Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10810 del 05/05/2010

Cassazione civile sez. trib., 05/05/2010, (ud. 22/01/2010, dep. 05/05/2010), n.10810

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CAPITALIA SPA (gia’ BANCA DI ROMA SPA), quale incorporante di BANCA

MEDITERRANEA SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XXIV MAGGIO

43, presso lo studio dell’avvocato GRANDE Corrado, che la rappresenta

e difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 31/2005 della COMM. TRIB. REG. di POTENZA,

depositata il 07/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/01/2010 dal Consigliere Dott. SCARANO Luigi Alessandro;

udito per il ricorrente l’Avvocato GRANDE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 7/3/2005 la Commissione Tributaria Regionale della Basilicata respingeva il gravame interposto dalla contribuente societa’ Capitalia s.p.a. nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Potenza di parziale accoglimento dell’opposizione proposta in relazione ad avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate di Potenza a titolo di IRPEG ed ILOR per l’anno d’imposta 1993.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello la societa’ Unicredit (incorporante di Capitalia s.p.a., gia’ Banca di Roma s.p.a., incorporante di Banca Mediterranea s.p.a.) propone ora ricorso per Cassazione, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.

Gli intimati non hanno svolto attivita’ difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 71, comma 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che il giudice dell’appello abbia ritenuto che la svalutazione e gli accantonamenti deducibili siano solamente quelli “specificamente riferiti agli interessi di mora dell’esercizio, cioe’ nella fattispecie agli interessi maturati nel 1995”, giacche’ il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 71, comma 6, “ammette la piena deducibilita’ delle svalutazioni e degli accantonamenti” (con l’unico limite quantitativo costituito “dall’ammontare dei crediti…

maturati nell’esercizio” ) senza alcuna ulteriore qualificazione, non potendo pertanto trarsene “la piena deducibilita’ anche delle svalutazioni di tali crediti nell’ammontare esposto a chiusura dell’esercizio nell’attivo patrimoniale. Ammontare… che certo puo’ ricomprendere anche i crediti maturati nell’esercizio… ma senz’altro, altresi’, i crediti rilevati contabilmente in precedenti esercizi e, all’epoca, non rettificati perche’, sempre all’epoca, giudicati recuperabili”.

Con il 2 motivo denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 66, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che “i giudici di merito si sono pronunciati in maniera conforme alle tesi degli organi verificatori e dell’amministrazione finanziaria ritenendo che dette perdite, nel loro complesso, non fossero da ammettere in deduzione in quanto non risultanti da elementi certi e precisi”, laddove “l’art. 66, comma 3, non richiede che sia la perdita a dover essere certa e precisa (rectius:

inevitabile, secondo i giudici di primo e secondo grado), “ma che siano gli elementi sui quali si basa a dover essere certi e precisi, il che in sostanza vuoi dire che la perdita per poter essere effettiva deve risultare da elementi indiziati gravi, precisi e concordanti, in sintonia con i principi generali in tema di presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.”.

Con il 3 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 71, comma 3, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che “Secondo i verificatori, prima, ed i giudici di merito di prime e seconde cure, poi, la ricorrente avrebbe indebitamente incluso nella base imponibile rilevante ai fini del computo dell’accantonamento al fondo rischi su crediti anche i crediti verso le societa’ controllate e collegate. A conforto di tale tesi viene richiamata la risoluzione n. 9/197 del 12.3.1976”, laddove “proprio in ossequio della prefata risoluzione ministeriale nonche’ del chiaro dettato legislativo e contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio, la societa’, nel determinare il quantum accantonabile al fondo rischi su crediti, ha tenuto conto anche dei crediti vantati verso societa’ controllate e collegate poiche’ le condizioni di credito ed il trattamento operato nei confronti di detti soggetti sono sempre stati identici a quelli praticati nei confronti della clientela ordinaria”.

Con il 4 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, comma 4, e art. 61, comma 5, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che il giudice dell’appello abbia “lapidariamente” affermato che “non risulterebbero deducibili L. 4.484.303.330 (pari ad Euro 2.315.949.392) relativi ad “accantnamenti a copertura delle perdite precedenti” in quanto si tratterebbe di “accantonamenti non previsti dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, comma 4”, laddove ai sensi del combinato disposto di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 61 e 66 e’ “indubitabile la possibilita’, offerta ai contribuenti, di dare rilievo al costo rappresentato dal cosiddetto sottozero, cioe’ dalla perdita partecipata – ripianata dal socio – che addirittura sopravanzava il proprio patrimonio netto”, e “quanto alla certezza ed alla obiettiva determinabilita’ dell’onere in questione, non puo’ assolutamente revocarsi in dubbio la sua competenza ai sensi del disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75”; mentre “Sotto diverso profilo, occorre considerare che la collocazione di detto costo nella voce accantonamenti e’ in linea con le disposizioni della Banca d’Italia del 31/7/1992 che dettano le istruzioni per la redazione degli schemi e delle regole di compilazione dei bilanci bancari in aderenza a quanto disposto dal D.Lgs. n. 87 del 1992”.

Con il 5 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Deduce testualmente al riguardo che “L’ultimo rilievo concerne la presunta imputazione nell’esercizio non di competenza – e la conseguente indeducibilita’- di altre spese amministrative per un totale di L. 31.967.291… Di detti costi si riafferma, viceversa la competenza nell’esercizio 1995 e, conseguentemente, la piena legittimita’ del comportamento tenuto dall’odierna ricorrente”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha gia’ avuto piu’ volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificita’, della completezza, e della riferibilita’ alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimita’ o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a se’ stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, e’ tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonche’ delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessita’ di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito e la sentenza impugnata (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioe’ indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Allorquando con quest’ultimo viene come nella specie in particolare denunziato il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto non e’ allora sufficiente una doglianza meramente apodittica e non seguita da alcuna dimostrazione, la stessa non consentendo alla Corte di legittimita’ di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali la pronunzia impugnata e’ fatta oggetto di censura (v.

Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 15/2/2003, n. 2312; Cass., 21/8/1997, n. 7851).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.

Gia’ sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo che il medesimo fa richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (in particolare, all’”avviso di accertamento”, al “processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Bari all’esito di una verifica fiscale eseguita nei confronti della societa’”, al “ricorso della Banca”, alla sentenza di primo grado, all’atto di appello, alla “svalutazione e all’accantonamento per interessi di mora, al bilancio per l’esercizio 1995, alla risoluzione n. 9/197 del 12.3.1976”, alla svalutazione delle “partecipazioni possedute che avevano registrato perdite d’esercizio”, all’impegno “a coprire il deficit patrimoniale… delle societa’ partecipate con l’accantonamento di L. 4.484303.330 al fondo svalutazioni partecipazioni”), limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestivita’ e decisivita’ dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non e’ possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimita’ accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Le doglianze si presentano pertanto inammissibilmente formulate in termini apodittici, e la critica alle soluzioni adottate dal giudice dell’appello nell’impugnato provvedimento, laddove non manchi del tutto (5 motivo) e sia in effetti evincibile nell’ambito di censure che si rivolgono in realta’ all’operato dell’A.F. e alla pronunzia di primo grado (gli altri motivi), risulta operata invero non gia’ mediante puntuali contestazioni delle soluzioni stesse nell’ambito d’una valutazione comparativa con le diverse altre prospettate, bensi’ mediante la mera contrapposizione – in sede di legittimita’ invero non consentita – di queste ultime a quelle poste a base dell’impugnata sentenza.

A tale stregua, emerge pertanto evidente come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierna ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, si risolvono invero nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. in particolare Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via allora la ricorrente in realta’ sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimita’, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimita’ non e’ un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto gia’ considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

Non puo’ infine sottacersi che la ricorrente omette invero di censurare l’impugnata sentenza sia sotto il profilo dell’error in procedendo per omessa o apparente motivazione o inidoneita’ della motivazione per relationem, che del vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, invero non rilevabili d’ufficio.

All’inammissibilita’ ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Non e’ peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attivita’ difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2010

 

 

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