Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10748 del 05/06/2020

Cassazione civile sez. I, 05/06/2020, (ud. 25/02/2020, dep. 05/06/2020), n.10748

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – rel. Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2494/2017 proposto da:

Comune di Zoppola, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, Via Federico Confalonieri n. 5, presso lo

studio dell’avvocato Manzi Luigi, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Barel Bruno, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

B.G., + ALTRI OMESSI; elettivamente domiciliati in

Roma, Viale delle Milizie n. 76, presso lo studio dell’avvocato

Infascelli Francesca, rappresentati e difesi dall’avvocato Cassini

Alberto, giusta procura in calcce al controricorso;

B.d.V.L., + ALTRI OMESSI; domiciliati in Roma,

Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di

Cassazione, rappresentati e difesi dagli avvocati Bertossi Cinzia,

Zanetti Massimo, giusta procura speciale per Notaio avv.

G.M. di Udine, Rep. n. (OMISSIS);

– controricorrenti –

e contro

Consorzio Iniziative Produttive di Zoppola, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via

Giosuè Borsi n. 4, presso lo studio dell’avvocato Scafarelli

Federica che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato De

Bertolis Elisa, giusta procura in calce al controricorso e ricorso

incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 694/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 09/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/02/2020 dal Cons. Dott. SAMBITO MARIA GIOVANNA C..

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza 29 marzo 2006, resa nel contraddittorio del Consorzio per le Iniziative Produttive di Zoppola, la Corte d’Appello di Trieste determinava, ai sensi della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, l’indennità dovuta dal Comune di Zoppola per l’espropriazione, disposta con decreto sindacale del 25 agosto 2003, di alcuni terreni inclusi nell’ambito di un PIP, in favore dei loro proprietari. La Corte evidenziava che, per quelli di detti proprietari che non erano coltivatori diretti, il valore accertato andava ridotto in coincidenza con quello denunciato ai fini dell’ICI e, per gli altri proprietari, coltivatori diretti, la disciplina dell’art. 5 bis sui suoli edificatori non consentiva l’attribuzione dell’indennità aggiuntiva di cui alla L. n. 865 del 1971, stabilita per i soli terreni agricoli.

Su ricorso di tutte le parti, la decisione veniva cassata da questa Corte con sentenza n. 2552 del 2014, che, dopo aver dato atto che la Corte Costituzionale: con sentenza n. 348 del 2007 aveva dichiarato illegittimo il criterio riduttivo della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, primi due commi; con sentenza n. 338 del 2011 aveva dichiarata illegittima la disposizione che limitava l’importo dell’indennità di espropriazione al valore dichiarato in tema di ICI e con sentenza n. 181 del 2011 aveva dichiarato illegittimo il criterio indennitario riferito al valore agricolo medio, affermava che l’edificabilità legale andava esclusa per le aree poste in fascia di rispetto sia alla strada pubblica che all’elettrodotto, essendone tuttavia consentita la valutazione riferita a possibilità di utilizzazioni intermedie tra l’agricola e l’edificatoria, ove assentite dalla normativa vigente sia pur con il conseguimento delle opportune autorizzazioni. La sentenza rescindente evidenziava, inoltre, che l’indennità aggiuntiva di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 17, poteva competere solo in riferimento all’area non edificatoria; aggiungeva che per i suoli edificatori doveva trovare applicazione il criterio del valore venale del previsto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 39, la cui determinazione poteva avvenire sia con metodo analitico-ricostruttivo, teso ad accertare il valore di trasferimento; sia con metodo sintetico-comparativo, volto invece a desumere il valore commerciale attraverso il riferimento alle aree omogenee, in tal caso occorrendo la preventiva ricognizione circa la rappresentatività dei prezzi assunti a termine di paragone perchè riferiti a beni omogeni per le caratteristiche rispetto a quello oggetto della stima.

Riassunto il giudizio, la Corte d’Appello di Trieste, con sentenza del 9.11.2016 determinava le indennità dovute sulla scorta della disposta CTU, alla quale rinviava, e l’indennità aggiuntiva in favore di alcuni degli espropriati, affermando che la qualifica di coltivatori diretti, dagli stessi affermata in seno alla citazione introduttiva del giudizio, doveva ritenersi pacifica, perchè contestata, solo, in sede di rinvio.

Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso in via principale il Comune di Zoppola con tre motivi, ed in via incidentale adesiva il Consorzio. B.G. e consorti hanno resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, l’Ente ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 2359 del 1865, art. 39, art. 132 c.p.c., n. 4, art. 111 Cost., comma 6; D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 3, omessa/apparente motivazione; omesso esame di un fatto storico decisivo per il giudizio. Il valore di mercato dei suoli espropriati, afferma il ricorrente, è stato determinato in riferimento all’elaborato del CTU, il quale aveva ricusato la rappresentatività di alcuni atti a forniti (compravendita del 2006, perizia dell’Agenzia del Territorio del 2007) optando per il metodo analitico in modo del tutto apodittico, e sulla scorta di una limitazione temporale (triennio 2001-2003) che l’Ausiliario aveva arbitrariamente mutuato, come da lui riferito, dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51 e cioè da una disposizione in tema d’imposta di registro. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale è rimasta silente sulle contestazioni avanzate al riguardo, ed aggiunge che la sentenza è del tutto immotivata in relazione alle valutazioni eseguite in riferimento al metodo analitico utilizzato dal CTU, che si era basato su dati inattendibili, perchè non verificabili.

1.1. Di analogo tenore è la critica del ricorrente adesivo.

1.2. Le critiche presentano profili d’inammissibilità e d’infondatezza.

1.3. La Corte di merito ha recepito le conclusioni e i passi salienti dell’espletata C.T.U. limitandosi ad evidenziare che secondo l’ausiliario non vi erano nel periodo monitorato (anni 2001-2003) sufficienti elementi di comparazione per procedere alla stima secondo il metodo sintetico comparativo. Tale modalità redazionale non costituisce violazione del precetto costituzionale secondo cui i provvedimenti giudiziari devono esser motivati: com’è ormai nozione ricevuta (Cass. S.U. 8053/2014; Cass. 23940/2017), tale caso ricorre quando, a differenza che nella specie, ci si trovi di fronte a “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, a “motivazione apparente”, a “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” o a “motivazione perplessa od incomprensibile”, ai di fuori di tali i può esser dedotto solo l’omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.

Peraltro, nella vigenza del precedente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, questa Corte (Cass., 11/05/2012, n. 7364; Cass., 4/5/2009, n. 10222; Cass., 20/5/2005, n. 10668) ha avuto modo di affermare che il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse. Si è anche escluso il vizio di carenza di motivazione nella sentenza che ne recepisca per relationem le conclusioni, quando, come nella specie, il Consulente si sia fatto carico dell’esame e della confutazione delle contrarie deduzioni delle parti (Cass. n. 23637 del 2016).

1.4. Sotto altro profilo, va rilevato che il passaggio argomentativo è fortemente avversato dai ricorrenti che predicano la perfetta idoneità di alcuni atti a fungere da tertium comparationis per l’adozione del criterio sintetico comparativo.

Vi è da chiedersi dunque se l’opzione circa l’uno o l’altro metodo di stima sia passibile di censura in questa sede. E la risposta è di certo negativa: la precedente sentenza che ha disposto il rinvio ne ha già dato atto, come esposto in narrativa, e questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 215 del 2020 e giurisprudenza richiamata) ha più volte affermato che “nessuno dei metodi di valutazione elaborati dalla scienza estimativa può essere considerato astrattamente prevalente o prioritario rispetto agli altri, dovendo il giudice, e per esso il c.t.u., scegliere il metodo di volta in volta più appropriato alle caratteristiche del bene da stimare ed al contesto in cui è chiamato ad operare, in conformità dei criteri suggeriti dalla letteratura scientifica, e potendo anche procedere al riscontro dei risultati ottenuti attraverso l’applicazione di criteri diversi, con il solo limite costituito dall’obbligo di motivare convenientemente le proprie conclusioni, sulla base degli elementi acquisiti e delle regole tecniche che disciplinano lo svolgimento di tale attività”.

1.5. Non può sottacersi, ancora, che dovendo l’indennità essere necessariamente riferita al valore venale del bene alla data del provvedimento ablativo, che costituisce la fonte del credito indennitario, la postulata rappresentatività degli atti intervenuti in epoca successiva (rispettivamente dopo tre e quattro anni), in tanto potrebbe costituire un fatto decisivo in quanto fosse accertata la stagnazione del mercato per il relativo periodo, id est sulla scorta di una valutazione di merito qui inammissibile, senza dire che la Corte ha evidenziato che l’assenza di pertinenti elementi di comparazione avevano indirizzato verso il criterio analitico ricostruttivo, anche, la stima amministrativa. La violazione del D.P.R. n. 131 del 1986 art. 51, non è, poi, configurabile, avendo il CTU ritenuto congruo il termine triennale da essa previsto, al solo fine di orientare la sua scelta di procedere alla valutazione secondo il metodo analitico.

1.6. L’erroneità del metodo analitico seguito impinge, poi, in valutazioni di puro merito, laddove la critica, tramite l’asserita assenza di dati obiettivi da cui sono stati tratti il prezzo medio unitario di base ed il costo di costruzione, mira a screditare lo stesso metodo prescelto, ed appare generica, tenuto conto che la sentenza ha dato conto che il Consulente ha replicato alla corrispondente censura dell’espropriante, che i controricorrenti hanno affermato che i borsini immobiliari sono editi dalla Camera di commercio, che il prezziario costituisce il frutto di una media ponderata nella Regione ed è edito dalla stessa P.A. per le opere pubbliche.

2. Col secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, per avere la Corte territoriale violato il principio di diritto posto in riferimento alle modalità di determinazione dell’indennità riferite alle aree espropriate ricadenti all’interno delle fasce di rispetto, e dunque non aventi potenzialità edificatorie, aree che, invece, erano state stimate alla stregua di quelle edificabili, in quanto “forniscono la necessaria cubatura”.

2.1. Il motivo è fondato. La sentenza rescindente ha ricordato che:

a) per effetto della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, recepito dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 32, la destinazione di un’area (ai fini indennitari) va compiuta esclusivamente in base alle possibilità legali ed effettive di edificazione “secondo un criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale”;

b) tali possibilità legali vanno escluse tutte le volte in cui per lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico che preclude ai privati tutte quelle

forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione

tecnica di edificazione e che sono, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia;

c) la preclusione connessa a tale destinazione opera a maggior ragione ove posta direttamente dalla legge come avviene in conseguenza della LU del 1942, art. 41 septies, come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 19, D.M. 1 aprile 1968, art. 4, nonchè la L. n. 729 del 1961, art. 9 e da ultimo il D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 6 e il D.P.R. n. 495 del 1992, art. 26, “i quali fissano fasce di inedificabilità senza indennizzo di varia misura dalle strade ed autostrade, perciò traducendosi in un vincolo assoluto per tutte le aree ubicate all’interno della fascia che le rende legalmente inedificabili (L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 3) e soggette ai divieti previsti dalle menzionate norme”;

d) tali vincoli sono stati ritenuti legittimi dalla Corte Costituzionale (sent. n. 133/1971, n. 79/1971; n. 63/1970), poichè collegati, sotto il profilo soggettivo, al loro carattere generale, concernente tutti i cittadini, in quanto proprietari di determinati beni che si trovino in una determinata situazione e non per le loro qualità e condizioni, e, sotto il profilo oggettivo, al fatto di gravare su immobili individuati “a priori” per categoria derivante dalla loro posizione o localizzazione rispetto ad un’opera pubblica;

In conformità con tali principi, questa Corte ha, quindi, cassato la decisione d’appello, che aveva dato atto della sussistenza della fascia di rispetto dovuta sia alla strada pubblica sia all’elettrodotto, e dell’ubicazione di una notevole estensione dei terreni espropriati all’interno di essa, una non ne aveva tenuto conto per il fatto che “anche la superficie in essa ricompresa avrebbe potuto essere utilizzata al fine di individuare la cubatura realizzabile nell’intero fondo”, perciò ipotizzando che l’area possedeva una volumetria edificatoria utilizzabile per il computo di superfici e di volumi perduti per effetto dell’espropriazione e che di conseguenza potesse essere indennizzata. La sentenza rescindente ha precisato che: “è proprio il presupposto su cui si fonda la costruzione ad essere errato attribuendo valore di edificabilità legale all’area che tale valore non aveva”, restando smentito in radice che i proprietari “prima dell’espropriazione fossero titolari dell’intera volumetria edificabile consentita nelle zone classificate D.2.1 dal P.R.G. di Zoppola”.

Siffatta disciplina assolutamente inderogabile, pure, da parte degli strumenti generali di pianificazione del territorio, che quali provvedimenti amministrativi, sono assoggettati al rispetto delle norme di legge, non è, dunque, aggirabile, ha concluso la sentenza rescindente, come aveva fatto la Corte di appello mediante tale espediente.

2.2. Il giudice del rinvio si è discostato da tale principio, incorrendo il medesimo errore. Nè giova ai controricorrenti invocare il condivisibile principio secondo cui il vincolo d’inedificabilità non esclude un valore rilevante di un suolo, poichè quello che qui viene in rilievo non è il valore in sè, quanto piuttosto il parametro legale utilizzato per determinarlo.

2.3. In parte qua la sentenza va, dunque cassata, non potendo giovare agli espropriati la sentenza n. 33126 del 2018, invocata in sede di memoria e relativa a fondi contigui, con cui questa Corte nel rigettare l’omologo motivo del Comune, si è limitata a rilevare il carattere chiuso del giudizio di rinvio: in quel caso, a differenza che nel presente, era accaduto, infatti, che la sentenza rescindente (la n. 14414 del 2013) aveva dichiarato inammissibile, per inidoneità del quesito di diritto, la censura riferita alla valutazione della fascia di rispetto (elettrodotto).

Proprio in ossequio al medesimo principio applicato dalla sentenza n. 33126 del 2018, qui si impone, invece, la cassazione della sentenza, in quanto il carattere chiuso del giudizio di rinvio comporta, tra l’altro, che l’enunciazione del principio di diritto è vincolante ex art. 384 c.p.c., comma 1, non solo per il giudice di rinvio, che ad esso deve uniformarsi, ma anche, ove nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza resa da quel giudice, per la stessa Corte di cassazione, che deve giudicare sulla base del principio precedentemente enunciato, senza possibilità di modificarlo, salvo il caso, qui non ricorrente, in cui la norma da applicare risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di jus superveniens, comprensivo sia dell’emanazione di una norma di interpretazione autentica, sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale (Cass. n. 17446 del 2006; n. 12095 del 2007; n. 6068 del 2014; n. 27155 del 2017).

2.4. Resta fermo, beninteso, che all’interno della categoria dei suoli inedificabili, potranno essere documentate possibilità di utilizzazioni intermedie tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.): semprecchè assentite dalla normativa vigente sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative.

3. Col terzo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto incontroversa la qualifica di coltivatori diretti in capo a Bo.Io. e ad altri nove espropriati. Il ricorrente evidenza che in sede di rinvio il diritto all’indennità aggiuntiva era stato contestato in riferimento a C.L., Bo.Io. ed Ca.An., essendo le stesse imprenditrici agricole e non coltivatrici dirette, come documentato in atti. Nel costituirsi in giudizio, precisa l’espropriante, aveva contestato la spettanza dell’indennità sotto il profilo della natura edificatoria del suolo, senza prendere posizione in riferimento alla qualifica di coltivatori diretti degli opponenti (tra i quali le predette tre imprenditrici).

3.1. Il motivo è infondato. Anzitutto, contrariamente a quanto dedotto dal Consorzio, già molto tempo prima della riforma dell’art. 115 c.p.c., che ha formalmente introdotto nel nostro ordinamento il principio di “non contestazione”, questa Corte era pervenuta per via interpretativa ad affermarne l’esistenza, dapprima con riferimento al rito del lavoro (S.U, n. 761 del 2002), quindi con riferimento al rito ordinario (v. tra le altre Cass. n. 394 del 2006 e n. 19260 del 2004; n. 5356 del 2009, n. 10860 del 2011; 19896 del 2015). Il principio si fonda sulla lettera dell’art. 167 (e art. 416 c.p.c.), secondo cui il convenuto deve prendere posizione in comparsa di risposta sui fatti posti dall’attore e pertanto la loro mancata contestazione, a fronte di tale onere, costituisce di per sè adozione d’una condotta incompatibile con la negazione del fatto costitutivo della domanda, la cui prova diviene inutile. Così convenendo, la negazione dell’indennità aggiuntiva riferita alla destinazione urbanistica del bene inerisce all’evidenza ad un tema d’indagine del tutto diverso rispetto alla qualità soggettiva di coltivatrici dirette assunta dalle tre odierne controricorrenti, qualità che dunque era incontroversa.

3.2. Sotto altro profilo, peraltro, e ciò è troncante, proprio il carattere chiuso del presente giudizio, di cui si è sopra esposto, preclude la contestazione circa l’anzidetta qualità, che costituisce il presupposto di fatto su cui la sentenza rescindente ha posto il principio di diritto.

4. L’impugnata sentenza va, in conclusione, cassata in relazione al secondo motivo, ed il giudice del rinvio, che si individua nella Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione, provvederà, anche, a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il primo ed il terzo motivo, accoglie il secondo, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2020

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