Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10776 del 03/05/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 03/05/2017, (ud. 23/03/2017, dep.03/05/2017),  n. 10776

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28896-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., – C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

BARBERINI 47, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PANDOLFO che la

rappresenta e difende, in virtù di procura speciale a margine del

ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, V. TUSCOLANA 1312,

presso lo studio dell’avvocato GATTA TAMAGNINI che la rappresenta e

difende, unitamente e disgiuntamente all’avvocato CINZIA TAMAGNINI,

giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4672/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/03/2017 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza del 4.6.2015, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto da C.L. ed in riforma della sentenza impugnata, dichiarava costituito fra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con diritto dell’appellante alla riammissione in servizio nel posto precedentemente occupato e condanna della società al pagamento di un’indennità risarcitoria L. n. 183 del 2010, ex art. 32 pari a otto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, sul rilievo che era da disattendersi quanto affermato dal primo giudice in ordine alla ritenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso e che la causale del contratto di somministrazione stipulato per il periodo 2 dicembre 2003/15 gennaio 2004, “casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice”, era connotata da assoluta genericità, non essendo idonea ad individuare a quale ipotesi prevista dalle parti collettive si fosse fatto riferimento per giustificare il ricorso al lavoro somministrato della C.;

che di tale sentenza chiede la cassazione la s.p.a. Poste Italiane s.p.a., affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha opposto difese, con controricorso, la C.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

Diritto

CONSIDERATO

1. che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata;

2.1. che viene denunziata, con il primo motivo, violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, secondo periodo, nonchè degli artt. 1175, 1366,1375, 2697, 1427 e 1431 c.c., dell’art. 100 c.p.c. e degli artt. 3 e 41 Cost., sostenendosi la legittimità dell’attribuzione del valore di dichiarazione negoziale a comportamenti sociali valutati in modo tipico, per ciò che essi socialmente esprimono, ed assumendosi che debba essere valorizzato l’arco di tempo intercorrente tra la conclusione del contratto a termine dedotto in causa e l’inizio del contenzioso giudiziale e che gli elementi “ulteriori” rispetto al dato cronologico rilevino esclusivamente nei casi in cui tale dato non sia di entità tale da dare per scontata la volontà risolutoria delle parti, il che è da escludere nel caso considerato in cui il lasso considerevole di tempo decorso (oltre sei anni tra la cessazione del rapporto e la sua impugnazione), in base ai principi di correttezza e buona fede, doveva assumere la rilevanza che allo stesso era attribuita dalla società;

2.2. che, con il secondo motivo, si lamenta l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e la violazione dell’art. 116 c.p.c. e artt. 2697 e 2727 c.c., segnalandosi che era stata richiesta in via istruttoria la produzione delle dichiarazioni dei redditi presentate dall’anno 2005 in poi dalle quali poter risalire ad un eventuale aliunde perceptum, e che tale richiesta, reiterata nel secondo grado di giudizio, era stata immotivatamente disattesa dalla Corte del merito;

3. che il ricorso è qualificabile come inammissibile alla luce della recente pronunzia di questa Corte in relazione alla portata applicativa dell’art. 360 bis c.p.c. (Cass. s. u. 7155/2017);

3.1. che, con riguardo al primo motivo, come questa Corte ha più volte affermato, “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè più di recente, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932, Cass. 28.1.2014 n. 1780);

che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887, e, da ultimo, Cass. 28.1.2014 n. 1780, Cass. 1.7.2015 n. 13535, Cass. 3.12.2015 n. 24665), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1- 2-2010 n. 2279);

che tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto e non potendo attribuirsi significatività alla percezione del tfr senza riserve o a prestazioni lavorative presso terzi;

che, in particolare, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n. 5782, “quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sè neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n.16287/2011) e che in ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r., nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione); che lo stesso deve affermarsi il relazione alla condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n.839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632 -;

che, tanto premesso, deve ritenersi che la Corte di merito abbia fatto corretta applicazione di tali regole, laddove ha escluso che il ritardo con cui la lavoratrice ha agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso costituisca una inequivoca manifestazione di rinuncia alla sua prosecuzione o,

comunque, una volontà diretta alla modifica del rapporto, essendo la mancanza di contestazione al momento della cessazione del contratto, in uno con la accettazione senza riserva del t. f.r., circostanza comunque incentrata sulla complessiva inerzia del lavoratore, mentre la breve durata del contratto è circostanza sostanzialmente estranea al comportamento successivo delle parti e che la medesima estraneità sussiste anche con riguardo allo svolgimento di altra attività lavorativa, essendo la ricerca di un nuovo lavoro imposta al lavoratore dalla elementare necessità di sopperire comunque ai bisogni della vita;

che nel caso in esame sono stati osservati i principi reiteratamente affermati (da ultime, Cass. 1 gennaio 2016, n. 1841 e 11 febbraio 2016, n. 2732, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti, richiamate entrambe da Cass., s. u., 27.10.2016 n. 21691) essendo stati valutati dal giudice del gravame sia l’elemento temporale che la consistenza e convergenza degli altri elementi prospettati dalla società, con valutazione congruamente motivata e non sindacabile perchè attinente al merito;

3.2. che il secondo motivo profila un vizio attinente all’omesso esame di fatto decisivo che non ricorre nella specie, in relazione al testo attuale dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, (“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”), posto che i rilievi formulati mirano a provocare, in realtà, il controllo sulla motivazione della sentenza, non più consentito da detta norma, criticando la ricorrente la sufficienza del ragionamento logico posto alla base dell’interpretazione di determinati atti del processo, e dunque un caratteristico vizio motivazionale, in quanto tale non più censurabile (si veda Cass., S.U., n. 8053/14 secondo cui il controllo della motivazione è ora confinato sub specie nullitatis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione);

che l’omesso esame deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica (e quindi non un punto o un profilo giuridico), un fatto principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè un fatto dedotto in funzione probatoria) e che il riferimento al fatto secondario non implica – e la citata sentenza n. 8053 delle S.U. lo precisa chiaramente – che possa denunciarsi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 anche l’omessa o carente valutazione di determinati elementi probatori, bastando che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti o della mancata acquisizione di ulteriori elementi, implicitamente ritenuti non decisivi ai fini della soluzione della controversia;

che nel caso in esame i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale, la quale ha ritenuto che la breve durata del rapporto, il lungo tempo trascorso tra la cessazione di questo e razione giudiziaria, l’accettazione senza riserve del trattamento di fine rapporto integrassero, nel complesso, un quadro probatorio inidoneo comprovare come sussistente una risoluzione per mutuo consenso, sicchè non di omesso esame si tratta, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dal ricorrente;

che, quanto alla denunciata violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., parte ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove un’autonoma questione di malgoverno degli articoli suddetti può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito 1) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; 2) abbia invertito gli oneri probatori, situazioni non rappresentate nel motivo anzidetto, sicchè le relative doglianze sono mal poste;

4. che, nella specie, il decisum della Corte territoriale è coerente con i principi giurisprudenziali richiamati e che, pertanto, essendo nella sostanza da condividere la proposta del relatore, il ricorso va dichiarato inammissibile con ordinanza, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c.;

5. che le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione ai difensori dichiaratisi antistatari;

che sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese generai in misura del 15%, con attribuzione agli avv.ti Catia e Cinzia Tamagnini.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1bis citato D.P.R..

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2017

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