunitaria sufficientemente specifica nell’attribuire diritti ai singoli, ma non self-executing, l’inadempimento statuale alla direttiva determina una condotta idonea a cagionare in modo permanente un obbligo di risarcimento danni a favore dei soggetti che successivamente si vengano a trovare in condizioni di fatto tali che, se la direttiva fosse stata adempiuta, avrebbero acquisito il o i diritti da essa riconosciuti, con la conseguenza che la prescrizione decennale del relativo diritto risarcitorio non corre, perchè la condotta di inadempimento statuale cagiona l’obbligo risarcitorio de die in die;

b) qualora, nel caso sub a), intervenga un atto legislativo di adempimento parziale della direttiva sotto il profilo oggettivo verso tutti i soggetti da essa contemplati, dall’entrata in vigore di detto atto inizia il decorso della prescrizione decennale dell’azione di risarcimento danni di tali soggetti per la parte di direttiva non adempiuta;

c) qualora, nel caso sub a), intervenga invece un atto legislativo di adempimento della direttiva che sia parziale sotto il profilo soggettivo, nel senso che, o provveda solo per il futuro, o provveda riguardo a determinate categorie di soggetti fra quelle cui la direttiva era applicabile, accomunate esclusivamente dal mero dato temporale della verificazione delle situazioni di fatto giustificative dell’acquisto del diritto o dei diritti per il caso che la direttiva fosse stata attuata tempestivamente, il corso della prescrizione per i soggetti esclusi non inizia, perchè la residua condotta di inadempimento sul piano soggettivo continua a cagionare in modo permanente il danno e, quindi, a giustificare l’obbligo risarcitorio;

d) qualora, sempre nel caso sub a), l’atto di adempimento parziale sul piano soggettivo concerna invece alcuni dei soggetti riguardo ai quali si erano verificate situazioni di fatto giustificative dell’acquisto del diritto o dei diritti per il caso che la direttiva fosse stata attuata tempestivamente, scelti, però, sulla base di circostanze fattuali diverse dal mero dato temporale che li accomuna, la condotta di inadempimento per i soggetti esclusi non può più dirsi cagionare in modo permanente la situazione dannosa nei loro confronti, con la conseguenza che riguardo ad essi inizia il corso della prescrizione decennale del diritto al risarcimento;

e) il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11.

p. 10. La consapevolezza da parte del Collegio della estrema delicatezza delle questioni esaminate e l’innovatività della soluzione prospettata, nonchè il carattere notoriamente diffuso ed ormai annoso delle controversie in subiecta materia, suggerisce, a fini di nomofilachia ed allo scopo di evitare la possibile insorgenza di ulteriori questioni, l’enunciazione di un’ulteriore considerazione aggiuntiva che porterebbe alla stessa conclusione raggiunta sopra, pur nell’ottica di una ipotesi di decorrenza del dies a quo del corso della prescrizione decennale dalla sentenza Francovich (o, più correttamente dalla sentenza Brasserie du Pecheur, siccome imporrebbe il punto (33) della sentenza Danske Slagterier), motivata dal rifiuto di considerare la permanenza della condotta di inadempimento dello Stato come rinnovante de die in die il diritto al risarcimento del danno.

p. 10.1. Queste le ragioni.

Il decorso del termine decennale, iniziato dalla citata sentenza, cioè dal momento dell’insorgenza del diritto al risarcimento del danno, dovrebbe, infatti, reputarsi interrotto alla data di entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, poichè la manifestazione statuale con tale atto legislativo della volontà di adempiere, sia pure per taluni soggetti, le note direttive dovrebbe considerarsi equivalente ad un riconoscimento del diritto di tutti i soggetti rimasti esclusi fino a quel momento dall’adempimento parziale soggettivo de futuro verificatosi con il D.Lgs. n. 257 del 1991. Non varrebbe ad escludere la configurabilità di tale efficacia nell’atto legislativo del 1999 la circostanza che esso contemplava solo alcuni soggetti, quelli di cui ai noti giudicati: è sufficiente osservare che nella specie il diritto riguardo al quale lo Stato era inadempiente era quello che la direttiva riconosceva a tutti i soggetti rimasti esclusi e che la manifestazione legislativa appare come un atto che necessariamente, prima di provvedere – quasi con legge c.d. provvedimento – riguardo ad essi soltanto, fu oggettivamente ricognitivo di questa situazione di tutti i soggetti (perchè l’inadempimento della direttiva era riferibile a tutti) e solo gradatamente nella sua concreta specificazione riguardò esclusivamente taluni.

Si vuoi dire, cioè, che con l’art. 11 citato lo Stato Italiano ha necessariamente riconosciuto la sua situazione di inadempienza alla direttiva e, poichè in riferimento all’ordinamento comunitario su tale situazione non poteva disporre se non con riferimento alla sua interezza e, quindi, solo come tale poteva riconoscerla, il valore sotteso all’esercizio dell’attività legislativa sarebbe, sotto il profilo dell’art. 2944 c.c., necessariamente riferibile alle situazioni di tutti i soggetti cui l’inadempienza si riferiva. Onde il riconoscimento dell’inadempienza e, quindi, del diritto avrebbe operato e sarebbe riferibile a tutti.

Questa interpretazione si imporrebbe, del resto, come l’unica valida sul piano costituzionale, sia in ossequio al principio generale di eguaglianza, sia sulla base dell’art. 117 Cost., comma 1, perchè un comportamento statuale di riconoscimento della propria inadempienza attraverso un atto legislativo di tardivo adempimento necessariamente dovrebbe estrinsecarsi nei riguardi di tutti i soggetti cui la direttiva non self-executing attribuisce diritti e non solo nei confronti di alcuni. E ciò perchè sarebbe contrario all’ordinamento comunitario un riconoscimento nei confronti di taluni e non di altri.

Dovendo privilegiarsi l’interpretazione costituzionale, la soluzione ipotizzata nel senso del riconoscimento valido nei confronti di tutti avrebbe allora comportato l’interruzione del corso della prescrizione decennale iniziato dalla sentenza Francovich (o più verosimilmente da quella Brasserie du Pecheur, giusta le considerazioni in precedenza svolte) e non ancora maturato per alcuno degli interessarti e il decorso di un nuovo termine di prescrizione decennale che sarebbe venuto a scadere soltanto (e nuovamente) il 27 ottobre 2009.

p. 10.2. Non è senza fondamento, in fine, rilevare che, nell’ottica delle considerazioni del punto (33) della sentenza Danske Slagterier, la ricostruzione appena ipotizzata si giustificherebbe anche per evitare che la Corte di Giustizia – attesa la travagliatissima vicenda di cui si è discorso nell’ordinamento interno, sia sotto il profilo delle incertezze sulla giurisdizione (terminate solo nel 2005 ed in situazione ante l’introduzione del noto principio della translatio), sia sotto il profilo della individuazione dell’azione esperibile e del suo termine di prescrizione (terminate solo con la sentenza delle SS.UU. n. 9147 del 2009) – ove investita di un’esegesi dell’ordinamento interno che non riconoscesse o la soluzione qui sostenuta o quella subordinata appena indicata, possa dirla non conforme al diritto comunitario adducendo giustificatamente l’oggettiva incertezza della situazione interna al nostro ordinamento.

p. 11. Un’ultima notazione il Collegio ritiene di fare.

Le considerazioni che si sono svolte a proposito della possibilità di un adempimento tardivo della direttiva e della possibile incidenza esaustiva o meno sull’obbligo di risarcimento del danno non vogliono in alcun modo escludere che eventuali atti legislativi di adempimento non esaustivi possano, al lume della giurisprudenza comunitaria essere considerati come eventualmente elidenti l’obbligo risarcitorio pur non soddisfatto integralmente. Ipotesi questa che – come in precedenza s’è già adombrato – occorrerà verificare alla luce di detta giurisprudenza.

p. 12. L’oggettiva incertezza delle questioni esaminate induce a compensare le spese del giudizio di cassazione.

L’oggettiva incertezza delle questioni esaminate induce a compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile l’intervento. Rigetta il ricorso.

Compensa le spese del giudizio di cassazione fra tutte le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 18 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2011

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